di Damiano Palano
«La democrazia presente non contenta più gli animi degli onesti. Essa non rappresenta ormai che un abbassamento di ogni limite, per fare credere d’avere innalzato gli individui: mentre non si è fatto che l’interesse dei più avidi e prepotenti. Nelle elezioni trionfa il denaro, il favore, l’imbroglio; ma non accettare tali mezzi è considerato come un’ingenuità imperdonabile. Alle clientele clericali succedono le radicali, e mutato il cartello la gente resta la stessa. Tutto cade. Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Del parlamento il triste stato si ripercuote nel paese… Tutto si frantuma. Le grandi forze cedono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri di unione. Lo schifo è enorme. I migliori non han più fiducia. I giovani, se non sono arrivisti e senza spina dorsale, non entrano più nei partiti. Nelle università manca ogni moto e ogni fervore… La confusione, il disgusto, il disordine son tali che ne risentono anche i migliori…».
Benché sia molto difficile sottrarsi alla tentazione di riconoscervi un ritratto impietoso dell’Italia contemporanea, queste parole risalgono a più di un secolo fa. Giuseppe Prezzolini le scrisse infatti nel 1910, quando, dinanzi alla sempre più evidente decomposizione del sistema politico italiano, in un celebre editoriale della «Voce» pose – a se stesso e alla propria generazione – la classica domanda sul Che fare? Certo, il fatto che i toni e i motivi utilizzati da Prezzolini più di cento anni fa siano per molti versi gli stessi che anche oggi sentiamo ripetere quasi quotidianamente può indurre il sospetto che il compianto per la miserevole condizione dello spirito pubblico sia in fondo una sorta di genere letterario, una consolatoria autoassoluzione con cui l’intelligentzia italiana – nelle diverse stagioni della sua storia – intende compensare la propria incapacità di incidere politicamente, assumendo come bersaglio una classe dirigente corrotta e una società gretta e immorale. Nonostante l’esibito pessimismo, il quadro dipinto dal fondatore della «Voce» coglieva comunque alcuni elementi reali della dinamica politica italiana, e segnalava soprattutto come, nella società del tempo, andasse fermentando una crescente insofferenza nei confronti della classe politica e delle stesse istituzioni parlamentari. Si trattava senza dubbio di un’insofferenza dai tratti inediti, che negli anni seguenti sarebbe ulteriormente cresciuta, rafforzata anche dalla ‘mobilitazione totale’ richiesta dalla Prima Guerra Mondiale. Ma era anche il riflesso di un’insofferenza le cui radici intellettuali erano piuttosto profonde. La denuncia contro la conclamata corruzione dei partiti e del Parlamento, contro la proliferazione delle clientele, contro il potere del denaro, era infatti già da tempo diventata uno dei motivi centrali del dibattito pubblico. D’altronde, solo pochi anni dopo la crisi sarebbe esplosa davvero, accelerata dall’irruzione delle masse sul proscenio politico. E molti giuristi e politologi iniziarono allora a chiedersi se quei nuovi fenomeni – tra cui soprattutto l’ascesa dei partiti di massa e il protagonismo dei sindacati – non sancissero la fine del parlamentarismo, e non richiedessero nuovi meccanismi rappresentativi, tra cui in special modo una rappresentanza di tipo ‘corporativo’, capace di dar voce alle rivendicazioni delle categorie economico-sociali.
Forse anche per questo diventa oggi quasi scontato ritrovare un impressionante parallelismo fra la crisi di cento anni fa e quella che l’Italia sta vivendo oggi, e soprattutto fra la crisi delle istituzioni liberali di un secolo fa e quella ‘crisi della democrazia’ che sperimenta il nostro sistema politico. Al dibattito sempre più affollato su questo nodo si aggiunge ora la voce di Aldo Schiavone, studioso di diritto romano e docente presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (di cui è stato fondatore e direttore), ma da sempre anche attento osservatore delle trasformazioni politiche contemporanee. Nel suo recente Non ti delego. Perché abbiamo smesso di credere nella loro politica (Rizzoli, pp. 126, euro 15.00), Schiavone interviene infatti nella discussione sulle sfide che le liberaldemocrazie occidentali si trovano ad affrontare, e in particolare sulla condizione specifica del sistema politico italiano. Sotto quest’ultimo profilo, la convinzione che alimenta il discorso di Schiavone è che il ciclo apertosi con la nascita della Costituzione sia ormai giunto al capolinea, e che le elezioni del 2013 – con la sonora affermazione del Movimento 5 Stelle – abbiano sancito in modo inequivocabile l’epilogo di un’intera vicenda. In altre parole, le tensioni cui sono esposte le nostre democrazie non sono fenomeni congiunturali, destinati a essere riassorbiti con il ritorno alla ‘normalità’. Si tratta invece del risultato di mutamenti radicali, che a lungo si è voluto occultare o sottovalutare, e che per questo esplodono con tanta virulenza. Non si tratta, secondo Schiavone, di una questione puramente italiana. «La politica è stanca in tutto l’Occidente», scrive per esempio, «e con lei appare stanca la democrazia: che funziona ormai – anche nei regimi che hanno tenuto a battesimo la sua forma moderna – in un regime di bassa intensità», ossia «senza idee, senza leader, senza capacità di suscitare speranze, ma al contrario moltiplicando ogni giorno diffidenza e disaffezione» (p. 8). Dinanzi a questa «entropia democratica», in Italia si è però opposto un netto rifiuto a ogni ipotesi di cambiamento, mentre l’unica soluzione può giungere – secondo Schiavone – da una netta modificazione delle forme istituzionali, ossia da una sostanziale revisione della Costituzione e dall’introduzione di nuovi meccanismi democratici, la cui necessità è in qualche modo suggerita dai movimenti che reclamano l’adozione di una nuova democrazia elettronica. «Non basteranno ritocchi marginali e di superficie: è l’intero modello democratico che abbiamo ricevuto dai nostri padri che viene messo in discussione. Se non abbiamo bene in mente la portata della questione, non avremo nessuna possibilità di risolverla. Il successo dell’onda di Grillo – non importa ora quanto effimero, né quali saranno i suoi esiti – è di questo che ci parla, come forse stanno cominciando a rendersi conto, naturalmente prima di noi, alcuni fra i più attenti e curiosi osservatori stranieri, europei e americani: ci suggerisce qualcosa di molto più grande e complesso della forza di quello stesso movimento. Ci racconta, a modo suo, che i tempi sono maturi per la costruzione di una nuova e più esigente forma della democrazia: la forma democratica della seconda modernità – la modernità dettata dalla rivoluzione tecnologica che sta riscrivendo le nostre vite, ‘l’orizzonte del nostro vivere insieme’» (pp. 10-11).
Il contemporaneo «malessere» della democrazia secondo Schiavone non ha un’unica causa, ma è piuttosto il risultato di due dinamiche convergenti, l’una che investe dall’esterno i meccanismi democratici, l’altra che nasce invece dal cuore della rappresentanza. La prima «sindrome» - che Schiavone affronta solo fugacemente – nasce dal contrasto fra il carattere statuale degli ordinamenti democratici e la dimensione globale dei mercati, della finanza, dei flussi tecnologici. «Fra i due poli si sta consolidando un’asimmetria di poteri – poteri democratici localizzati, di fronte a poteri tecnofinanziari globali – che si risolve in un permanente scacco della democrazia, incapace di assolvere il suo compito primario: mettere in trasparenza e sotto controllo forze e soggetti in grado di condizionare il destino di interi popoli» (p. 23). La seconda «sindrome» - cui si rivolgono le considerazioni di Schiavone – chiama invece in causa la stessa delegittimazione dei meccanismi istituzionali della democrazia rappresentativa: «Essa consiste in una profonda sfiducia che il dispositivo democratico, con al centro il rapporto fra voto, rappresentanza, Parlamento e partiti, sia ancora in grado davvero di esprimere correttamente, senza stravolgimenti e usurpazioni, l’autentica volontà collettiva. Sia cioè idoneo a incarnare il principio supremo alla base dell’idea democratica: la sovranità del popolo» (p. 24). Le due sindromi ovviamente si combinano e vanno a rafforzarsi l’un l’altra, tanto da innescare una deriva arginabile – secondo Schiavone – solo con una radicale spinta di innovazione istituzionale.
Per argomentare la propria tesi, Schiavone ripercorre il lungo viaggio della democrazia, dall’Atene di Pericle fino ai sistemi rappresentativi contemporanei. In questo percorso – ricostruito solo con rapide pennellate, ma non per questo meno nitido e meno efficace – emerge soprattutto il discrimine fra due logiche: da un lato, la logica del voto, del principio maggioritario e della democrazia diretta; dall’altro, la logica della rappresentanza elettiva. Il punto che caratterizza la discussione di Schiavone non consiste però in una ripresa dei motivi classici della polemica contro quella ‘usurpazione’ del potere del popolo che sarebbe alla base del meccanismo rappresentativo, e dunque contro l’idea che il potere sovrano possa essere stabilmente ‘delegato’ dal popolo al Parlamento. Il discorso di Non ti delego si concentra piuttosto sul rapporto fra le trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche e le forme di esercizio della democrazia: è allora necessario abbandonare la convinzione che le forme della democrazia siano soltanto quelle oggi vigenti in Occidente, e che possano solo essere conservate immutate e preservate dalle diverse minacce che le investono. In altre parole, «il punto di vista statico della preservazione ha finito con il prevalere su quello dinamico dell’insoddisfazione e della ricerca del nuovo» (p. 57). E ciò risulta evidente soprattutto sul fronte del lavoro, in cui i mutamenti hanno sancito una «neoframmentazione»: «dal lavoro ai lavori; la fine di un’epoca (quella del lavoro ‘astratto’ degli economisti classici) che aveva avuto un passato glorioso, e aveva scritto la storia d’Europa. Sempre più il valore delle merci (soprattutto immateriali: informazione, servizi) non dipende dalla quantità di lavoro sociale vivo incorporato, ma dalla quantità di tecnologia. E dunque la merce per eccellenza, la merce che produce tutte le altre, è la tecnica, nelle condizioni di sviluppo date (investimenti, ricerca, comunicazione eccetera), e non più il lavoro in quanto tale» (p. 59). Proprio queste modificazioni suggeriscono allora l’idea che sia indispensabile un adeguamento delle forme istituzionali della democrazia: «come non pensare che un mutamento così profondo nelle forme della socialità produttiva non si rifletta sulle forme di una democrazia che abbiamo costruito proprio come sociale, e legata al lavoro industriale?» (p. 60).
Accanto alla trasformazione che interviene nel lavoro, un altro grande processo insidia la rappresentanza. Un processo che accentua ulteriormente la sfasatura tra i tempi della politica e i tempi di formazione dell’opinione pubblica, «fra il tempo delle domande e dei bisogni e quello delle risposte e delle decisioni» (p. 78). In altre parole, secondo Schiavone l’accelerazione dei tempi della società della comunicazione tende a scontrarsi con l’immagine di una rappresentanza cristallizzata, e per questo sempre più inadeguata. E non si tratta di un fenomeno congiunturale, legato alla crisi economica e alle sue dinamiche. Si tratta, secondo Schiavone, della conseguenza palese del mutamento tecnologico: «La rappresentanza politica è stata costruita integrando al proprio interno i limiti tecnologici di un’epoca che considerava socialmente immodificabile una separazione quasi totale fra i rappresentanti e i rappresentati dal punto di vista della mobilità, delle informazioni, dell’elaborazione delle conoscenze; e dava per scontato che l’accertamento della volontà politica di un numero comunque considerevole di cittadini sparsi su un territorio molto vasto non potesse che avvenire attraverso procedure macchinose, e realizzarsi solo in occasioni particolari, separate da una distanza di tempo molto lunga. Era perciò un’istituzione che viveva di passività, più che di attenzione permanente, e se ne alimentava. Operava su una società del silenzio, non immersa, come ora, in una discorsività totale» (p. 82).
La conclusione del discorso di Schiavone conduce allora verso l’obiettivo di una radicale riforma istituzionale, che riporti «lo scettro nelle mani del popolo». La nuova «democrazia di prossimità» non sposa pienamente le utopie della «e-democracy», e non prevede certo un completo superamento della rappresentanza, ma allude comunque a un sostanziale utilizzo di misure di democrazia diretta, consentito proprio dalle nuove tecnologie. Si tratta dunque di «una forma mista di democrazia, insieme rappresentativa e diretta, che connetta in modo ravvicinato autogoverno e delega» (p. 108). Più concretamente, Sciavone pensa non solo a una riduzione del numero dei parlamentari, ma anche a consultazioni periodiche della cittadinanza su temi predefiniti (col fine di assegnare ai cittadini un potere nel processo di produzione legislativa), a un ampio utilizzo del referendum (anche propositivo) da svolgersi periodicamente mediante votazioni telematiche, all’introduzione dell’obbligo di un referendum abrogativo o confermativo per leggi approvate dal Parlamento che tocchino temi di particolare rilevanza. E, inoltre, non esclude neppure il ricorso alla pratica del sorteggio per selezionare i rappresentanti politici, seppur solo per i consigli regionali e comunali. Accanto a queste misure, Schiavone non dimentica però il rafforzamento della leadership, e in effetti – almeno con riferimento al caso italiano – esprime il proprio netto favore per una riforma della Costituzione che introduce un sistema semi-presidenziale analogo a quello francese. Infine, il discorso non può non investire il terreno dei partiti, ormai condannati secondo Schiavone da quelle grandi trasformazioni che hanno investito le società occidentali. La democrazia mista che auspica dovrebbe piuttosto fondarsi su organizzazioni di tipo ben diverso: «Organizzazioni leggere, flessibili, a mezza strada tra movimenti e comitati elettorali, con al centro un nucleo più solido dedicato esclusivamente all’elaborazione intellettuale di grandi opzioni strategiche e al sostegno culturale dell’attività legislativa, attraverso strumenti specifici di analisi e di ricerca (fondazioni, centri di studio e così via), capaci di orientare in modo ravvicinato i cittadini nelle scelte di voto che sarebbero regolarmente chiamati a compiere. Dovrebbero insomma rifornire di idee e di alternative l’esercizio ravvicinato e diffuso della sovranità» (p. 116).
Non si può certo negare al pamplhet di Schiavone il pregio della chiarezza, ed è proprio per la capacità di indicare non solo le cause della ‘crisi della democrazia’ contemporanea, ma anche alcuni possibili correttivi, che il suo discorso spicca in un dibattito spesso incapace di immaginare soluzioni che vadano oltre le forme consolidate. Ma non è probabilmente questo l’unico merito di Non ti delego. Un secondo motivo di pregio è infatti costituito da una sorta di ‘materialismo’ democratico, ossia da una prospettiva che considera le forme istituzionali come riflesso dell’assetto delle relazioni produttive, oltre che di un determinato stato di sviluppo delle tecnologie comunicative e dei trasporti. Ed è d’altronde proprio sulla scorta di questo quadro interpretativo che Schiavone arriva a celebrare una sorta di De profundis per la democrazia rappresentativa.
Se la chiave ‘materialista’ con cui guarda alle difficoltà della democrazia contemporanea è molto probabilmente l’elemento di maggiore interesse dell’analisi di Schiavone, è però proprio attorno a questo modo di osservare le trasformazioni sociali che emergono alcuni limiti. Quando Schiavone rileva il dato della frammentazione dei lavori, coglie senza dubbio un elemento incontestabile, così come quando riconosce la centralità della produzione immateriale. Inoltre, quando segnala lo scarto sempre più ampio fra i tempi della rappresentanza e i tempi della società dell’informazione, evidenzia una dinamica che è diventata oggi palese anche al più distratto degli osservatori. Il punto è però che Schiavone tiene ben ferma l’impostazione ‘materialista’ quando ricostruisce la senescenza della democrazia rappresentativa, mentre tende ad abbandonarla quando si volge alle soluzioni in grado di dar forma a una nuova democrazia «mista». D’altro canto, se riconosce che all’origine della crisi contemporanea stanno componenti ‘interne’ ed ‘esterne’, le soluzioni che propone si limitano a incidere sulle prime, tralasciando le seconde. E un simile ragionamento non può che risultare in qualche modo contraddittorio. Perché, mentre per un verso si afferma che la crisi odierna è ‘determinata’ da trasformazioni economiche e tecnologiche, dall’altro si lascia del tutto inesplorata la domanda sulla effettiva capacità che avrebbe la democrazia mista auspicata da Schiavone di rispondere alla crisi che sperimentano gli Stati occidentali nel controllare i flussi di capitali e informazioni. Anche perché la risposta – molto probabilmente – sarebbe sostanzialmente negativa.
La prospettiva ‘materialista’ non può naturalmente essere sufficiente per dipanare la matassa delle sfide che investono i sistemi democratici occidentali. Anche perché, vale la pena sottolinearlo, il meccanismo della rappresentanza si fonda sempre su una dinamica di ‘rappresentazione’ – e cioè sulla costruzione simbolica del ‘popolo’ – che non è riducibile a uno schema ‘materialista’. Ciò nondimeno, anche da una prospettiva che consideri da un’ottica ‘materialista’ le trasformazioni della democrazia possono giungere alcuni elementi di comprensione della crisi che stiamo vivendo. Non è però sufficiente considerare la ‘tecnologia’, le modalità della comunicazione, o i settori produttivi dell’economia. Più importante è, probabilmente, ricostruire la geografia del potere che sta al di sotto delle istituzioni democratiche, e che certo riflette – seppur non in termini deterministici – l’assetto di una società. In altre parole, è necessario ragionare in termini di rapporti di forza, per comprendere se, e fino a che punto, esista quella pluralità effettiva di soggetti che consente una dinamica democratica. La democrazia ateniese fu in parte – se si vuole adottare una chiave materialista – anche il prodotto di un mutamento nelle tecniche di navigazione, che consegnò al demos di una potenza marittima uno straordinario potere anche sul terreno politico. E la stessa democrazia novecentesca – la democrazia che si definisce nel corso del New Deal e che si estende al resto del mondo occidentale dopo il 1945 – aveva alla base il pluralismo reale proprio delle società ‘fordiste’, un pluralismo che non solo si traduceva in una latente conflittualità interna, ma che addirittura ‘interiorizzava’ il conflitto internazionale della Guerra fredda. Ora naturalmente quella società non esiste più, e giustamente Schiavone lo riconosce, facendo derivare dal tramonto di quella stagione la conseguenza logica dell’obsolescenza delle istituzioni rappresentative. Ma invece di ricercare le tracce di un nuovo pluralismo, invece di puntare lo sguardo sulla possibile strutturazione di nuovi poteri reali – capaci magari di rappresentare alcuni segmenti del frammentato fronte del lavoro – Schiavone si limita a guardare a possibili correttivi tecnici. Correttivi che non sono privi di una loro validità, ma cui è quantomeno generoso riconoscere la capacità di invertire la rotta. Non perché la «e-democracy», i referendum, o persino il sorteggio non siano soluzioni meritevoli di considerazione, e su cui vale senza dubbio la pena riflettere con attenzione, così come le pratiche di democrazia deliberativa sperimentate in diversi contesti. Ma perché si tratta di ‘forme’ che non possono compensare il vuoto di ‘forza’, e cioè di soluzioni che non possono minimamente surrogare l’assenza di un equilibrio di poteri nella società, o la difficoltà dello Stato di controllare i flussi globali. E se non poggia le radici su soggetti reali, radicati nella società e politicamente organizzati, ogni progetto di revisione istituzionale – per quanto innovativo esso sia – rischia di rivelarsi troppo fragile.
Ma ogni analisi sulle nostre democrazie non può per questo limitarsi a considerare la ‘crisi’ odierna come l’effetto della combinazioni di processi ‘interni’ ed ‘esterni’, ragionando ‘come se’ si trattasse realmente di processi fra loro indipendenti. La crisi odierna è infatti l’esito terminale di una trasformazione che ha iniziato a investire le società occidentali negli anni Settanta, e che affonda le radici nel tramonto di un ciclo sistemico, nel lungo crepuscolo dell’«era americana». Certo non tutto risulta ‘determinato’ dalla transizione geo-economica e geo-politica, ma tutti i tasselli della ‘crisi della democrazia’ che abbiamo sotto gli occhi – dalla crisi fiscale, alla crisi finanziaria, al passaggio dal ‘fordismo’ al ‘postfordismo’, alla crisi dei grandi partiti di massa – risultano pienamente comprensibili all’interno di questo grande mosaico (cui certo si aggiunge la specificità dell’unione monetaria in Europa). Forse dovremmo cercare allora di guardare con meno provincialismo a quello che avviene sotto i nostri occhi, e tentare di distinguere più nettamente i problemi di funzionamento del meccanismo democratico dalle grandi trasformazioni che vengono a insidiare quelle forme che consideriamo come un dato acquisito. D’altronde, Atene perse probabilmente la guerra contro Sparta anche per il cattivo funzionamento delle sue istituzioni democratiche, o perché le scelte del popolo si rivelarono in qualche caso quantomeno poco oculate. Ma – come sappiamo – non furono certo questi elementi a sancire il tramonto delle poleis dinanzi all’incedere di nuovi grandi imperi. E, nonostante tutto, non possiamo affatto escludere che una sorte simile non debba prima o poi toccare anche alle nostre democrazie.
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