Questa recensione è apparsa su "Avvenire" del 29 giugno 2013.
Alla metà degli anni Cinquanta il sociologo Charles Wright Mills scrisse che la democrazia americana era in pericolo. Per effetto delle trasformazioni economiche e dello sviluppo delle tecnologie militari, una compatta “élite del potere” si stava impossessando di tutte le principali istituzioni. E, in questo modo, la democrazia rischiava di essere di fatto svuotata dal dominio di una nuova oligarchia. Negli ultimi anni l’immagine delineata da Mills è spesso tornata nelle più allarmate diagnosi sullo stato di salute delle nostre democrazie. Molti hanno infatti ravvisato i contorni di una strabiliante accumulazione del potere nelle mani di ristrette élite globali. E i dati sulla concentrazione della ricchezza e sull’aumento delle diseguaglianze non hanno certo indebolito una simile sensazione.
Forse è proprio per questo che la lettura dell’ultimo saggio di Moisés Naím, La fine del potere (Mondadori, pp. 394, euro 20.00), risulta tanto suggestiva. Per l’analista venezuelano, direttore per circa un decennio di “Foreign Policy”, l’immagine di una pervasiva “élite del potere” è infatti soltanto un mito, sempre meno realistico. Naím individua al contrario i contorni di una trasformazione che sta modificando alla radice le stesse modalità di esercizio del potere. In sostanza da una trentina d’anni alcuni processi hanno iniziato a ‘disperdere’ il potere in precedenza ‘concentrato’ nelle grandi organizzazioni. Così, se per circa un secolo il segreto per vincere la battaglia del potere (politico, economico, militare) erano state le grandi dimensioni e l’organizzazione burocratica, oggi quel ciclo sembra essersi chiuso. Ciò significa che i diversi strumenti con cui può essere esercitato il potere (come la costrizione, la persuasione e la ricompensa materiale) sono a disposizione anche dei ‘piccoli’. E pare sia giunto allora il momento dei ‘micropoteri’. Poteri che nella maggior parte dei casi non hanno la capacità di prendere il posto dei ‘grandi’, ma che riescono comunque a insidiarne la posizione, a minacciarne la sicurezza, a logorarne l’autorevolezza.
A differenza di molti osservatori, Naím non ritiene che l’ascesa dei ‘micropoteri’ sia soltanto un effetto dello sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione. Alla base della contemporanea dispersione stanno invece processi più generali: le rivoluzioni del più, della mobilità e della mentalità. La crescita demografica degli ultimi decenni e l’incremento della mobilità hanno reso infatti meno controllabili le persone, i territori e le frontiere. Ma, soprattutto, il significativo miglioramento delle condizioni medie di vita (al di fuori dell’Occidente) ha innescato la crescita delle aspettative in una fascia consistente della popolazione mondiale, diventata così molto più disponibile a mobilitarsi. Naturalmente questi processi hanno molti effetti positivi, e fra questi Naím non manca di riconoscere la diffusione globale della democrazia. Ma il suo discorso punta piuttosto a mettere in luce gli aspetti problematici. Perché la proliferazione dei ‘micropoteri’ – a livello nazionale e internazionale – rende sempre più debole ogni autorità di governo, tanto da minacciare così la stessa stabilità politica.
Il quadro dipinto da Naím può apparire forse eccessivamente pessimistico. Ciò nondimeno, è difficile non riconoscere come La fine del potere colga efficacemente le radici dell’ingovernabilità contemporanea. Un’ingovernabilità che affonda, prima ancora che nella complessità dei problemi, nel clima di scetticismo e sfiducia che investe le nostre società. I ‘micropoteri’ si limitano infatti a proporre suggestive semplificazioni, ma non sono in grado di rafforzare una costante azione di governo. Ed è per questo che il vero rimedio alla ‘dispersione del potere’, accanto a una revisione dei meccanismi costituzionali, consiste per Naím nella rigenerazione dei partiti e dei canali della partecipazione politica. Perché proprio la fiducia dei cittadini può consegnare alle autorità di governo lo strumento più prezioso per affrontare le sfide del XXI secolo.
Damiano Palano
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