di Damiano Palano
Ancora oggi nei mercatini di Berlino è possibile
imbattersi in banchetti che espongono ‘autentici’ frammenti del Muro.
Naturalmente è molto difficile sapere se quei piccoli quadratini di
calcestruzzo, ricoperti da una patina di vernice variopinta, provengano davvero
dal vecchio berliner Mauer. Per il
turista si tratta d’altronde di un dettaglio trascurabile. Quel frammento
finirà dimenticato in fondo a un cassetto, come quasi tutti i souvenir di
viaggio. Ma almeno per un attimo avrà regalato la sensazione di stringere fra
le mani non un blocchetto di cemento, ma un pezzetto di Storia, un tassello
della Cortina di ferro che divise l’Europa e il mondo intero. A più di
vent’anni dal suo abbattimento la barriera eretta per separare Berlino Est
dalla parte occidentale della città continua infatti a conservare la propria densità
simbolica. Ma, come mostra lo studioso francese Claude Quétel nel suo recente Muri. Un’altra storia fatta dagli uomini
(Bollati Boringhieri, pp. 260, euro 24.00), non costituisce un caso isolato. L’attenzione
dello storico si volge infatti proprio ai “muri politici”, che non nascono
soltanto da esigenze di difesa, ma che si propongono di controllare, creare
limiti, escludere, vietare. La tappa di avvio di questa genealogia non può che
essere la Grande Muraglia cinese, iniziata nel III secolo a.C. e più volte
perfezionata nel corso del tempo. Nonostante non sia visibile dalla Luna, come
vuole una fortunata leggenda, la Muraglia rimane probabilmente la più ambiziosa
(e costosa) fortificazione mai concepita. Ma è anche una sorta di paradigma per
tutti i muri successivi. Tra cui Quétel non tralascia di ricordare il limes romano, lungo circa settemila
chilometri (ma in realtà assai discontinuo), il Vallo adriano, la linea
Maginot, eretta dalla Francia negli anni Trenta, e il Vallo atlantico,
costruito nel 1942 dalla Germania di Hitler per proteggere la ‘Fortezza Europa’
da un attacco anglo-americano.
Naturalmente si tratta di
muri molto diversi fra loro, ma alcune analogie non possono sfuggire. Tra
queste, soprattutto la sostanziale inefficacia. La Muraglia cinese non riuscì
infatti a impedire le conquiste mongole né tantomeno le lacerazioni interne. E
dal punto di vista strettamente militare si rivelò spesso controproducente. Ma
neppure il limes romano riuscì
effettivamente a elevare una barriera contro l’avanzata dei popoli germanici,
mentre la linea Maginot e il Vallo Atlantico si rivelarono poco più che bluff
costosissimi. La vera forza di tutti questi muri politici, secondo Quetél, va
d’altronde cercata soprattutto nell’efficacia ideologica, nella valenza
propagandistica, nella capacità di materializzare una frontiera simbolica tra
‘dentro’ e ‘fuori’, tra ‘civiltà’ e ‘barbarie’. Già per i romani il limes, più che una vera e propria
fortificazione, era d’altronde una barriera ‘ideologica’, che separava due modi
vivere. Esattamente come la Grande Muraglia, che intendeva racchiudere dentro
un confine la civiltà cinese.
È probabilmente in virtù del
loro carattere simbolico che i muri sembrano avere un futuro. La caduta del
Muro berlinese non ha infatti chiuso la vicenda. Da allora sono anzi
proliferate nuove linee di separazione, sempre più sorvegliate. E Quetél dedica
dunque la seconda parte del suo libro proprio alla fenomenologia dei nuovi
muri. Costruiti talvolta per separare territori in guerra (come fra le due
Coree, a Cipro, nel Sahara occidentale, fra India e Pakistan). Ma elevati anche
per proteggersi dal terrorismo, come il muro di Israele, e dall’immigrazione
clandestina, come fra Usa e Messico, o a Ceuta e Melilla, le due enclave
spagnole poste sulla costa mediterranea del Marocco. Limitandosi a un lavoro di
ricostruzione storica, Quetél non fornisce spiegazioni alla contemporanea proliferazione
dei muri politici. Più semplicemente, si limita a osservare che i muri non
forniscono una soluzione, ma danno solo risposte temporanee. Se però la
funzione principale dei muri politici è prevalentemente simbolica, è facile
dire che ogni muro è spesso destinato a diventare il simbolo di un fallimento.
Non solo perché i muri si rivelano quasi sempre incapaci di ‘chiudere’ i
territori. Ma perché ogni muro finisce col rendere ancora più visibili, e se
possibili più dolorose, le tragedie da cui vorrebbe proteggere.
Damiano Palano
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