lunedì 29 luglio 2013

La “doppia preferenza” funziona? Un bilancio provvisorio dopo le elezioni amministrative di maggio (un commento da "Cronache e Opinioni")


di Damiano Palano


 
Questo commento alle elezioni amministrative del 26-27 maggio è apparso sul mensile "Cronache e Opinioni" (6/2013)
 
Al di là della marcata diminuzione dei votanti, l’aspetto più interessante delle elezioni amministrative del 26-27 maggio è consistito probabilmente nella prima prova della cosiddetta “doppia preferenza di genere”, introdotta dalla legge 23 novembre 2012, n. 215. L’obiettivo della legge, che modifica la normativa sull’elezione dei consigli comunali, consiste nel riequilibrare la rappresentanza di genere nelle amministrazioni locali. Più specificamente, per i comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti, la legge prevede che nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi (anche se solo nei comuni con più di 15.000 abitanti il mancato rispetto di questa quota può determinare la decadenza della lista). Inoltre, la nuova norma consente all’elettore di esprimere non più solo una, ma due preferenze: queste due preferenze devono però riguardare candidati di sesso diverso (in caso contrario, la seconda preferenza viene annullata).

La discussione della legge è stata accompagnata da qualche polemica, anche perché alcuni osservatori hanno paventato il rischio che la doppia preferenza possa essere piegata a finalità improprie (tra cui soprattutto il controllo clientelare del  voto). Al di là di tali perplessità, è ora possibile valutare quali effetti ha avuto la nuova legge sulla composizione dei consigli, quantomeno nei sedici comuni capoluogo coinvolti dalla consultazione amministrativa. Da questo punto di vista, i risultati sembrano piuttosto positivi, e appare così sostanzialmente confermata la tendenza già registrata nelle elezioni regionali campane del 2010. La Regione Campania ha in effetti già adottato da alcuni anni una normativa molto simile a quella poi entrata in vigore a livello nazionale, con esiti rilevanti: in seguito all’introduzione della nuova legge, nel 2010 il numero delle donne elette nel Consiglio regionale risultò infatti pari a 14, mentre nel 2005 era stato solo di 2 (altre 5 donne erano state però elette nel cosiddetto ‘listino’ del presidente). Inoltre, secondo una stima realizzata dall’Istituto Cattaneo, in quell’occasione circa un elettore su sei optò per la “doppia preferenza”. E proprio tali tendenze sembrano essere confermate dal risultato delle amministrative di maggio.

È piuttosto complesso valutare quanti elettori abbiano effettivamente scelto di utilizzare lo strumento della “doppia preferenza”. Ciò nondimeno, è agevole riconoscere che nei sedici comuni capoluogo coinvolti dalle ultime elezioni il numero di donne elette è sensibilmente cresciuto, in termini assoluti e relativi. Secondo un rapporto realizzato dal Centro Italiano di Studi Elettorali, la quota di consiglieri donna è passato infatti dall’11,2% delle precedenti amministrative al 27,9% del 2013. E tale incremento accomuna peraltro tutte le aree del paese, sebbene appaia leggermente più consistente nei comuni del Nord (30,2%), che in quelli del Centro-Sud (28,8%) e della cosiddetta ‘zona rossa’ (26,6%). Dal punto di vista della collocazione politica, l’aumento della quota di rappresentanti donne coinvolge inoltre tutte le forze politiche, anche se in modo non omogeneo. La presenza femminile appare particolarmente elevata fra gli eletti del Movimento 5 Stelle, arrivando al 38,5% del totale (10 su 16 consiglieri eletti), e all’interno del centro-sinistra, dove raggiunge il 30,4% (pari a 322 consigliere). Nonostante la performance negativa abbia determinato il dimezzamento dei consiglieri del centro-destra, le donne sono comunque notevolmente aumentate in termini relativi anche in quest’area (passando dall’8,8% al 22,5%).

In sede di bilancio, è opportuno evitare conclusioni affrettate sugli effetti della “doppia preferenza”. I dati a disposizione sono ancora piuttosto limitati, e sarebbe inoltre improprio generalizzare la portata di risultati che rimangono sempre influenzati dal contesto locale. Inoltre, è bene tenere presente che non è possibile distinguere chiaramente gli effetti prodotti dalla “doppia preferenza” da quelli innescati dalla norma che stabilisce che uno dei sessi non possa essere rappresentato per più di due terzi in ciascuna lista. A dispetto di tutti questi motivi di cautela, è però possibile affermare che il combinato disposto delle misure previste dalla legge 215/2012 ha avuto un impatto significativo, quantomeno perché ha indotto i partiti a modificare la loro offerta politica. Se il bilancio sull’efficacia della “doppia preferenza” rimane dunque ancora provvisorio, il quadro delle amministrative 2013 non può però che risultare ancora in chiaroscuro per quanto concerne il riequilibrio della rappresentanza. Nonostante la percentuale di donne nei consigli comunali sia aumentata, è infatti difficile non segnalare come Valeria Mancinelli, eletta ad Ancona nella coalizione di centro-sinistra, sia l’unica donna fra i sedici nuovi sindaci dei comuni capoluogo. E tale sproporzione risulterebbe probabilmente confermata anche se si andasse a considerare la proporzione di donne fra i candidati alla poltrona di sindaco proposti dalle diverse liste. In altre parole, ciò significa che la discriminazione di genere continua a essere estremamente radicata nella classe politica italiana, soprattutto per quanto riguarda i meccanismi di selezione della leadership. Certo non si tratta di vincoli che possano essere scardinati solo con interventi legislativi. Ma anche dalla loro rimozione dipendono le sorti del rinnovamento dei partiti e la qualità della nostra vita politica. 

Damiano Palano

lunedì 22 luglio 2013

Dietro la maschera del nemico. "Tu sei il mio nemico. Per una filosofia dell’inimicizia" di Alessandra Papa

di Damiano Palano



Questa recensione è apparsa su "Avvenire" del 15 giugno 2013.

Nella lingua latina il termine hostis presenta sempre una strutturale ambivalenza. Con questo vocabolo si intendono infatti, al tempo stesso, lo straniero e il nemico, senza che sia chiaro dove passi la linea di separazione fra l’uno e l’altro, e cosa effettivamente distingua colui che non appartiene alla comunità dal vero e proprio nemico. L’ambivalenza risulta peraltro ancora più marcata nel latino arcaico, in cui l’hostis è soltanto lo straniero, o meglio l’ospite, con il quale si intrattiene una relazione pacifica, e verso il quale – come in seguito nei confronti dell’hospes – è necessario onorare gli obblighi dell’ospitalità. Ma proprio da questa ambiguità, come ha segnalato Umberto Curi, sembra affiorare la natura ‘anfibia’ dello straniero: per un verso ospite prezioso, da rispettare e omaggiare; per l’altro, presenza inquietante, sempre sul punto di trasformarsi in una minaccia per la sicurezza della comunità, in un vero e proprio nemico da respingere oltre il confine domestico.
Nel suo recente Tu sei il mio nemico. Per una filosofia dell’inimicizia (Vita e Pensiero, pp. 187, euro 20.00, prefazione di Adriano Pessina), Alessandra Papa indaga proprio la figura del nemico, calandosi nelle tenebre più oscure della violenza politica e della guerra. E anche Papa giunge a individuare un’ambivalenza, cui alludono i versi di William Blake posti a epigrafe del volume: “Ti prego, sii mio nemico, in nome dell’amicizia”. In sostanza, il nemico – in quanto minaccia, in quanto avversario – può diventare elemento prezioso di definizione della nostra identità. Con un percorso che si snoda fra Eschilo, Omero e le tragedie del Novecento, Papa ricerca però soprattutto le tracce di un ethos dell’inimicizia. Perché la convinzione della studiosa è che persino nelle più brutali manifestazioni del conflitto sia possibile ravvisare un fondamento etico: un fondamento che non impedisce lo scontro violento, ma che presuppone comunque il reciproco riconoscimento da parte dei nemici di una comune appartenenza al genere umano. In altre parole, persino dinanzi al nemico “non possiamo mai perdere la nostra memoria ontologica: dimenticare cioè il fatto che, anche nelle relazioni difficili, restiamo di fronte a un uomo, uomini noi stessi”.
Naturalmente le guerre del Ventesimo secolo sono molto diverse da quelle cantate da Omero, ed è proprio da questa prospettiva che Papa considera il rischio che la violenza trascenda ogni ethos. E soprattutto che il nemico diventi un “nemico assoluto” (come avviene secondo Papa nella riflessione di Carl Schmitt). Ripercorrendo la traiettoria indicata da Hannah Arendt, il punto estremo di assolutizzazione del nemico deve essere infatti riconosciuto nella costruzione del “nemico oggettivo”: un nemico che è considerato una minaccia non per la propria condotta ‘soggettiva’ o per le sue idee, ma per le sue caratteristiche ‘oggettive’. È in questo senso che la “tanathopolitica” del totalitarismo può fondere tra loro le figure del nemico e del malato, e ritrovare così la minaccia politica nel ‘malato’, in ciò che ‘infetta’ il corpo sano del popolo. All’interno di una simile logica, il nemico viene allora spersonalizzato, spogliato della sua ‘maschera’ sociale e al tempo stesso privato della sua natura di ‘persona’. Rimane così soltanto “nuda vita”. Una vita che coincide con una condizione sub-umana, e cui è negata persino l’identità.
Al termine del suo percorso, Papa riconosce allora il vero problema nel rischio che l’inimicizia degeneri in violenza totalitaria, “creando segreti, nemici totali, corpi ostili, minacciando le generazioni future”. Ma – si potrebbe aggiungere – non è solo il totalitarismo a ricercare costantemente nuovi nemici, e a spingere a costruire nemici fittizi. Perché è per molti versi la stessa logica della politica, con le sue più misteriose e sinistre ‘regolarità’, a replicare costantemente la contrapposizione fra amicus e hostis. E a riproporre tragicamente nuove (e sempre più subdole) strategie di disumanizzazione del nemico. 

Damiano Palano

lunedì 15 luglio 2013

Una democrazia oltre i partiti? Un articolo su "Cronache e Opinioni"




di Damiano Palano

Questo testo è apparso nel numero 5/2013 di "Cronache e Opinioni" .

Nel pensiero occidentale l’idea di partito è circondata da una fama sinistra. Le ‘fazioni’, le ‘parti’, le ‘partialitates’ vengono quasi invariabilmente percepite come una minaccia per la concordia della comunità e come un fattore di potenziale disgregazione dell’ordine politica. E le cose non cambiano in modo rilevante neppure con l’affermazione del sistema parlamentare. Nel contesto britannico, i partiti incominciano a conquistare  una faticosa di legittimazione già alla fine del Settecento, quando Edmund Burke li definisce come ‘connessioni onorevoli’, in qualche modo indispensabili per il funzionamento delle assemblee parlamentari. Ma ancora per gran parte dell’Ottocento sono ancora generalmente intesi soltanto come consorterie che antepongono il loro interesse alle esigenze dello Stato. Un mutamento sostanziale interviene solo a cavallo tra Otto e Novecento, quando emerge il nuovo “partito di massa”. A differenza delle vecchie formazioni parlamentari, i nuovi partiti sono caratterizzati da una robusta organizzazione capillarmente diffusa sul territorio, da apparati di mobilitazione e propaganda, da associazioni collaterali, oltre che da una marcata impronta ideologica o subculturale. Tutti i grandi partiti del Novecento si trovano così ad adottare una struttura contrassegnata dalle sezioni, dal ruolo attivo dei militanti, da un ceto di “politici di professione” e da una burocrazia (più o meno estesa) di funzionari di partito. Segnando (anche dolorosamente) la storia del XX secolo, la comparsa dei partiti di massa modifica il modo di fare politica. Soprattutto nell’Europa occidentale, la presenza di grandi organizzazioni, profondamente radicate nel tessuto sociale, trasforma infatti il confitto politico in una sorta di lenta ‘guerra di posizione’, sempre sul punto di degenerare in scontro aperto. In molti casi, l’irruzione delle masse sulla scena politica ha conseguenze drammatiche per le istituzioni rappresentative. Ma, anche per questo, a partire dalla crisi degli anni Venti e Trenta la democrazia può essere concepita solo come una democrazia fondata sui partiti, i quali – offrendo un fondamentale collegamento fra la società e le istituzioni statali – consentono di trovare un ‘compromesso’ all’interno dell’arena parlamentare. 
Se la ‘democrazia dei partiti’ vive la stagione di massimo fulgore negli anni Cinquanta e Sessanta, dal decennio seguente la situazione inizia però a modificarsi sensibilmente. Il ruolo di collegamento fra società e istituzioni che i partiti hanno faticosamente conquistato viene infatti insidiato da due processi convergenti. Da un lato, tutti i paesi europei – anche se con ritmi diversi – sono coinvolti da una crescente disaffezione nei confronti dei partiti, puntualmente confermata dai sondaggi d’opinione, dal calo degli iscritti, dall’indebolimento dei sentimenti di appartenenza. Dall’altro, i partiti cominciano a cambiare la loro struttura organizzativa in vista delle esigenze poste dalla mediatizzazione. A partire dagli anni Settanta e Ottanta assumono così i contorni di partiti “professionali-elettorali”: organizzazioni il cui obiettivo principale è conquistare cariche pubbliche e che utilizzano professionisti specializzati nella comunicazione e nella rilevazione delle opinioni. Nel contesto di una competizione prevalentemente spettacolarizzata, il flusso comunicativo fra cittadini e partiti passa d’altronde attraverso i media (e in special modo dalla televisione). Il vertice dei partiti tende allora a diventare sempre più importante, mentre la base dei militanti diventa sempre meno rilevante, perché il successo dipende quasi esclusivamente dalla ‘visibilità’ del leader e dall’efficacia della sua comunicazione. E così crescono anche le esigenze economiche, soddisfatte soprattutto dal finanziamento pubblico, oltre che da sostegni illeciti. 
Nel 1942 il politologo americano Eric Elmer Schattschneider scrisse che la democrazia poteva essere concepita solo come una democrazia di partiti. Se questa affermazione continua a essere valida, la trasformazione contemporanea dei partiti e la profonda crisi di legittimazione che li investe non possono però non destare più di qualche allarme. Le democrazie occidentali stanno infatti attraversando una crisi profonda, che certo non dipende (soltanto) dai partiti, ma in cui essi risultano pienamente coinvolti. Anche per questo non è più sufficiente guardare nostalgicamente ai partiti di massa del Novecento, o pensare che i partiti possano ancora ‘monopolizzare’ la rappresentanza del pluralismo in una società articolata e frammentata come quella odierna. Il ripensamento della forma-partito non può dunque evitare di confrontarsi con le nuove modalità di organizzazione, con l’esigenza di una partecipazione più diretta, con la realtà di una società abissalmente differente da quella del ‘secolo breve’. Al tempo stesso, la ridefinizione della forma-partito non può però mancare di riconoscere che i partiti del Novecento non sono stati soltanto ‘strumenti’ per conquistare il potere, ma anche ‘educatori’, costruttori di visioni e miti politici. Ed è invece proprio su questo versante che i partiti di appaiono in larga parte disarmati, incapaci di rispondere davvero a una crisi che è soprattutto – se non esclusivamente – una crisi di fiducia nel futuro.

Damiano Palano



venerdì 12 luglio 2013

Il partito? E' tornato. Un articolo di Massimiliano Panarari su "Europa"


di Massimiliano Panarari

Questo articolo di Massimiliano Panarari è apparso su "Europa" di giovedì 11 luglio 2013

Sembrava un tema desueto. Un’“anticaglia otto-novecentesca”, direbbe qualcuno, nel momento in cui il passaggio dal fordismo al postfordismo ha siglato anche la fine della rivoluzione organizzativa dei partiti di massa (come raccontato, non troppo tempo fa, da Marco Revelli nel suo Finale di partito, Einaudi). 

Oppure un topic da scienziati della politica, quindi roba per specialisti e non per chi la politica la intende come pratica e azione (anche se, specialmente in questa fase, verrebbe una gran voglia di maggiore action…). E un oggetto di polemica virulenta contro la “sorpassata” Repubblica dei partiti, in un contesto nel quale l’antipartitismo è tracimato, tra movimentismo grillino (sul quale si può utilmente leggere il testo di Roberto Biorcio e Paolo Natale, Politica a 5 stelle, Feltrinelli, pp. 156, euro 14) e ideologie antipolitiche (su cui si segnala un libro dello storico Salvatore Lupo, Antipartiti, Donzelli, pp. 266, euro 19).

Fatto sta che, da alcune settimane a questa parte, nella cornice del dibattito politico è entrata, prepotentemente, la questione della forma-partito. Al riguardo, il nostro “sistema Paese”, come noto, ha brevettato due formule politologiche inedite, di cui detiene una sorta di copyright mondiale. Ovvero, il “partito azienda”, del quale si torna a parlare in questi giorni, tra il ritorno di Forza Italia in versione “leggera” e le fuoriuscite dal Movimento 5 stelle – “partito non partito” a elevato tasso digitale – di transfughi che accusano la coppia al comando di averlo trasformato in senso “aziendalista”; e il “partito personale”, secondo la fortunata formula coniata da Mauro Calise.

Ma di forma-partito si dibatte, innanzitutto, e logicamente, in casa dei democratici. Perché, nella fattispecie, la forma(-partito) è sostanza e, nel caso del Pd, non poco dipende, non soltanto dell’efficacia politica, ma anche della ragione sociale e perfino “ideale”, dalla modalità organizzativa che si sceglierà.

Che, infatti, è anche, in certo qual modo, “cognitiva”, come (verosimilmente) direbbe Fabrizio Barca, il quale su tale problematica ha scritto un documento, assai citato, anche sulla scorta di un recente libro – Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza, pp. 154, euro 14) – del politologo dell’Università di Bologna Piero Ignazi. Secondo cui i partiti, lungi dall’essersi indeboliti, hanno aumentato la loro forza, crescendo sino a diventare dei novelli e contemporanei Leviatani, che hanno accumulato funzioni e occupato il potere (appropriandosi, nelle vesti di cartel party, delle risorse pubbliche delle istituzioni), ma si sono progressivamente (e drammaticamente) allontanati dalla società civile. Tanto forti, appunto, ma altrettanto delegittimati.

I duellanti che si preparano al congresso – Matteo Renzi, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Gianni Pittella – incroceranno dunque, necessariamente, le loro lame anche su questo tema. La cosa vale per i big, ma anche per coloro che chiedono di partecipare di più in quanto, sostanzialmente, “nativi democratici”. I Future dem, per fare un esempio, invocano un “partito smart”, molto internettiano, tutto innovazione e digitalizzazione, una proposta “estrema” che nulla ha più a che fare con la materialità e “densità” del partito di massa, ma neppure con quella (talvolta piuttosto discutibile) del catch-all party o, men che meno, con quella, assai ristretta, dell’antico partito notabilare.

E, invece – anche per ragioni generazionali – il fermento che accomuna, tra posizioni ben distinte, le mille sigle degli autoconvocati ha sussunto in maniera quasi ontologica la centralità della comunicazione; perché la sinistra dovrebbe avere finalmente compreso che senza abilità comunicative si va poco lontano, e gli atteggiamenti rétro e di sufficienza nei confronti delle tecniche di comunicazione, a meno di essere degli intellettuali francofortesi, andrebbero definitivamente consegnati al vintage, se non (nessuno si inquieti per il termine, perché si parla di stereotipi e comportamenti, e non di persone…) “rottamati” per direttissima.

Per i giovani pd, giustamente attratti dallo scintillio delle castellsiane “reti di indignazione e di speranza”, piuttosto che per i reduci dal Politicamp o per gli “ateniesi” potrebbe allora rivelarsi proficua anche una rapida immersione nei fondamentali della storia e della nozione partitica. Una lettura proficua, in tale senso, coincide con un libro scritto dal politologo della Cattolica di Milano Damiano Palano e dedicato al Partito (il Mulino, pp. 258, euro 15): una carrellata dalle fazioni che popolavano la politica nel mondo antico greco-romano allo “Stato dei partiti” e alla “democrazia dei partiti”, quando, alfine, è riuscito loro di superare la plurisecolare diffidenza che li circondava e di farsi accettare come un pilastro importante, e irrinunciabile, dei sistemi parlamentari e rappresentativi.

Oggi, per i corsi e ricorsi storici (e gli eterni ritorni…), sono ripiombati nell’occhio del ciclone del discredito: ecco la ragione per la quale discutere della loro forma e dei loro percorsi organizzativi interni significa anche andare alla ricerca di nuove fonti e basi di legittimazione. Nella consapevolezza che le formazioni politiche possono – meglio, devono – essere criticate anche duramente e senza sconti (come fece, per ricordare un precedente illustre di fine anni Quaranta, Adriano Olivetti nel suo Democrazia senza partiti), ma che in assenza di una forma-partito “ben formata” e “ben temperata” e, soprattutto, autenticamente democratica (e qui arrivano i due intricatissimi nodi gordiani dei meccanismi partecipativi e della selezione delle sue élites dirigenti), la postdemocrazia paventata da Colin Crouch avanza inesorabile.

E, in tale scenario, non riusciremo a schiodarci da una democrazia del pubblico fondata sulla conquista (per via politicistica o populistica) di un elettorato-audience, che, come evidente, è un regime alquanto differente da una democrazia liberal-rappresentativa edificata (anche) sulla battaglia delle idee.

E, allora, vien da dire: sì, il dibattito (sulla forma-partito) sì…

lunedì 8 luglio 2013

L’era del potere liquido. Moisés Naím e "La fine del potere"

di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa su "Avvenire" del 29 giugno 2013.

Alla metà degli anni Cinquanta il sociologo Charles Wright Mills scrisse che la democrazia americana era in pericolo. Per effetto delle trasformazioni economiche e dello sviluppo delle tecnologie militari, una compatta “élite del potere” si stava impossessando di tutte le principali istituzioni. E, in questo modo, la democrazia rischiava di essere di fatto svuotata dal dominio di una nuova oligarchia. Negli ultimi anni l’immagine delineata da Mills è spesso tornata nelle più allarmate diagnosi sullo stato di salute delle nostre democrazie. Molti hanno infatti ravvisato i contorni di una strabiliante accumulazione del potere nelle mani di ristrette élite globali. E i dati sulla concentrazione della ricchezza e sull’aumento delle diseguaglianze non hanno certo indebolito una simile sensazione.
Forse è proprio per questo che la lettura dell’ultimo saggio di Moisés Naím, La fine del potere (Mondadori, pp. 394, euro 20.00), risulta tanto suggestiva. Per l’analista venezuelano, direttore per circa un decennio di “Foreign Policy”, l’immagine di una pervasiva “élite del potere” è infatti soltanto un mito, sempre meno realistico. Naím individua al contrario i contorni di una trasformazione che sta modificando alla radice le stesse modalità di esercizio del potere. In sostanza da una trentina d’anni alcuni processi hanno iniziato a ‘disperdere’ il potere in precedenza ‘concentrato’ nelle grandi organizzazioni. Così, se per circa un secolo il segreto per vincere la battaglia del potere (politico, economico, militare) erano state le grandi dimensioni e l’organizzazione burocratica, oggi quel ciclo sembra essersi chiuso. Ciò significa che i diversi strumenti con cui può essere esercitato il potere (come la costrizione, la persuasione e la ricompensa materiale) sono a disposizione anche dei ‘piccoli’. E pare sia giunto allora il momento dei ‘micropoteri’. Poteri che nella maggior parte dei casi non hanno la capacità di prendere il posto dei ‘grandi’, ma che riescono comunque a insidiarne la posizione, a minacciarne la sicurezza, a logorarne l’autorevolezza.
A differenza di molti osservatori, Naím non ritiene che l’ascesa dei ‘micropoteri’ sia soltanto un effetto dello sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione. Alla base della contemporanea dispersione stanno invece processi più generali: le rivoluzioni del più, della mobilità e della mentalità. La crescita demografica degli ultimi decenni e l’incremento della mobilità hanno reso infatti meno controllabili le persone, i territori e le frontiere. Ma, soprattutto, il significativo miglioramento delle condizioni medie di vita (al di fuori dell’Occidente) ha innescato la crescita delle aspettative in una fascia consistente della popolazione mondiale, diventata così molto più disponibile a mobilitarsi. Naturalmente questi processi hanno molti effetti positivi, e fra questi Naím non manca di riconoscere la diffusione globale della democrazia. Ma il suo discorso punta piuttosto a mettere in luce gli aspetti problematici. Perché la proliferazione dei ‘micropoteri’ – a livello nazionale e internazionale – rende sempre più debole ogni autorità di governo, tanto da minacciare così la stessa stabilità politica. 
Il quadro dipinto da Naím può apparire forse eccessivamente pessimistico. Ciò nondimeno, è difficile non riconoscere come La fine del potere colga efficacemente le radici dell’ingovernabilità contemporanea. Un’ingovernabilità che affonda, prima ancora che nella complessità dei problemi, nel clima di scetticismo e sfiducia che investe le nostre società. I ‘micropoteri’ si limitano infatti a proporre suggestive semplificazioni, ma non sono in grado di rafforzare una costante azione di governo. Ed è per questo che il vero rimedio alla ‘dispersione del potere’, accanto a una revisione dei meccanismi costituzionali, consiste per Naím nella rigenerazione dei partiti e dei canali della partecipazione politica. Perché proprio la fiducia dei cittadini può consegnare alle autorità di governo lo strumento più prezioso per affrontare le sfide del XXI secolo. 

Damiano Palano

martedì 2 luglio 2013

Verso il tramonto della democrazia rappresentativa? «Non ti delego» di Aldo Schiavone

 

di Damiano Palano

 
«La democrazia presente non contenta più gli animi degli onesti. Essa non rappresenta ormai che un abbassamento di ogni limite, per fare credere d’avere innalzato gli individui: mentre non si è fatto che l’interesse dei più avidi e prepotenti. Nelle elezioni trionfa il denaro, il favore, l’imbroglio; ma non accettare tali mezzi è considerato come un’ingenuità imperdonabile. Alle clientele clericali succedono le radicali, e mutato il cartello la gente resta la stessa. Tutto cade. Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Del parlamento il triste stato si ripercuote nel paese… Tutto si frantuma. Le grandi forze cedono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri di unione. Lo schifo è enorme. I migliori non han più fiducia. I giovani, se non sono arrivisti e senza spina dorsale, non entrano più nei partiti. Nelle università manca ogni moto e ogni fervore… La confusione, il disgusto, il disordine son tali che ne risentono anche i migliori…». 
Benché sia molto difficile sottrarsi alla tentazione di riconoscervi un ritratto impietoso dell’Italia contemporanea, queste parole risalgono a più di un secolo fa. Giuseppe Prezzolini le scrisse infatti nel 1910, quando, dinanzi alla sempre più evidente decomposizione del sistema politico italiano, in un celebre editoriale della «Voce» pose – a se stesso e alla propria generazione – la classica domanda sul Che fare? Certo, il fatto che i toni e i motivi utilizzati da Prezzolini più di cento anni fa siano per molti versi gli stessi che anche oggi sentiamo ripetere quasi quotidianamente può indurre il sospetto che il compianto per la miserevole condizione dello spirito pubblico sia in fondo una sorta di genere letterario, una consolatoria autoassoluzione con cui l’intelligentzia italiana – nelle diverse stagioni della sua storia – intende compensare la propria incapacità di incidere politicamente, assumendo come bersaglio una classe dirigente corrotta e una società gretta e immorale. Nonostante l’esibito pessimismo, il quadro dipinto dal fondatore della «Voce» coglieva comunque alcuni elementi reali della dinamica politica italiana, e segnalava soprattutto come, nella società del tempo, andasse fermentando una crescente insofferenza nei confronti della classe politica e delle stesse istituzioni parlamentari. Si trattava senza dubbio di un’insofferenza dai tratti inediti, che negli anni seguenti sarebbe ulteriormente cresciuta, rafforzata anche dalla ‘mobilitazione totale’ richiesta dalla Prima Guerra Mondiale. Ma era anche il riflesso di un’insofferenza le cui radici intellettuali erano piuttosto profonde. La denuncia contro la conclamata corruzione dei partiti e del Parlamento, contro la proliferazione delle clientele, contro il potere del denaro, era infatti già da tempo diventata uno dei motivi centrali del dibattito pubblico. D’altronde, solo pochi anni dopo la crisi sarebbe esplosa davvero, accelerata dall’irruzione delle masse sul proscenio politico. E molti giuristi e politologi iniziarono allora a chiedersi se quei nuovi fenomeni – tra cui soprattutto l’ascesa dei partiti di massa e il protagonismo dei sindacati – non sancissero la fine del parlamentarismo, e non richiedessero nuovi meccanismi rappresentativi, tra cui in special modo una rappresentanza di tipo ‘corporativo’, capace di dar voce alle rivendicazioni delle categorie economico-sociali. 
Forse anche per questo diventa oggi quasi scontato ritrovare un impressionante parallelismo fra la crisi di cento anni fa e quella che l’Italia sta vivendo oggi, e soprattutto fra la crisi delle istituzioni liberali di un secolo fa e quella ‘crisi della democrazia’ che sperimenta il nostro sistema politico. Al dibattito sempre più affollato su questo nodo si aggiunge ora la voce di Aldo Schiavone, studioso di diritto romano e docente presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (di cui è stato fondatore e direttore), ma da sempre anche attento osservatore delle trasformazioni politiche contemporanee. Nel suo recente Non ti delego. Perché abbiamo smesso di credere nella loro politica (Rizzoli, pp. 126, euro 15.00), Schiavone interviene infatti nella discussione sulle sfide che le liberaldemocrazie occidentali si trovano ad affrontare, e in particolare sulla condizione specifica del sistema politico italiano. Sotto quest’ultimo profilo, la convinzione che alimenta il discorso di Schiavone è che il ciclo apertosi con la nascita della Costituzione sia ormai giunto al capolinea, e che le elezioni del 2013 – con la sonora affermazione del Movimento 5 Stelle – abbiano sancito in modo inequivocabile l’epilogo di un’intera vicenda. In altre parole, le tensioni cui sono esposte le nostre democrazie non sono fenomeni congiunturali, destinati a essere riassorbiti con il ritorno alla ‘normalità’. Si tratta invece del risultato di mutamenti radicali, che a lungo si è voluto occultare o sottovalutare, e che per questo esplodono con tanta virulenza. Non si tratta, secondo Schiavone, di una questione puramente italiana. «La politica è stanca in tutto l’Occidente», scrive per esempio, «e con lei appare stanca la democrazia: che funziona ormai – anche nei regimi che hanno tenuto a battesimo la sua forma moderna – in un regime di bassa intensità», ossia «senza idee, senza leader, senza capacità di suscitare speranze, ma al contrario moltiplicando ogni giorno diffidenza e disaffezione» (p. 8). Dinanzi a questa «entropia democratica», in Italia si è però opposto un netto rifiuto a ogni ipotesi di cambiamento, mentre l’unica soluzione può giungere – secondo Schiavone – da una netta modificazione delle forme istituzionali, ossia da una sostanziale revisione della Costituzione e dall’introduzione di nuovi meccanismi democratici, la cui necessità è in qualche modo suggerita dai movimenti che reclamano l’adozione di una nuova democrazia elettronica. «Non basteranno ritocchi marginali e di superficie: è l’intero modello democratico che abbiamo ricevuto dai nostri padri che viene messo in discussione. Se non abbiamo bene in mente la portata della questione, non avremo nessuna possibilità di risolverla. Il successo dell’onda di Grillo – non importa ora quanto effimero, né quali saranno i suoi esiti – è di questo che ci parla, come forse stanno cominciando a rendersi conto, naturalmente prima di noi, alcuni fra i più attenti e curiosi osservatori stranieri, europei e americani: ci suggerisce qualcosa di molto più grande e complesso della forza di quello stesso movimento. Ci racconta, a modo suo, che i tempi sono maturi per la costruzione di una nuova e più esigente forma della democrazia: la forma democratica della seconda modernità – la modernità dettata dalla rivoluzione tecnologica che sta riscrivendo le nostre vite, ‘l’orizzonte del nostro vivere insieme’» (pp. 10-11).
Il contemporaneo «malessere» della democrazia secondo Schiavone non ha un’unica causa, ma è piuttosto il risultato di due dinamiche convergenti, l’una che investe dall’esterno i meccanismi democratici, l’altra che nasce invece dal cuore della rappresentanza. La prima «sindrome» - che Schiavone affronta solo fugacemente – nasce dal contrasto fra il carattere statuale degli ordinamenti democratici e la dimensione globale dei mercati, della finanza, dei flussi tecnologici. «Fra i due poli si sta consolidando un’asimmetria di poteri – poteri democratici localizzati, di fronte a poteri tecnofinanziari globali – che si risolve in un permanente scacco della democrazia, incapace di assolvere il suo compito primario: mettere in trasparenza e sotto controllo forze e soggetti in grado di condizionare il destino di interi popoli» (p. 23). La seconda «sindrome» - cui si rivolgono le considerazioni di Schiavone – chiama invece in causa la stessa delegittimazione dei meccanismi istituzionali della democrazia rappresentativa: «Essa consiste in una profonda sfiducia che il dispositivo democratico, con al centro il rapporto fra voto, rappresentanza, Parlamento e partiti, sia ancora in grado davvero di esprimere correttamente, senza stravolgimenti e usurpazioni, l’autentica volontà collettiva. Sia cioè idoneo a incarnare il principio supremo alla base dell’idea democratica: la sovranità del popolo» (p. 24). Le due sindromi ovviamente si combinano e vanno a rafforzarsi l’un l’altra, tanto da innescare una deriva arginabile – secondo Schiavone – solo con una radicale spinta di innovazione istituzionale.
Per argomentare la propria tesi, Schiavone ripercorre il lungo viaggio della democrazia, dall’Atene di Pericle fino ai sistemi rappresentativi contemporanei. In questo percorso – ricostruito solo con rapide pennellate, ma non per questo meno nitido e meno efficace – emerge soprattutto il discrimine fra due logiche: da un lato, la logica del voto, del principio maggioritario e della democrazia diretta; dall’altro, la logica della rappresentanza elettiva. Il punto che caratterizza la discussione di Schiavone non consiste però in una ripresa dei motivi classici della polemica contro quella ‘usurpazione’ del potere del popolo che sarebbe alla base del meccanismo rappresentativo, e dunque contro l’idea che il potere sovrano possa essere stabilmente ‘delegato’ dal popolo al Parlamento. Il discorso di Non ti delego si concentra piuttosto sul rapporto fra le trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche e le forme di esercizio della democrazia: è allora necessario abbandonare la convinzione che le forme della democrazia siano soltanto quelle oggi vigenti in Occidente, e che possano solo essere conservate immutate e preservate dalle diverse minacce che le investono. In altre parole, «il punto di vista statico della preservazione ha finito con il prevalere su quello dinamico dell’insoddisfazione e della ricerca del nuovo» (p. 57). E ciò risulta evidente soprattutto sul fronte del lavoro, in cui i mutamenti hanno sancito una «neoframmentazione»: «dal lavoro ai lavori; la fine di un’epoca (quella del lavoro ‘astratto’ degli economisti classici) che aveva avuto un passato glorioso, e aveva scritto la storia d’Europa. Sempre più il valore delle merci (soprattutto immateriali: informazione, servizi) non dipende dalla quantità di lavoro sociale vivo incorporato, ma dalla quantità di tecnologia. E dunque la merce per eccellenza, la merce che produce tutte le altre, è la tecnica, nelle condizioni di sviluppo date (investimenti, ricerca, comunicazione eccetera), e non più il lavoro in quanto tale» (p. 59). Proprio queste modificazioni suggeriscono allora l’idea che sia indispensabile un adeguamento delle forme istituzionali della democrazia: «come non pensare che un mutamento così profondo nelle forme della socialità produttiva non si rifletta sulle forme di una democrazia che abbiamo costruito proprio come sociale, e legata al lavoro industriale?» (p. 60).
Accanto alla trasformazione che interviene nel lavoro, un altro grande processo insidia la rappresentanza. Un processo che accentua ulteriormente la sfasatura tra i tempi della politica e i tempi di formazione dell’opinione pubblica, «fra il tempo delle domande e dei bisogni e quello delle risposte e delle decisioni» (p. 78). In altre parole, secondo Schiavone l’accelerazione dei tempi della società della comunicazione tende a scontrarsi con l’immagine di una rappresentanza cristallizzata, e per questo sempre più inadeguata. E non si tratta di un fenomeno congiunturale, legato alla crisi economica e alle sue dinamiche. Si tratta, secondo Schiavone, della conseguenza palese del mutamento tecnologico: «La rappresentanza politica è stata costruita integrando al proprio interno i limiti tecnologici di un’epoca che considerava socialmente immodificabile una separazione quasi totale fra i rappresentanti e i rappresentati dal punto di vista della mobilità, delle informazioni, dell’elaborazione delle conoscenze; e dava per scontato che l’accertamento della volontà politica di un numero comunque considerevole di cittadini sparsi su un territorio molto vasto non potesse che avvenire attraverso procedure macchinose, e realizzarsi solo in occasioni particolari, separate da una distanza di tempo molto lunga. Era perciò un’istituzione che viveva di passività, più che di attenzione permanente, e se ne alimentava. Operava su una società del silenzio, non immersa, come ora, in una discorsività totale» (p. 82).
La conclusione del discorso di Schiavone conduce allora verso l’obiettivo di una radicale riforma istituzionale, che riporti «lo scettro nelle mani del popolo». La nuova «democrazia di prossimità» non sposa pienamente le utopie della «e-democracy», e non prevede certo un completo superamento della rappresentanza, ma allude comunque a un sostanziale utilizzo di misure di democrazia diretta, consentito proprio dalle nuove tecnologie. Si tratta dunque di «una forma mista di democrazia, insieme rappresentativa e diretta, che connetta in modo ravvicinato autogoverno e delega» (p. 108). Più concretamente, Sciavone pensa non solo a una riduzione del numero dei parlamentari, ma anche a consultazioni periodiche della cittadinanza su temi predefiniti (col fine di assegnare ai cittadini un potere nel processo di produzione legislativa), a un ampio utilizzo del referendum (anche propositivo) da svolgersi periodicamente mediante votazioni telematiche, all’introduzione dell’obbligo di un referendum abrogativo o confermativo per leggi approvate dal Parlamento che tocchino temi di particolare rilevanza. E, inoltre, non esclude neppure il ricorso alla pratica del sorteggio per selezionare i rappresentanti politici, seppur solo per i consigli regionali e comunali. Accanto a queste misure, Schiavone non dimentica però il rafforzamento della leadership, e in effetti – almeno con riferimento al caso italiano – esprime il proprio netto favore per una riforma della Costituzione che introduce un sistema semi-presidenziale analogo a quello francese. Infine, il discorso non può non investire il terreno dei partiti, ormai condannati secondo Schiavone da quelle grandi trasformazioni che hanno investito le società occidentali. La democrazia mista che auspica dovrebbe piuttosto fondarsi su organizzazioni di tipo ben diverso: «Organizzazioni leggere, flessibili, a mezza strada tra movimenti e comitati elettorali, con al centro un nucleo più solido dedicato esclusivamente all’elaborazione intellettuale di grandi opzioni strategiche e al sostegno culturale dell’attività legislativa, attraverso strumenti specifici di analisi e di ricerca (fondazioni, centri di studio e così via), capaci di orientare in modo ravvicinato i cittadini nelle scelte di voto che sarebbero regolarmente chiamati a compiere. Dovrebbero insomma rifornire di idee e di alternative l’esercizio ravvicinato e diffuso della sovranità» (p. 116).
Non si può certo negare al pamplhet di Schiavone il pregio della chiarezza, ed è proprio per la capacità di indicare non solo le cause della ‘crisi della democrazia’ contemporanea, ma anche alcuni possibili correttivi, che il suo discorso spicca in un dibattito spesso incapace di immaginare soluzioni che vadano oltre le forme consolidate. Ma non è probabilmente questo l’unico merito di Non ti delego. Un secondo motivo di pregio è infatti costituito da una sorta di ‘materialismo’ democratico, ossia da una prospettiva che considera le forme istituzionali come riflesso dell’assetto delle relazioni produttive, oltre che di un determinato stato di sviluppo delle tecnologie comunicative e dei trasporti. Ed è d’altronde proprio sulla scorta di questo quadro interpretativo che Schiavone arriva a celebrare una sorta di De profundis per la democrazia rappresentativa.
Se la chiave ‘materialista’ con cui guarda alle difficoltà della democrazia contemporanea è molto probabilmente l’elemento di maggiore interesse dell’analisi di Schiavone, è però proprio attorno a questo modo di osservare le trasformazioni sociali che emergono alcuni limiti. Quando Schiavone rileva il dato della frammentazione dei lavori, coglie senza dubbio un elemento incontestabile, così come quando riconosce la centralità della produzione immateriale. Inoltre, quando segnala lo scarto sempre più ampio fra i tempi della rappresentanza e i tempi della società dell’informazione, evidenzia una dinamica che è diventata oggi palese anche al più distratto degli osservatori. Il punto è però che Schiavone tiene ben ferma l’impostazione ‘materialista’ quando ricostruisce la senescenza della democrazia rappresentativa, mentre tende ad abbandonarla quando si volge alle soluzioni in grado di dar forma a una nuova democrazia «mista». D’altro canto, se riconosce che all’origine della crisi contemporanea stanno componenti ‘interne’ ed ‘esterne’, le soluzioni che propone si limitano a incidere sulle prime, tralasciando le seconde. E un simile ragionamento non può che risultare in qualche modo contraddittorio. Perché, mentre per un verso si afferma che la crisi odierna è ‘determinata’ da trasformazioni economiche e tecnologiche, dall’altro si lascia del tutto inesplorata la domanda sulla effettiva capacità che avrebbe la democrazia mista auspicata da Schiavone di rispondere alla crisi che sperimentano gli Stati occidentali nel controllare i flussi di capitali e informazioni. Anche perché la risposta – molto probabilmente – sarebbe sostanzialmente negativa.
La prospettiva ‘materialista’ non può naturalmente essere sufficiente per dipanare la matassa delle sfide che investono i sistemi democratici occidentali. Anche perché, vale la pena sottolinearlo, il meccanismo della rappresentanza si fonda sempre su una dinamica di ‘rappresentazione’ – e cioè sulla costruzione simbolica del ‘popolo’ – che non è riducibile a uno schema ‘materialista’. Ciò nondimeno, anche da una prospettiva che consideri da un’ottica ‘materialista’ le trasformazioni della democrazia possono giungere alcuni elementi di comprensione della crisi che stiamo vivendo. Non è però sufficiente considerare la ‘tecnologia’, le modalità della comunicazione, o i settori produttivi dell’economia. Più importante è, probabilmente, ricostruire la geografia del potere che sta al di sotto delle istituzioni democratiche, e che certo riflette – seppur non in termini deterministici – l’assetto di una società. In altre parole, è necessario ragionare in termini di rapporti di forza, per comprendere se, e fino a che punto, esista quella pluralità effettiva di soggetti che consente una dinamica democratica. La democrazia ateniese fu in parte – se si vuole adottare una chiave materialista – anche il prodotto di un mutamento nelle tecniche di navigazione, che consegnò al demos di una potenza marittima uno straordinario potere anche sul terreno politico. E la stessa democrazia novecentesca – la democrazia che si definisce nel corso del New Deal e che si estende al resto del mondo occidentale dopo il 1945 – aveva alla base il pluralismo reale proprio delle società ‘fordiste’, un pluralismo che non solo si traduceva in una latente conflittualità interna, ma che addirittura ‘interiorizzava’ il conflitto internazionale della Guerra fredda. Ora naturalmente quella società non esiste più, e giustamente Schiavone lo riconosce, facendo derivare dal tramonto di quella stagione la conseguenza logica dell’obsolescenza delle istituzioni rappresentative. Ma invece di ricercare le tracce di un nuovo pluralismo, invece di puntare lo sguardo sulla possibile strutturazione di nuovi poteri reali – capaci magari di rappresentare alcuni segmenti del frammentato fronte del lavoro – Schiavone si limita a guardare a possibili correttivi tecnici. Correttivi che non sono privi di una loro validità, ma cui è quantomeno generoso riconoscere la capacità di invertire la rotta. Non perché la «e-democracy», i referendum, o persino il sorteggio non siano soluzioni meritevoli di considerazione, e su cui vale senza dubbio la pena riflettere con attenzione, così come le pratiche di democrazia deliberativa sperimentate in diversi contesti. Ma perché si tratta di ‘forme’ che non possono compensare il vuoto di ‘forza’, e cioè di soluzioni che non possono minimamente surrogare l’assenza di un equilibrio di poteri nella società, o la difficoltà dello Stato di controllare i flussi globali. E se non poggia le radici su soggetti reali, radicati nella società e politicamente organizzati, ogni progetto di revisione istituzionale – per quanto innovativo esso sia – rischia di rivelarsi troppo fragile.
Ma ogni analisi sulle nostre democrazie non può per questo limitarsi a considerare la ‘crisi’ odierna come l’effetto della combinazioni di processi ‘interni’ ed ‘esterni’, ragionando ‘come se’ si trattasse realmente di processi fra loro indipendenti. La crisi odierna è infatti l’esito terminale di una trasformazione che ha iniziato a investire le società occidentali negli anni Settanta, e che affonda le radici nel tramonto di un ciclo sistemico, nel lungo crepuscolo dell’«era americana». Certo non tutto risulta ‘determinato’ dalla transizione geo-economica e geo-politica, ma tutti i tasselli della ‘crisi della democrazia’ che abbiamo sotto gli occhi – dalla crisi fiscale, alla crisi finanziaria, al passaggio dal ‘fordismo’ al ‘postfordismo’, alla crisi dei grandi partiti di massa – risultano pienamente comprensibili all’interno di questo grande mosaico (cui certo si aggiunge la specificità dell’unione monetaria in Europa). Forse dovremmo cercare allora di guardare con meno provincialismo a quello che avviene sotto i nostri occhi, e tentare di distinguere più nettamente i problemi di funzionamento del meccanismo democratico dalle grandi trasformazioni che vengono a insidiare quelle forme che consideriamo come un dato acquisito. D’altronde, Atene perse probabilmente la guerra contro Sparta anche per il cattivo funzionamento delle sue istituzioni democratiche, o perché le scelte del popolo si rivelarono in qualche caso quantomeno poco oculate. Ma – come sappiamo – non furono certo questi elementi a sancire il tramonto delle poleis dinanzi all’incedere di nuovi grandi imperi. E, nonostante tutto, non possiamo affatto escludere che una sorte simile non debba prima o poi toccare anche alle nostre democrazie.