mercoledì 5 giugno 2013

La “rivoluzione esistenziale” dei senza potere. Rileggere Václav Havel trentacinque anni dopo


di Damiano Palano

Questo testo è apparso, con il titolo "I senza potere che vinsero la menzogna", su "Avvenire" del 4 giugno 2013.

Sono passati trentacinque anni da quando Václav Havel scrisse Il potere dei senza potere, e da allora il mondo è completamente cambiato. Ciò nonostante le pagine di quel volumetto, ripubblicato ora in due diverse edizioni da La Casa di Matriona - Itaca (a cura di Angelo Bonaguro e con una prefazione di Marta Cartabia) e da Castelvecchi, non hanno perso nulla della loro forza. Tanto che probabilmente può essere considerato come una delle più lucide riflessioni condotte nell’ultimo mezzo secolo sul potere nella società contemporanea. 
Naturalmente il pamplhet di Havel – scomparso nel 2011, dopo aver ricoperto per un decennio la carica di Presidente della nuova Repubblica Ceca – era soprattutto l’esito di una discussione critica sul fallimento della Primavera di Praga, oltre che un contributo alla chiarificazione del significato di Charta 77. Ma la specifica situazione cecoslovacca era per molti versi solo il punto di partenza per un ragionamento molto più ambizioso, che anche per questo merita di essere riscoperto.
Al centro della discussione di Havel c’è innanzitutto la natura del sistema ‘post-totalitario’: un sistema in cui certo non viene meno la dimensione dispotica dell’esercizio del potere, ma in cui la febbre rivoluzionaria e il furore ideologico dei primi decenni sono ormai esauriti. L’ideologia gioca ancora un ruolo fondamentale, ma non spinge più a modificare la realtà: è ormai solo un rituale, un linguaggio cristallizzato, privo di qualsiasi contatto con il mondo reale. L’ideologia nei sistemi totalitari, sostiene Havel, diventa allora solo un codice che consente la legittimazione rituale del regime, soprattutto perché ciascun individuo ne adotta – più o meno spontaneamente – le regole. Così, il fruttivendolo infila fra i propri ortaggi uno dei tanti slogan del regime non perché creda realmente al suo contenuto, ma solo perché in quel modo esprime la propria fedeltà al potere. Solo perché, adeguandosi al rituale, quel fruttivendolo – così come ogni altro cittadino e ogni membro del regime – può conservare la propria posizione ed evitare fastidi. La pseudo-realtà ideologica diventa allora il vero pilastro del sistema. E il risultato di questo meccanismo non può che essere la vittoria della menzogna. Una menzogna perpetuata da chiunque si adegui al codice del potere e alla rappresentazione rituale della realtà.
Dinanzi a questa condizione, Havel non propone un movimento politico che punti alla presa del potere. Ciò di cui prefigura le sequenze è piuttosto una “rivoluzione esistenziale”, il cui contenuto – semplice, ma effettivamente rivoluzionario – consiste nel “vivere nella verità”. Proprio perché il regime si fonda sulla menzogna, il semplice rifiuto della falsificazione rappresenta infatti il primo passo di una rivoluzione destinata a dissolvere le basi stesse del post-totalitarismo. In altre parole, anche la semplice decisione del fruttivendolo di non esporre gli slogan consunti del regime può costituire il primo atto di un rovesciamento radicale. Perché dimostra che “è possibile vivere nella verità”.

Damiano Palano

NB. Secondo l’intellettuale ceco la realtà del post-totalitarismo era solo una specifica declinazione di una “crisi morale” ben più generale, innescata dal trionfo della tecnica e dalla riduzione dell’essere umano a passivo ingranaggio della macchina sociale. E proprio per questo, come rileva opportunamente Cartabia, la lezione del "Potere dei senza potere" risulta oggi altrettanto preziosa. D’altronde, l’esigenza di “vivere nella verità”, la prospettiva della “rivoluzione esistenziale” e la necessità di collocare al centro l’“uomo concreto” continuano forse a indicare – più di qualsiasi soluzione ‘tecnica’ – il modo più efficace in cui pensare a una riforma dei nostri sistemi politici. E l’unico reale strumento con cui opporsi davvero a quello che Havel definiva come il rischio di una “totalizzazione strisciante”.










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