Intervista a cura di Davide G. Bianchi
La crisi dei partiti è l’argomento del momento, ma come sempre ci sono diversi modi per affrontare il tema: ci si può schiacciare sul presente dicendo cose non sempre originali – come fanno molti – oppure guardare alla storia per avere una visuale più ampia.
Damiano Palano, giovane e bravo professore di Scienza politica all’Università Cattolica, ha scelto la seconda opzione: il suo “Partito” (da poco uscito con Il Mulino: pp. 257, pp. Euro 15.00) infatti prende le mosse da lontano per scandagliare il terreno.
Professore, partiamo dal titolo: perché i partiti… si chiamano così?
Il termine “partito” indica una parte di un intero, che ovviamente è la comunità politica. Per molti secoli, prima che fosse in uso la parola “partito” si parlava di “parti”: a Firenze, per esempio, i Guelfi avevano già un proprio statuto. Dopo l’anno Mille, nell’Italia dei comuni vi sono pressoché ovunque delle parti contrapposte che combattono per il potere. Come? Con delle elezioni per designare dei rappresentanti che prendano le decisioni politiche.
E altrove? Proprio in quel periodo nasce il parlamento inglese è corretto?
Sì, ma si devono fare delle precisazioni. La camera dei Lords prima e la camera dei Comuni poi nascono nel corso del XIII secolo, ma per lungo tempo restano sotto il tallone del sovrano. Si emancipano – se così possiamo dire – nel Seicento. Il punto decisivo in proposito è la vittoria del parlamento sull’assolutismo degli Stuart e, nel Settecento, la nascita del ‘governo di gabinetto’: si consolida così la prassi che il primo ministro, nominato dal sovrano debba avere la fiducia del parlamento.
A quel punto nascono i partiti moderni…
Esatto. Nascono intorno al problema della fiducia da accordare al governo: non è un caso che la struttura del parlamento inglese sia a scranni contrapposti. Ciò significa che i partiti si costituiscono prima in parlamento poi si organizzano nella società, non il contrario. Ancora per tutto l’Ottocento non sono particolarmente strutturati, ma soltanto schieramenti d’opinione. Nel nostro Paese non è diverso con la Destra e la Sinistra storica della stagione liberale.
A quel punto possiamo dire che i partiti hanno definitivamente superato il pregiudizio che li ha tenuti sotto scacco per lungo tempo: il sospetto di essere l’anticamera della guerra civile.
Quando avviene esattamente questa svolta nella sensibilità dei moderni?
Con la nascita della prassi parlamentare, che come dicevo si genera dapprima in Inghilterra. Si fa strada così l’idea che i partiti siano un modo di guardare all’interesse generale da un punto di vista particolare. Il primo a dirlo è proprio un parlamentare inglese: Edmund Burke. Un suo omologo arrivò a dire che un grande politico non sta dentro un partito, ma si tiene libero di scegliere di volta in volta, diversamente dai politici di basso profilo che militano proprio in ragione della propria mediocrità. Lei capisce che a questo punto siamo ben oltre il problema originario – il rischio di sedizione – e ci inoltriamo ormai nelle moderne tattiche parlamentari, se non già nelle loro degenerazioni.
Che anch’esse contribuiscono alla crisi dei partiti! Venendo all’oggi, quali sono le cause che lei vede e – se non chiediamo troppo – le vie d’uscita?
Se avessi le soluzioni farei un altro mestiere! Scherzi a parte: le difficoltà datano almeno trent’anni e sono una conseguenza del declino delle ideologie e di altri fattori (non meno importanti) che riguardano la struttura organizzativa dei partiti. Nel nostro Paese il problema è aggravato da una mobilità sociale bloccata, che genera un bassissimo ricambio nella classe politica. Si parla molto di movimenti, proprio perché questi ultimi danno l’idea dell’apertura e della fluidità, qualità che mancano completamente ai partiti attuali. Nel frattempo, grazie allo spazio assunto dai media, stiamo assistendo a forme di legittimazione politica leaderistiche, fortemente individuati, che rischiano di saltare a piedi pari il problema dei partiti – comunque lo si ponga – per tornare ai sovrani assoluti di un tempo, in cui rappresentanza e rappresentazione del potere finivano per coincidere, senza forme particolari di partecipazione.
Davide G. Bianchi
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