di Raffaele Vacca
Il fascismo era fondato sul partito unico che aveva annullato gli altri, pretendendo che tutti i cittadini non si dividessero in porzioni della società, come organi di un corpo vivente, ma fossero uniti in un unico corpo.
Dopo la sua caduta, la società italiana, che era stata sollecitata dal fascismo alla mobilitazione di massa, si affidò per la ricostruzione ai partiti che erano risorti ed a quelli che erano nati. Per cui Pietro Scoppola poté definire quella italiana la Repubblica dei partiti, specialmente dal 1945 al 1990. All’inizio essi ebbero grande splendore. Poi iniziò la loro crisi e, di conseguenza, quella della Repubblica, che si manifestò con richieste di modifiche e cambiamenti.
Al “Partito” ha ora dedicato un denso saggio Damiano Palano, che è docente di Scienza politica nell’Università Cattolica di Milano. È stato recentemente pubblicato da Il Mulino nella collana “Lessico della politica”. Damiano Palano in questa sua opera ripercorre la storia del partito dai greci ai nostri tempi, ricordando come “nell’antichità, nel Medioevo e nella prima modernità non esistono organismi riconducibili all’immagine contemporanea del partito”. Questa iniziò a delinearsi dopo la Rivoluzione francese, quando si frantumò l’Antico Regime.
Nella seconda parte dell’opera, mette in evidenza come, nella seconda metà del Novecento, si sia passati dalla stagione gloriosa, durante la quale la presenza di partiti era ritenuta essenziale, anche per una personale preparazione politica, ad un tempo in cui si avverte disagio, e discredito per i partiti, che alimentano la crisi della democrazia. Nonostante ciò, Il “Partito” è un concetto che il Novecento ha trasmesso al Duemila, e che questo deve riconsiderare nella sua storia e nel suo attuale essere, per contribuire ad alimentare quella democrazia, che è ideale e speranza, che in ogni luogo ed in ogni tempo debbono essere quotidianamente attuati.
A tutto ciò ben contribuisce il libro di Palano, che opportunamente qui e là ricorda alcune fondamentali definizioni di Partito. Ad esempio quella di Max Weber, espressa quasi un secolo fa, per il quale i partiti sono “associazioni fondate su un’adesione (formalmente) libera, costituire al fine di attribuire ai propri militanti attivi possibilità (ideali o materiali) per il perseguimento di fini oggettivi o per il perseguimento di vantaggi personali, o per tutti e due gli scopi”. O quella di Giovanni Sartori, per il quale il distinguersi del partito dalle consorterie, dalle clientele, dalle fazioni fa sì che i partiti “non siano semplicemente ‘parti’, ma si inseriscono in un contesto contrassegnato da un certo grado di pluralismo e dall’accettazione delle rispettive posizioni”.
Damiano Palano ricorda come, decenni addietro, ci sia stato un tempo in cui il “Partito”, “in un mondo in disfacimento”, sembrò ad alcuni l’unica via di salvezza, consentendo che l’”angoscia individuale, i sensi di colpa, persino gli errori del singolo” trovassero finalmente un senso. Ma ricorda anche che, nel 1940, quando l’Europa era travolta dai totalitarismo, Simone Weil, nel suo “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”, scrisse che il partito “è una macchina per fabbricare passioni collettive”, è “un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte”. Nel capitolo conclusivo, mette in luce come i partiti, nati o rinati per contribuire a realizzare un’autentica democrazia in Italia, abbiano sviluppato nel loro interno una tendenza totalitaria, stringendo i loro membri e gli stessi rappresentanti politici in una ferrea disciplina ideologica, riducendo così l’effettiva libertà di espressione. E postisi al vertice dello Stato, hanno usato risorse pubbliche per finalità contrastanti con l’interesse generale, “che vanno dall’assegnazione degli incarichi nella pubblica amministrazione con criteri clientelari, all’accaparramento del finanziamento pubblico, all’erogazione della spesa pubblica per fini elettoralistici”.
Raffaele Vacca
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