di Giovanni Ferrari
Questo articolo è apparso su "CattolicaNews" il 16 ottobre 2013
Il dibattito tra il filosofo Massimo Cacciari e il politologo dell’Università di Bologna Piero Ignazi, che hanno presentato il nuovo libro di Damiano Palano, secondo cui, senza queste organizzazioni, non è possibile una politica democratica
Un tema che non ha bisogno di spiegazione. Ma accende le polemiche nell'opinione pubblica. E non solo. Come ha dimostrato il dibattito, coordinato da Paolo Messa, tra il filosofo Massimo Cacciari e il politologo dell'Università di Bologna Piero Ignazi, che hanno presentato in Cattolica il nuovo libro di Damiano Palano, docente alla facoltà di Scienze politiche e sociali, "Partito" (Il Mulino, 2013). I due studiosi, il 15 ottobre in un'affollata sala dell'università, hanno cercato di affrontare una delle grandi questioni che interroga molti politologi del nostro tempo: "Possiamo fare a meno dei partiti politici?".
«Abbiamo di fronte un libro che, riflettendo una profonda conoscenza e cultura, consente di vedere l'evoluzione della questione "partito" nel tempo», spiega Ignazi, non nascondendo di aver letto con molto piacere il volume. «Tutti sappiamo qual è la considerazione delle opinioni pubbliche di tutte le democrazie mature, e non possiamo nascondere che si tratta di una realtà non solamente italiana, ma europea». A sentir le parole di Ignazi, quindi, si capisce che in Italia non è presente una considerazione peggiore dei partiti rispetto agli altri Paesi. «Si sono indeboliti i canali della domanda, i cosiddetti input o stimoli che partono direttamente dal popolo, ma anche della risposta, gli output dei governanti - spiega -, e in questo mancato allacciamento i partiti hanno un ruolo fondamentale». Nonostante questo, però, la sensazione è quella di trovarsi in una condizione dove «i partiti non sono più in grado di essere in sintonia con la società stessa, che possiamo definire post-industriale». Ignazi non lascia scampo a interpretazioni personali: «I partiti sono diventati sempre più delle agenzie pubbliche, sempre più stato-centrici e sempre meno connessi alla società». Ma quindi, giunti a questo giudizio condiviso dalla maggior parte dei politologi, quali sono state le contromisure? «I partiti hanno preso due strade: apertura e trasparenza - afferma - cioè maggiore coinvolgimento degli iscritti, e quasi mai degli elettori». Anche se tutto questo sembra non aver dato esito.
La posizione di Massimo Cacciari va ancora più a fondo della questione. Riprendendo le parole che molti anni fa scrisse Machiavelli nel suo Principe, ha ricordato, prima di ogni cosa, che «il conflitto in sé non é male». Detta con termini ancora più vicini ai nostri tempi «il nostro pluralismo non è sempre una questione negativa». Ma quindi come creare delle istituzioni in cui tale conflitto sia "utile"? Cacciari spiega: «I partiti politici delle democrazie moderne sono stato-centrici per natura. Il partito politico moderno vive all'interno dello stato nazionale: è corpo e sangue di questa struttura in cui è inserito». La questione diventa la modalità con cui il partito possa uscire dalle logiche, talvolta così soffocanti, di tale struttura. «Da un lato c'è la dimensione della globalizzazione che riduce gli spazi di intervento dei partiti e la capacità degli stessi di dare risposte. Dall'altro la dimensione finanziaria ed economica che è ancora più importante, perché è proprio in quel contesto che si decide della nostra vita quotidiana».
Una situazione problematica per due ordini di temi: «I partiti stanno per essere schiacciati dalle grandi potenze globali e dagli organismi sovranazionali» e siamo arrivati a un punto di non ritorno nel quale «organismi provenienti dal basso possono contare di più della presa di posizione di un partito». Secondo Cacciari quello che l'opinione pubblica richiede è «competenza e potenza»: le democrazie moderne non possono accontentarsi di meno di tutto questo.
L'ultimo intervento è di Damiano Palano. «Mentre scrivevo, mi capitava di leggere ogni giorno sui giornali di questo attacco costante non tanto ai partiti visti come casta, bensì alla "forma partito"». Con questa domanda di fondo, l'autore ha cercato di ripercorrere la storia di questo tipo di organizzazione, a partire dal partito di massa del Novecento. Visto il costante allontanamento dei partiti dall'opinione pubblica, «hanno cercato di rendersi sempre più trasparenti: non ci sono riusciti e, forse, sono arrivati a risultati peggiori - dice il professore -. All'interno dei partiti non c'è alternativa: sono obbligati a scegliere tra potere del carisma e potere della cripta». Ma cosa si perderebbe se ci trovassimo in una condizione senza queste organizzazioni politiche? Rispondendo a questa domanda, Palano non esita: «Non possiamo escludere che ci possa essere democrazia senza partiti; forse non sono così indispensabili». Però, quello che emerge «non è tanto il fatto che sia impossibile la democrazia senza partiti, ma il fatto che senza i partiti non è possibile una politica democratica». In un percorso in cui storia europea e storia del partito si intrecciano in continuazione, la sfida è ancora aperta. E, come espone chiaramente Palano, «si potrebbe iniziare a lavorare proprio sulla dimensione culturale dei partiti».
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