Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica
Meno di due mesi dopo le elezioni dell’Assemblea Costituente, Giuseppe Maranini, in un vibrante articolo pubblicato sul settimanale fiorentino «L’Arno», individuò la minaccia che gravava sulla nascente Repubblica nel «totalitarismo dei partiti». Maranini era allora schierato – come il periodico, che confezionava quasi da solo – a favore di un socialismo moderato, e dunque sulla linea che di lì a qualche mese avrebbe condotto Giuseppe Saragat a guidare una scissione dal Partito Socialista di Nenni. La connotazione atlantista sarebbe emersa esplicitamente solo in seguito, ma sulle pagine de «L’Arno» Maranini si volgeva già contro gli alfieri della cosiddetta «democrazia popolare», sostenendo che la Repubblica avrebbe dovuto guardare al modello della democrazia anglosassone. E proprio questo modello comportava – secondo Maranini – una profonda revisione del rapporto tra partiti e Stato. «Il problema dei problemi», scriveva infatti, celato sotto lo pseudonimo di Renier Zeno, stava nella posizione che i partiti dovevano occupare nello Stato: «se in realtà il potere risiede fuori dello stato, organizzandosi in vasti meccanismi incontrollati e incontrollabili, allora tutte le provvidenze per organizzare lo stato in libere forme non sono che giuochi da ragazzi, o, peggio, imposture». La via d’uscita dal rischio di un potenziale «totalitarismo» stava allora nella democratizzazione dei partiti e nella costruzione della «libertà nello Stato». In sostanza, i partiti dovevano rimanere «grandi correnti di opinione», doveva essere loro riconosciuta e garantita «la libertà di organizzare i mezzi di diffusione delle opinioni», ma era assolutamente necessario impedire che essi si sostituissero allo Stato. Perché – come scriveva - «lo Stato non deve reggersi sui partiti, deve reggersi su se medesimo» (Totalitarismo dei partiti, in «L’Arno», II, 28 luglio 1946, p. 1).
Da quel momento Maranini divenne forse il più inflessibile critico della «partitocrazia» italiana. Probabilmente non fu l’inventore del termine, perché altri – per esempio Roberto Lucifero e Arturo Labriola – lo utilizzarono prima di lui. Ma certo fu il primo a sottrarre la formula al dibattito politico, inserendolo in un quadro ‘politologico’ di analisi del nuovo regime democratico. Chiamato ad aprire l’anno accademico 1949-1950 all’Università di Firenze, intitolò infatti la propria prolusione inaugurale Governo parlamentare e partitocrazia: un titolo di cui certo – a pochi mesi dall’entrata in vigore della nuova Carta Costituzionale – non poteva sfuggire il tono polemico. In realtà, nei vent’anni seguenti Maranini fu un paladino della Costituzione, invocando la Carta contro il tradimento perpetrato dai partiti. Ma, soprattutto, non abbandonò neppure per un momento la propria critica alla «partitocrazia».
Per molti versi, i temi segnalati da Maranini nella propria polemica anticipavano motivi che più tardi – negli anni Settanta e Ottanta – sarebbero diventati dominanti. In questo senso, la posizione del costituzionalista era pienamente rappresentativa di una tradizione liberale che protestava contro la conquista dello Stato da parte dei partiti, e che reclamava che i partiti rimanessero ben al di fuori del perimetro delle istituzioni statali. Nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, quella tradizione era certo minoritaria, perché le due principali culture politiche – quella cattolica e quella socialista – assegnavano al partito molto più che un ruolo di semplice gruppo di opinione, o di associazione di carattere privatistico. Ed era perciò scontato che una polemica come quella di Maranini dovesse essere interpretata come segnata negativamente da una forte nostalgia per la stagione liberale. In realtà, c’era però un paradosso nella vicenda intellettuale di Maranini. Prima di diventare il feroce critico della partitocrazia, Maranini era stato infatti uno tra i più originali esponenti della giovane generazione dei giuristi vicini al regime fascista. E, soprattutto, tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, era stato uno dei più coerenti sostenitori dell’idea di «Stato-partito», ossia dell’idea secondo cui ogni Stato forte è in realtà uno «Stato-partito», uno Stato che poggia le basi su un partito, su una compatta visione di parte, capace però di plasmare la società e di conferirle un ordine. Naturalmente, sarebbe improprio considerare la revisione teorica di Maranini – passato dall’esaltazione dello «Stato-partito» (e non solo di quello fascista) alla critica della «partitocrazia» - come l’esito di un puro calcolo di convenienza, o anche solo come la traccia più visibile di un ripensamento individuale. Perché, in realtà, nel sospetto verso quei partiti di massa che vengono a fissare un’impronta indelebile nel codice genetico della Repubblica si può anche rinvenire un tratto comune a un’area culturale più ampia. Un’area che non può certo essere liquidata come semplicemente ‘anti-democratica’, e in cui vanno a lungo a confondersi inquietudini di segno diverso, destinate peraltro a incidere in profondità e a riaffiorare prepotentemente nel momento in cui la ‘Repubblica dei partiti’ inizierà a mostrare crepe profonde.
È proprio verso questa eterogenea area culturale che punta lo sguardo Salvatore Lupo nel suo recente Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (prima, seconda e terza) (Donzelli, Roma, 2013, pp. 248, euro 19.00). Nel lavoro di Lupo vengono ripresi i fili di un discorso già affrontato dall’autore in Partito e antipartito. Una storia politica della Prima Repubblica (1946-1978) (Donzelli, Roma, 2004), ma che naturalmente acquista una indiscutibile rilevanza alla luce di quello che appare – più che come l’inizio della ‘Terza Repubblica’ annunciato nel titolo del volume – come il lungo crepuscolo della ‘Seconda’. Non solo perché le polemiche contro la «casta», che hanno scandito l’ultima campagna elettorale e che sono ben lontane dall’aver perso la loro energia, sono molto simili – se non identiche – a quelle che vent’anni fa accompagnarono la disgregazione del vecchio sistema dei partiti. Ma perché, in fondo, proprio la polemica contro il regime «partitocratico» ha di fatto attraversato l’intera storia repubblicana, superando cicli politici, mode ideologiche, stagioni culturali. E perché, dunque, l’idea di una politica «antipartito» - come sostiene Lupo – può risultare più adeguata della formula «antipolitica», dal momento che «chi tuona contro i partiti non è contro la politica e tanto meno rinuncia a fare politica» (p. 5).
Quella di cui Lupo ricostruisce i fili non è tanto una storia della critica al potere dei partiti (come quella svolta per esempio da Eugenio Capozzi in un bel volume di alcuni fa: Partitocrazia. Il «regime italiano e i suoi critici, Guida, Napoli, 2009). Lupo propone piuttosto una sorta di rapida cavalcata attraverso la vicenda repubblicana, in cui riaffiora costantemente il rapporto problematico tra partito e «antipartito», tra lo sviluppo della democrazia dei partiti e la costante presenza di una mutevole e multiforme ostilità verso i partiti e il loro ceto politico. A farsi portavoce di questa ostilità, nei primi anni della Repubblica, sono politici, intellettuali e giornalisti di destra, talvolta inclini a guardare con nostalgia al fascismo, in altri casi difficilmente collocabili in precise appartenenze politiche. Tra questi naturalmente spicca la meteora di Guglielmo Giannini e dell’«Uomo Qualunque». Ma, oltre a un liberale come Maranini, inesausti critici della stagione partitocratica sono anche Luigi Sturzo, ostile all’indirizzo dato da Fanfani alla Dc, e Indro Montanelli, tanto diffidente verso l’anticomunismo della Democrazia Cristiana da sollecitare presso l’ambasciata americana a Roma l’adozione di misure eccezionali. Benché Lupo indugi sulla forza dell’ostilità antipartitica nelle aree della destra (interna ed esterna alla Dc), tiene in realtà ben lontana ogni interpretazione ‘complottista’, e punta invece a mostrare come si tratti di un sentimento ben più tenace di quanto faccia sospettare la rapida scomparsa del «qualunquismo» vero e proprio. «Possiamo parlare di un qualunquismo diffuso e di lunga durata», scrive infatti, «almeno se riferiamo la parola non al movimento di Giannini ma all’insofferenza per i partiti, e di conseguenza per le istituzioni e l’ethos repubblicani» (p. 45). E non si tratta neppure di un sentimento ascrivibile a un’unica area politica: «non c’è bisogno di evocare alcun complotto per spiegare lo scarto tra la diffusione di certe idee politiche nella pubblica opinione e la loro cronica sottorappresentazione nel sistema politico-parlamentare: basterà ricordare che un sistema bipartitico costringe molti elettori a entrare, magari malvolentieri, nell’uno o nell’altro dei due canali disponibili. È vero però che non tutti al tempo si rassegnarono a questa ‘costrizione’. Lo scarto generò una contestazione di tipo sistemico, riguardante la capacità della classe politica e dei due-tre partiti principali di rappresentare la nazione, di sorreggerne le spinte dinamiche, le esigenze profonde. Vennero rimessi sul tappeto argomenti propri di un filone antico della cultura politica italiana, mutuati dalla teoria ‘elitista’ affermatasi al passaggio tra Otto e Novecento, e in particolare dagli studi di Gaetano Mosca e Roberto Michels» (pp. 45-46).
Se l’ostilità nei confronti dei partiti rimane a lungo un fenomeno ‘sotterraneo’, che alimenta alcune correnti culturali minoritarie, la vera esplosione – secondo la ricostruzione proposta da Lupo – avviene però già negli anni Settanta. Per un verso, sono i ‘movimenti’ a consentire che la diffidenza verso l’organizzazione, la gerarchia dei funzionari e il ceto politico possa penetrare anche nel versante di sinistra. E, naturalmente, Lupo non manca di sottolineare la capacità di recepire queste istanze che mostrano dapprima Marco Pannella e poi, non senza paradossi, il Partito Socialista di Bettino Craxi. Ma, suggerisce Lupo, è probabilmente un altro giornalista a svolgere, a sinistra, il ruolo di alfiere dell’«antipartito» ricoperto per decenni da Montalli nel campo di destra. Perché «la Repubblica» di Eugenio Scalfari viene di fatto a diffondere e a consolidare, fra gli anni Settanta e Ottanta, una serie di motivi e di retoriche destinate a diventare presto dominanti. Tutte le correnti maturate nel corso dei decenni precedenti giungono infatti a esplodere al principio degli anni Novanta, tanto da originare un’onda incontrollabile e del tutto trasversale agli schieramenti di destra e sinistra. Il linguaggio dell’antipartito diventa infatti la chiave per chiunque punti a farsi interprete del ‘nuovo che avanza’, dal Presidente «picconatore» Francesco Cossiga al sindaco democristiano di Palermo Leoluca Orlando, da Mario Segni a Silvio Berlusconi, da Paolo Flores d’Arcais a Ferdinando Adornato. Naturalmente è con Forza Italia che il sentimento antipartito assume una portata dirompente. E Lupo non tralascia di ricordare come alcuni dei motivi del nuovo soggetto politico richiamino molto da vicino i vecchi piani di ‘rinascita democratica’ della P2. Anche in questo caso, invita comunque a diffidare di ogni facile ‘complottismo’. In fondo, gli obiettivi che la P2 tentò di perseguire erano condivisi da una componente significativa del mondo imprenditoriale e culturale italiano. Più semplicemente – osserva Lupo - «la P2 trasse (quanto strumentalmente?) dal dibattito pubblico domande e risposte che negli anni settanta non potevano entrare in un circuito politico fruttuoso; e che vi entrarono negli anni novanta senza bisogno che alcuno le trasmettesse per via sotterranea» (p. 221). E, da quel momento, la retorica dell’antipartito diventa davvero irrefrenabile, una sorta di fiume in piena che coinvolge ogni forza politica, vecchia e nuova. Il mito di una ‘società civile’ incorrotta costituisce l’immancabile corollario di una tesi che raffigura la classe politica come la causa di molti dei mali del Paese. E la ricerca di una «nuova politica» viene così a passare, invariabilmente, per la demolizione del sistema dei partiti, per l’abbattimento (per via elettorale, referendaria o giudiziaria) della «vecchia politica». In questo senso, l’interpretazione di Lupo si concentra sulla relazione fra partiti e società, ossia sul fatto che ad un certo punto, attorno agli Settanta, il sistema dei partiti non riesce più effettivamente a rappresentare le istanze provenienti dalla società, col risultato di una crescente divaricazione fra ‘società civile’ e ‘società politica’. Gli anni Ottanta, in piena continuità con gli anni Settanta, sono dunque considerati come «la fase storica in cui i partiti non furono più in grado di riportare nelle istituzioni le spinte della società civile, di modo che alcune di esse andarono a scaricarsi in forma illegale e violenta o sulla superficie della vita politica o nei suoi sotterranei» (p. 166). Anche se alcuni attori – la massoneria, la mafia, apparati di sicurezza – cercarono di conquistare un ruolo e di spingere verso determinate direzioni, non si trattò dunque di complotto, «ma di un complesso meccanismo di contagio tra sfere e soggetti diversi, a sua volta riconducibile a una crisi generale della governabilità italiana» (p. 14). In sostanza, Lupo ritiene allora che «molte tendenze degenerative non siano state il frutto della partitocrazia, ma al contrario l’effetto della presa sempre più debole dei partiti sulla società italiana», e proprio questo spiegherebbe così «il ruolo crescente della magistratura e della repressione penale, e la serie di effetti, virtuosi o perversi, che ne sono conseguiti» (p. 14).
Comprensibilmente, la retorica dell’antipartito raggiunge la vetta nei mesi della bufera di ‘Tangentopoli’. È invece ben più singolare che quella retorica si sia riproposta quasi immutata per circa un ventennio, e che nei mesi che hanno preceduto l’ultima scadenza elettorale si siano ritrovati tutti gli elementi del mito della «nuova politica». Elementi che vanno dall’esaltazione della «società civile» - cui hanno attinto a piene mani (ma senza grandi fortune) Mario Monti e Antonio Ingroia – alla vibrante polemica contro la «casta» e i partiti (oltre che contro la stessa forma-partito), di cui Beppe Grillo ha fatto un formidabile grimaldello per spalancare al Movimento 5 Stelle le porte del Parlamento (se non proprio per aprirlo «come una scatola di sardine», come minacciava nel suo tour elettorale). In fondo, è proprio il fatto che al tramonto della ‘Seconda Repubblica’ si ripropongano gli stessi temi che accompagnarono la fine della ‘Prima’ a suggerire l’interrogativo principale che orienta il lavoro di Lupo. «È come se tra il 1993 e il 2013 non fosse successo nulla, almeno nulla di importante, tanto che le critiche dell’antipartito e le sue soluzioni si sono riproposte nella stessa forma all’inizio e alla fine del ventennio» (p. 12). E certo il bilancio che Lupo formula della ‘Seconda Repubblica’ non è positivo. «È difficile capire quale influenza abbia avuto la nuova politica nel determinare fenomeni positivi come l’allentamento (parziale) della presa delle mafie sulla vita nazionale, ovvero fenomeni negativi come il brusco rallentamento dello sviluppo, o l’aumento delle diseguaglianze – quelle tra i ceti sociali e quella tra Nord e Sud. È invece certo che la nuova politica non ha saputo affrontare, se non negandolo infantilmente, il suo problema di partenza: come trarre da se stessa un sistema di partiti legittimato, come selezionare i propri quadri in maniera che non sia definibile come una ‘porcata’, come trovare un linguaggio credibile, che non indulga sistematicamente alla demagogia. Come fare, cioè, quanto nel complesso della sua esperienza aveva fatto la vituperata politica vecchia» (p. 239).
L’insofferenza nei confronti dei partiti che segna l’ultimo trentennio della storia italiana non rappresenta certo un elemento così sorprendente. D’altra parte, il concetto di partito è circondato da un’atmosfera sinistra, che lo avvolge quasi costantemente e che si dirada – pur senza dissolversi – soltanto nella prima metà del Novecento (a titolo esemplificativo, si può dare un’occhiata a Partito, da poco uscito per i tipi del Mulino, in cui ho cercato di ricostruire le traiettorie della riflessione sul tema). E, inoltre, l’Italia non rappresenta certo un’eccezione nel panorama delle democrazie contemporanee, segnate – seppur con qualche differenza – dal comune discredito nei confronti della classe politica. Ciò che rende davvero anomala la situazione italiana – e che trasforma l’insofferenza in una efficacissima arma retorica – è piuttosto il fallimento della ‘Seconda Repubblica’. Un fallimento reso evidente nel tradimento delle tante promesse di palingenesi di un sistema corrotto, e aggravato da un declino economico che certo non può essere imputato soltanto alla «partitocrazia», ma a proposito del quale i protagonisti della ‘Seconda Repubblica’ non possono essere considerati come del tutto privi di ogni responsabilità.
È proprio su questo fallimento che dovremo interrogarci nei prossimi anni, e il libro di Lupo inizia quantomeno a imboccare una strada interessante, soprattutto perché invita ad abbandonare quegli occhiali con cui – per pigrizia o per calcolo – abbiamo continuato a interpretare il ‘caso italiano’. Il fallimento della ‘Seconda Repubblica’ – bisognerebbe iniziare a dirlo con chiarezza – non è infatti solo il fallimento di una classe politica. È anche il fallimento di un ceto intellettuale, che ha rappresentato l’Italia con uno schema molto suggestivo ed efficace, rivelatosi però, alla prova della storia, come in larga parte fuorviante. Non si tratta tanto di abbandonare quello schema che imputa alla «partitocrazia» la causa delle degenerazioni di un sistema politico, e di tornare a valorizzare il ruolo che i partiti hanno avuto nello ‘strutturare’ la società italiana e nel consolidare il regime democratico. Piuttosto, si tratta di abbandonare quella chiave di lettura che ritrovava nella mancata «alternanza», nell’anomalia del «bipartitismo imperfetto», l’origine della palude partitocratica, della corruzione, dell’inefficienza. Non tanto perché questi meccanismi non abbiano svolto effettivamente qualche ruolo, quanto perché si tratta di spiegazioni riduttive, che non considerano il peso della storia, l’eredità delle tradizioni istituzionali, il radicamento – persino dentro l’ossatura della ‘società civile’ – delle strutture clientelari. Più o meno implicitamente, tutti abbiamo infatti finito col credere alla formula giornalistica della ‘Seconda Repubblica’. In altre parole, ci siamo convinti che davvero il 1993 e le elezioni del 1994 avessero sancito una cesura netta nella storia d’Italia, e che il ‘nuovo’ avesse vinto sul ‘vecchio’, buono o cattivo che fosse. Oggi sarebbe forse opportuno riconoscere che si è trattato di un clamoroso abbaglio, che l’irruzione del ‘nuovo’ ha solo ricoperto il ‘vecchio’ di uno strato superficiale. E che, dunque, la ‘Seconda Repubblica’ – con le sue poche virtù e i suoi numerosi vizi – diventa comprensibile solo all’interno di una storia di lungo periodo della vicenda unitaria.
Naturalmente non è detto che la consapevolezza sulle cause di un fallimento politico possa garantire che ai vecchi errori non se ne aggiungano di nuovi. Ma, quantomeno, ci può indurre a diffidare delle più ingenue speranze di palingenesi. Speranze che, al principio degli anni Novanta, affidarono a una versione vagamente caricaturale dell’ingegneria elettorale il compito di traghettare l’Italia dal ‘vecchio’ al ‘nuovo’, da un sistema partitocratico a una politica finalmente competente e responsabile. E che probabilmente – nonostante la catastrofe dell’ultimo ventennio – anche nei mesi che ci attendono, nel lungo crepuscolo della ‘Seconda Repubblica’, non cesseranno di accendere nuovi entusiasmi.
Damiano Palano
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