di Massimiliano Panarari
Sembrava un tema desueto. Un’“anticaglia otto-novecentesca”, direbbe qualcuno, nel momento in cui il passaggio dal fordismo al postfordismo ha siglato anche la fine della rivoluzione organizzativa dei partiti di massa (come raccontato, non troppo tempo fa, da Marco Revelli nel suo Finale di partito, Einaudi).
Oppure un topic da scienziati della politica, quindi roba per specialisti e non per chi la politica la intende come pratica e azione (anche se, specialmente in questa fase, verrebbe una gran voglia di maggiore action…). E un oggetto di polemica virulenta contro la “sorpassata” Repubblica dei partiti, in un contesto nel quale l’antipartitismo è tracimato, tra movimentismo grillino (sul quale si può utilmente leggere il testo di Roberto Biorcio e Paolo Natale, Politica a 5 stelle, Feltrinelli, pp. 156, euro 14) e ideologie antipolitiche (su cui si segnala un libro dello storico Salvatore Lupo, Antipartiti, Donzelli, pp. 266, euro 19).
Fatto sta che, da alcune settimane a questa parte, nella cornice del dibattito politico è entrata, prepotentemente, la questione della forma-partito. Al riguardo, il nostro “sistema Paese”, come noto, ha brevettato due formule politologiche inedite, di cui detiene una sorta di copyright mondiale. Ovvero, il “partito azienda”, del quale si torna a parlare in questi giorni, tra il ritorno di Forza Italia in versione “leggera” e le fuoriuscite dal Movimento 5 stelle – “partito non partito” a elevato tasso digitale – di transfughi che accusano la coppia al comando di averlo trasformato in senso “aziendalista”; e il “partito personale”, secondo la fortunata formula coniata da Mauro Calise.
Ma di forma-partito si dibatte, innanzitutto, e logicamente, in casa dei democratici. Perché, nella fattispecie, la forma(-partito) è sostanza e, nel caso del Pd, non poco dipende, non soltanto dell’efficacia politica, ma anche della ragione sociale e perfino “ideale”, dalla modalità organizzativa che si sceglierà.
Che, infatti, è anche, in certo qual modo, “cognitiva”, come (verosimilmente) direbbe Fabrizio Barca, il quale su tale problematica ha scritto un documento, assai citato, anche sulla scorta di un recente libro – Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza, pp. 154, euro 14) – del politologo dell’Università di Bologna Piero Ignazi. Secondo cui i partiti, lungi dall’essersi indeboliti, hanno aumentato la loro forza, crescendo sino a diventare dei novelli e contemporanei Leviatani, che hanno accumulato funzioni e occupato il potere (appropriandosi, nelle vesti di cartel party, delle risorse pubbliche delle istituzioni), ma si sono progressivamente (e drammaticamente) allontanati dalla società civile. Tanto forti, appunto, ma altrettanto delegittimati.
I duellanti che si preparano al congresso – Matteo Renzi, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Gianni Pittella – incroceranno dunque, necessariamente, le loro lame anche su questo tema. La cosa vale per i big, ma anche per coloro che chiedono di partecipare di più in quanto, sostanzialmente, “nativi democratici”. I Future dem, per fare un esempio, invocano un “partito smart”, molto internettiano, tutto innovazione e digitalizzazione, una proposta “estrema” che nulla ha più a che fare con la materialità e “densità” del partito di massa, ma neppure con quella (talvolta piuttosto discutibile) del catch-all party o, men che meno, con quella, assai ristretta, dell’antico partito notabilare.
E, invece – anche per ragioni generazionali – il fermento che accomuna, tra posizioni ben distinte, le mille sigle degli autoconvocati ha sussunto in maniera quasi ontologica la centralità della comunicazione; perché la sinistra dovrebbe avere finalmente compreso che senza abilità comunicative si va poco lontano, e gli atteggiamenti rétro e di sufficienza nei confronti delle tecniche di comunicazione, a meno di essere degli intellettuali francofortesi, andrebbero definitivamente consegnati al vintage, se non (nessuno si inquieti per il termine, perché si parla di stereotipi e comportamenti, e non di persone…) “rottamati” per direttissima.
Per i giovani pd, giustamente attratti dallo scintillio delle castellsiane “reti di indignazione e di speranza”, piuttosto che per i reduci dal Politicamp o per gli “ateniesi” potrebbe allora rivelarsi proficua anche una rapida immersione nei fondamentali della storia e della nozione partitica. Una lettura proficua, in tale senso, coincide con un libro scritto dal politologo della Cattolica di Milano Damiano Palano e dedicato al Partito (il Mulino, pp. 258, euro 15): una carrellata dalle fazioni che popolavano la politica nel mondo antico greco-romano allo “Stato dei partiti” e alla “democrazia dei partiti”, quando, alfine, è riuscito loro di superare la plurisecolare diffidenza che li circondava e di farsi accettare come un pilastro importante, e irrinunciabile, dei sistemi parlamentari e rappresentativi.
Oggi, per i corsi e ricorsi storici (e gli eterni ritorni…), sono ripiombati nell’occhio del ciclone del discredito: ecco la ragione per la quale discutere della loro forma e dei loro percorsi organizzativi interni significa anche andare alla ricerca di nuove fonti e basi di legittimazione. Nella consapevolezza che le formazioni politiche possono – meglio, devono – essere criticate anche duramente e senza sconti (come fece, per ricordare un precedente illustre di fine anni Quaranta, Adriano Olivetti nel suo Democrazia senza partiti), ma che in assenza di una forma-partito “ben formata” e “ben temperata” e, soprattutto, autenticamente democratica (e qui arrivano i due intricatissimi nodi gordiani dei meccanismi partecipativi e della selezione delle sue élites dirigenti), la postdemocrazia paventata da Colin Crouch avanza inesorabile.
E, in tale scenario, non riusciremo a schiodarci da una democrazia del pubblico fondata sulla conquista (per via politicistica o populistica) di un elettorato-audience, che, come evidente, è un regime alquanto differente da una democrazia liberal-rappresentativa edificata (anche) sulla battaglia delle idee.
E, allora, vien da dire: sì, il dibattito (sulla forma-partito) sì…
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