di Damiano Palano
Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica
Meno di due mesi dopo le elezioni dell’Assemblea Costituente, Giuseppe Maranini, in un vibrante articolo pubblicato sul settimanale fiorentino «L’Arno», individuò la minaccia che gravava sulla nascente Repubblica nel «totalitarismo dei partiti». Maranini era allora schierato – come il periodico, che confezionava quasi da solo – a favore di un socialismo moderato, e dunque sulla linea che di lì a qualche mese avrebbe condotto Giuseppe Saragat a guidare una scissione dal Partito Socialista di Nenni. La connotazione atlantista sarebbe emersa esplicitamente solo in seguito, ma sulle pagine de «L’Arno» Maranini si volgeva già contro gli alfieri della cosiddetta «democrazia popolare», sostenendo che la Repubblica avrebbe dovuto guardare al modello della democrazia anglosassone. E proprio questo modello comportava – secondo Maranini – una profonda revisione del rapporto tra partiti e Stato. «Il problema dei problemi», scriveva infatti, celato sotto lo pseudonimo di Renier Zeno, stava nella posizione che i partiti dovevano occupare nello Stato: «se in realtà il potere risiede fuori dello stato, organizzandosi in vasti meccanismi incontrollati e incontrollabili, allora tutte le provvidenze per organizzare lo stato in libere forme non sono che giuochi da ragazzi, o, peggio, imposture». La via d’uscita dal rischio di un potenziale «totalitarismo» stava allora nella democratizzazione dei partiti e nella costruzione della «libertà nello Stato». In sostanza, i partiti dovevano rimanere «grandi correnti di opinione», doveva essere loro riconosciuta e garantita «la libertà di organizzare i mezzi di diffusione delle opinioni», ma era assolutamente necessario impedire che essi si sostituissero allo Stato. Perché – come scriveva - «lo Stato non deve reggersi sui partiti, deve reggersi su se medesimo» (Totalitarismo dei partiti, in «L’Arno», II, 28 luglio 1946, p. 1).
Da quel momento Maranini divenne forse il più inflessibile critico della «partitocrazia» italiana. Probabilmente non fu l’inventore del termine, perché altri – per esempio Roberto Lucifero e Arturo Labriola – lo utilizzarono prima di lui. Ma certo fu il primo a sottrarre la formula al dibattito politico, inserendolo in un quadro ‘politologico’ di analisi del nuovo regime democratico. Chiamato ad aprire l’anno accademico 1949-1950 all’Università di Firenze, intitolò infatti la propria prolusione inaugurale Governo parlamentare e partitocrazia: un titolo di cui certo – a pochi mesi dall’entrata in vigore della nuova Carta Costituzionale – non poteva sfuggire il tono polemico. In realtà, nei vent’anni seguenti Maranini fu un paladino della Costituzione, invocando la Carta contro il tradimento perpetrato dai partiti. Ma, soprattutto, non abbandonò neppure per un momento la propria critica alla «partitocrazia».
Per molti versi, i temi segnalati da Maranini nella propria polemica anticipavano motivi che più tardi – negli anni Settanta e Ottanta – sarebbero diventati dominanti. In questo senso, la posizione del costituzionalista era pienamente rappresentativa di una tradizione liberale che protestava contro la conquista dello Stato da parte dei partiti, e che reclamava che i partiti rimanessero ben al di fuori del perimetro delle istituzioni statali. Nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, quella tradizione era certo minoritaria, perché le due principali culture politiche – quella cattolica e quella socialista – assegnavano al partito molto più che un ruolo di semplice gruppo di opinione, o di associazione di carattere privatistico. Ed era perciò scontato che una polemica come quella di Maranini dovesse essere interpretata come segnata negativamente da una forte nostalgia per la stagione liberale. In realtà, c’era però un paradosso nella vicenda intellettuale di Maranini. Prima di diventare il feroce critico della partitocrazia, Maranini era stato infatti uno tra i più originali esponenti della giovane generazione dei giuristi vicini al regime fascista. E, soprattutto, tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, era stato uno dei più coerenti sostenitori dell’idea di «Stato-partito», ossia dell’idea secondo cui ogni Stato forte è in realtà uno «Stato-partito», uno Stato che poggia le basi su un partito, su una compatta visione di parte, capace però di plasmare la società e di conferirle un ordine. Naturalmente, sarebbe improprio considerare la revisione teorica di Maranini – passato dall’esaltazione dello «Stato-partito» (e non solo di quello fascista) alla critica della «partitocrazia» - come l’esito di un puro calcolo di convenienza, o anche solo come la traccia più visibile di un ripensamento individuale. Perché, in realtà, nel sospetto verso quei partiti di massa che vengono a fissare un’impronta indelebile nel codice genetico della Repubblica si può anche rinvenire un tratto comune a un’area culturale più ampia. Un’area che non può certo essere liquidata come semplicemente ‘anti-democratica’, e in cui vanno a lungo a confondersi inquietudini di segno diverso, destinate peraltro a incidere in profondità e a riaffiorare prepotentemente nel momento in cui la ‘Repubblica dei partiti’ inizierà a mostrare crepe profonde.
È proprio verso questa eterogenea area culturale che punta lo sguardo Salvatore Lupo nel suo recente Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (prima, seconda e terza) (Donzelli, Roma, 2013, pp. 248, euro 19.00). Nel lavoro di Lupo vengono ripresi i fili di un discorso già affrontato dall’autore in Partito e antipartito. Una storia politica della Prima Repubblica (1946-1978) (Donzelli, Roma, 2004), ma che naturalmente acquista una indiscutibile rilevanza alla luce di quello che appare – più che come l’inizio della ‘Terza Repubblica’ annunciato nel titolo del volume – come il lungo crepuscolo della ‘Seconda’. Non solo perché le polemiche contro la «casta», che hanno scandito l’ultima campagna elettorale e che sono ben lontane dall’aver perso la loro energia, sono molto simili – se non identiche – a quelle che vent’anni fa accompagnarono la disgregazione del vecchio sistema dei partiti. Ma perché, in fondo, proprio la polemica contro il regime «partitocratico» ha di fatto attraversato l’intera storia repubblicana, superando cicli politici, mode ideologiche, stagioni culturali. E perché, dunque, l’idea di una politica «antipartito» - come sostiene Lupo – può risultare più adeguata della formula «antipolitica», dal momento che «chi tuona contro i partiti non è contro la politica e tanto meno rinuncia a fare politica» (p. 5).
Quella di cui Lupo ricostruisce i fili non è tanto una storia della critica al potere dei partiti (come quella svolta per esempio da Eugenio Capozzi in un bel volume di alcuni fa: Partitocrazia. Il «regime italiano e i suoi critici, Guida, Napoli, 2009). Lupo propone piuttosto una sorta di rapida cavalcata attraverso la vicenda repubblicana, in cui riaffiora costantemente il rapporto problematico tra partito e «antipartito», tra lo sviluppo della democrazia dei partiti e la costante presenza di una mutevole e multiforme ostilità verso i partiti e il loro ceto politico. A farsi portavoce di questa ostilità, nei primi anni della Repubblica, sono politici, intellettuali e giornalisti di destra, talvolta inclini a guardare con nostalgia al fascismo, in altri casi difficilmente collocabili in precise appartenenze politiche. Tra questi naturalmente spicca la meteora di Guglielmo Giannini e dell’«Uomo Qualunque». Ma, oltre a un liberale come Maranini, inesausti critici della stagione partitocratica sono anche Luigi Sturzo, ostile all’indirizzo dato da Fanfani alla Dc, e Indro Montanelli, tanto diffidente verso l’anticomunismo della Democrazia Cristiana da sollecitare presso l’ambasciata americana a Roma l’adozione di misure eccezionali. Benché Lupo indugi sulla forza dell’ostilità antipartitica nelle aree della destra (interna ed esterna alla Dc), tiene in realtà ben lontana ogni interpretazione ‘complottista’, e punta invece a mostrare come si tratti di un sentimento ben più tenace di quanto faccia sospettare la rapida scomparsa del «qualunquismo» vero e proprio. «Possiamo parlare di un qualunquismo diffuso e di lunga durata», scrive infatti, «almeno se riferiamo la parola non al movimento di Giannini ma all’insofferenza per i partiti, e di conseguenza per le istituzioni e l’ethos repubblicani» (p. 45). E non si tratta neppure di un sentimento ascrivibile a un’unica area politica: «non c’è bisogno di evocare alcun complotto per spiegare lo scarto tra la diffusione di certe idee politiche nella pubblica opinione e la loro cronica sottorappresentazione nel sistema politico-parlamentare: basterà ricordare che un sistema bipartitico costringe molti elettori a entrare, magari malvolentieri, nell’uno o nell’altro dei due canali disponibili. È vero però che non tutti al tempo si rassegnarono a questa ‘costrizione’. Lo scarto generò una contestazione di tipo sistemico, riguardante la capacità della classe politica e dei due-tre partiti principali di rappresentare la nazione, di sorreggerne le spinte dinamiche, le esigenze profonde. Vennero rimessi sul tappeto argomenti propri di un filone antico della cultura politica italiana, mutuati dalla teoria ‘elitista’ affermatasi al passaggio tra Otto e Novecento, e in particolare dagli studi di Gaetano Mosca e Roberto Michels» (pp. 45-46).
Se l’ostilità nei confronti dei partiti rimane a lungo un fenomeno ‘sotterraneo’, che alimenta alcune correnti culturali minoritarie, la vera esplosione – secondo la ricostruzione proposta da Lupo – avviene però già negli anni Settanta. Per un verso, sono i ‘movimenti’ a consentire che la diffidenza verso l’organizzazione, la gerarchia dei funzionari e il ceto politico possa penetrare anche nel versante di sinistra. E, naturalmente, Lupo non manca di sottolineare la capacità di recepire queste istanze che mostrano dapprima Marco Pannella e poi, non senza paradossi, il Partito Socialista di Bettino Craxi. Ma, suggerisce Lupo, è probabilmente un altro giornalista a svolgere, a sinistra, il ruolo di alfiere dell’«antipartito» ricoperto per decenni da Montalli nel campo di destra. Perché «la Repubblica» di Eugenio Scalfari viene di fatto a diffondere e a consolidare, fra gli anni Settanta e Ottanta, una serie di motivi e di retoriche destinate a diventare presto dominanti. Tutte le correnti maturate nel corso dei decenni precedenti giungono infatti a esplodere al principio degli anni Novanta, tanto da originare un’onda incontrollabile e del tutto trasversale agli schieramenti di destra e sinistra. Il linguaggio dell’antipartito diventa infatti la chiave per chiunque punti a farsi interprete del ‘nuovo che avanza’, dal Presidente «picconatore» Francesco Cossiga al sindaco democristiano di Palermo Leoluca Orlando, da Mario Segni a Silvio Berlusconi, da Paolo Flores d’Arcais a Ferdinando Adornato. Naturalmente è con Forza Italia che il sentimento antipartito assume una portata dirompente. E Lupo non tralascia di ricordare come alcuni dei motivi del nuovo soggetto politico richiamino molto da vicino i vecchi piani di ‘rinascita democratica’ della P2. Anche in questo caso, invita comunque a diffidare di ogni facile ‘complottismo’. In fondo, gli obiettivi che la P2 tentò di perseguire erano condivisi da una componente significativa del mondo imprenditoriale e culturale italiano. Più semplicemente – osserva Lupo - «la P2 trasse (quanto strumentalmente?) dal dibattito pubblico domande e risposte che negli anni settanta non potevano entrare in un circuito politico fruttuoso; e che vi entrarono negli anni novanta senza bisogno che alcuno le trasmettesse per via sotterranea» (p. 221). E, da quel momento, la retorica dell’antipartito diventa davvero irrefrenabile, una sorta di fiume in piena che coinvolge ogni forza politica, vecchia e nuova. Il mito di una ‘società civile’ incorrotta costituisce l’immancabile corollario di una tesi che raffigura la classe politica come la causa di molti dei mali del Paese. E la ricerca di una «nuova politica» viene così a passare, invariabilmente, per la demolizione del sistema dei partiti, per l’abbattimento (per via elettorale, referendaria o giudiziaria) della «vecchia politica». In questo senso, l’interpretazione di Lupo si concentra sulla relazione fra partiti e società, ossia sul fatto che ad un certo punto, attorno agli Settanta, il sistema dei partiti non riesce più effettivamente a rappresentare le istanze provenienti dalla società, col risultato di una crescente divaricazione fra ‘società civile’ e ‘società politica’. Gli anni Ottanta, in piena continuità con gli anni Settanta, sono dunque considerati come «la fase storica in cui i partiti non furono più in grado di riportare nelle istituzioni le spinte della società civile, di modo che alcune di esse andarono a scaricarsi in forma illegale e violenta o sulla superficie della vita politica o nei suoi sotterranei» (p. 166). Anche se alcuni attori – la massoneria, la mafia, apparati di sicurezza – cercarono di conquistare un ruolo e di spingere verso determinate direzioni, non si trattò dunque di complotto, «ma di un complesso meccanismo di contagio tra sfere e soggetti diversi, a sua volta riconducibile a una crisi generale della governabilità italiana» (p. 14). In sostanza, Lupo ritiene allora che «molte tendenze degenerative non siano state il frutto della partitocrazia, ma al contrario l’effetto della presa sempre più debole dei partiti sulla società italiana», e proprio questo spiegherebbe così «il ruolo crescente della magistratura e della repressione penale, e la serie di effetti, virtuosi o perversi, che ne sono conseguiti» (p. 14).
Comprensibilmente, la retorica dell’antipartito raggiunge la vetta nei mesi della bufera di ‘Tangentopoli’. È invece ben più singolare che quella retorica si sia riproposta quasi immutata per circa un ventennio, e che nei mesi che hanno preceduto l’ultima scadenza elettorale si siano ritrovati tutti gli elementi del mito della «nuova politica». Elementi che vanno dall’esaltazione della «società civile» - cui hanno attinto a piene mani (ma senza grandi fortune) Mario Monti e Antonio Ingroia – alla vibrante polemica contro la «casta» e i partiti (oltre che contro la stessa forma-partito), di cui Beppe Grillo ha fatto un formidabile grimaldello per spalancare al Movimento 5 Stelle le porte del Parlamento (se non proprio per aprirlo «come una scatola di sardine», come minacciava nel suo tour elettorale). In fondo, è proprio il fatto che al tramonto della ‘Seconda Repubblica’ si ripropongano gli stessi temi che accompagnarono la fine della ‘Prima’ a suggerire l’interrogativo principale che orienta il lavoro di Lupo. «È come se tra il 1993 e il 2013 non fosse successo nulla, almeno nulla di importante, tanto che le critiche dell’antipartito e le sue soluzioni si sono riproposte nella stessa forma all’inizio e alla fine del ventennio» (p. 12). E certo il bilancio che Lupo formula della ‘Seconda Repubblica’ non è positivo. «È difficile capire quale influenza abbia avuto la nuova politica nel determinare fenomeni positivi come l’allentamento (parziale) della presa delle mafie sulla vita nazionale, ovvero fenomeni negativi come il brusco rallentamento dello sviluppo, o l’aumento delle diseguaglianze – quelle tra i ceti sociali e quella tra Nord e Sud. È invece certo che la nuova politica non ha saputo affrontare, se non negandolo infantilmente, il suo problema di partenza: come trarre da se stessa un sistema di partiti legittimato, come selezionare i propri quadri in maniera che non sia definibile come una ‘porcata’, come trovare un linguaggio credibile, che non indulga sistematicamente alla demagogia. Come fare, cioè, quanto nel complesso della sua esperienza aveva fatto la vituperata politica vecchia» (p. 239).
L’insofferenza nei confronti dei partiti che segna l’ultimo trentennio della storia italiana non rappresenta certo un elemento così sorprendente. D’altra parte, il concetto di partito è circondato da un’atmosfera sinistra, che lo avvolge quasi costantemente e che si dirada – pur senza dissolversi – soltanto nella prima metà del Novecento (a titolo esemplificativo, si può dare un’occhiata a Partito, da poco uscito per i tipi del Mulino, in cui ho cercato di ricostruire le traiettorie della riflessione sul tema). E, inoltre, l’Italia non rappresenta certo un’eccezione nel panorama delle democrazie contemporanee, segnate – seppur con qualche differenza – dal comune discredito nei confronti della classe politica. Ciò che rende davvero anomala la situazione italiana – e che trasforma l’insofferenza in una efficacissima arma retorica – è piuttosto il fallimento della ‘Seconda Repubblica’. Un fallimento reso evidente nel tradimento delle tante promesse di palingenesi di un sistema corrotto, e aggravato da un declino economico che certo non può essere imputato soltanto alla «partitocrazia», ma a proposito del quale i protagonisti della ‘Seconda Repubblica’ non possono essere considerati come del tutto privi di ogni responsabilità.
È proprio su questo fallimento che dovremo interrogarci nei prossimi anni, e il libro di Lupo inizia quantomeno a imboccare una strada interessante, soprattutto perché invita ad abbandonare quegli occhiali con cui – per pigrizia o per calcolo – abbiamo continuato a interpretare il ‘caso italiano’. Il fallimento della ‘Seconda Repubblica’ – bisognerebbe iniziare a dirlo con chiarezza – non è infatti solo il fallimento di una classe politica. È anche il fallimento di un ceto intellettuale, che ha rappresentato l’Italia con uno schema molto suggestivo ed efficace, rivelatosi però, alla prova della storia, come in larga parte fuorviante. Non si tratta tanto di abbandonare quello schema che imputa alla «partitocrazia» la causa delle degenerazioni di un sistema politico, e di tornare a valorizzare il ruolo che i partiti hanno avuto nello ‘strutturare’ la società italiana e nel consolidare il regime democratico. Piuttosto, si tratta di abbandonare quella chiave di lettura che ritrovava nella mancata «alternanza», nell’anomalia del «bipartitismo imperfetto», l’origine della palude partitocratica, della corruzione, dell’inefficienza. Non tanto perché questi meccanismi non abbiano svolto effettivamente qualche ruolo, quanto perché si tratta di spiegazioni riduttive, che non considerano il peso della storia, l’eredità delle tradizioni istituzionali, il radicamento – persino dentro l’ossatura della ‘società civile’ – delle strutture clientelari. Più o meno implicitamente, tutti abbiamo infatti finito col credere alla formula giornalistica della ‘Seconda Repubblica’. In altre parole, ci siamo convinti che davvero il 1993 e le elezioni del 1994 avessero sancito una cesura netta nella storia d’Italia, e che il ‘nuovo’ avesse vinto sul ‘vecchio’, buono o cattivo che fosse. Oggi sarebbe forse opportuno riconoscere che si è trattato di un clamoroso abbaglio, che l’irruzione del ‘nuovo’ ha solo ricoperto il ‘vecchio’ di uno strato superficiale. E che, dunque, la ‘Seconda Repubblica’ – con le sue poche virtù e i suoi numerosi vizi – diventa comprensibile solo all’interno di una storia di lungo periodo della vicenda unitaria.
Naturalmente non è detto che la consapevolezza sulle cause di un fallimento politico possa garantire che ai vecchi errori non se ne aggiungano di nuovi. Ma, quantomeno, ci può indurre a diffidare delle più ingenue speranze di palingenesi. Speranze che, al principio degli anni Novanta, affidarono a una versione vagamente caricaturale dell’ingegneria elettorale il compito di traghettare l’Italia dal ‘vecchio’ al ‘nuovo’, da un sistema partitocratico a una politica finalmente competente e responsabile. E che probabilmente – nonostante la catastrofe dell’ultimo ventennio – anche nei mesi che ci attendono, nel lungo crepuscolo della ‘Seconda Repubblica’, non cesseranno di accendere nuovi entusiasmi.
Damiano Palano
di Damiano Palano
Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica
Il 15 gennaio del 1991, poche ore prima che scadesse l’ultimatum del Consiglio di Sicurezza dell’Onu all’Iraq di Saddam Hussein, Norberto Bobbio rilasciò una breve dichiarazione al Tg3 regionale del Piemonte sulla guerra che, di lì a poco, sarebbe effettivamente incominciata. Nell’esiguo spazio concesso da un’intervista televisiva, Bobbio si soffermò su due domande distinte, considerando se la guerra fosse giusta e, oltre che giusta, potesse essere efficace. «Per quanto riguarda il primo problema», affermò il filosofo torinese, «la risposta è indubbia: è una guerra giusta perché è fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa». Meno chiare erano invece le cose per quanto atteneva il secondo nodo: «la guerra», continuava infatti Bobbio, «sarà efficace innanzi tutto se è vincente; in secondo luogo, se è rapida rispetto al tempo e se è limitata rispetto allo spazio, nel senso che sia ristretta al teatro di guerra dell’Iraq» (N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia, 1991, p. 39). Solo alcuni giorni prima, Bobbio aveva rifiutato di prendere una posizione a favore o contro la decisione di entrare in guerra. «È un conflitto insanabile tra l’etica dei principi e l’etica dei risultati: una di quelle scelte che i moralisti definirebbero tragica», osservò infatti rispondendo a una domanda postagli da «il Sabato» (ibi, p. 37). In fondo, nell’intervista rilasciata al Tg3 non faceva che riprendere lo stesso concetto, e non era dunque casuale che, dopo aver risposto positivamente all’interrogativo se la guerra fosse più o meno «giusta», dedicasse un’attenzione ben superiore alle attese sulla sua efficacia. Perché era proprio attorno a quest’ultimo punto che si doveva fornire una soluzione al tragico conflitto tra l’etica dei principi e l’etica dei risultati. Ma nessuno sembrò cogliere questa sfumatura, e nel giro di poche ore Bobbio divenne così il teorico della «guerra giusta». Tanto da costituire uno dei bersagli principali del fronte pacifista, oltre che l’obbligato termine di confronto per tutti quegli opinionisti che si accostavano al tema del conflitto.
Nella storia intellettuale dell’Italia dell’ultimo trentennio la prima Guerra del Golfo occupa un posto che è probabilmente difficile sopravvalutare. Per molti versi, si trattò infatti dell’ultima occasione in cui si sfoderarono armi teoriche e retoriche ereditate dalla Guerra fredda. Ma, al tempo stesso, iniziarono a delinearsi nuovi schieramenti, che rompevano nettamente con quelli più consueti, e che negli anni seguenti difficilmente si sarebbero riproposti. Nel fronte pacifista si potevano trovare infatti militanti che rispolveravano le vecchie parole d’ordine della lotta all’imperialismo americano, ma anche raffinati (e tutt’altro che conservatori) intellettuali come Massimo Cacciari, oltre che ampie componenti del mondo cattolico (e non soltanto di quello tradizionalmente rivolto a sinistra), che potevano trovare un solido riferimento nella vibrante condanna di Giovanni Paolo II. Sul fronte dei sostenitori dell’intervento, in cui Bobbio fu arruolato (non senza qualche forzatura), non trovarono posto invece soltanto gli storici esponenti dell’atlantismo, rinvigoriti dalla vittoria sul socialismo reale. Su questa linea si collocarono per esempio anche la rivista «Micromega» e Paolo Flores d’Arcais, il quale intravide allora nello schieramento pacifista i contorni di un nuovo blocco conservatore, capace di raccogliere tutti i fondamentalismi sotto la bandiera della lotta contro il ‘progresso’. Ma, al di là dei termini di quella discussione, la prima Guerra del Golfo iniziò effettivamente a delineare una serie di problemi del tutto nuovi, che palesavano la realtà del «momento unipolare», e che al tempo stesso rendevano del tutto inservibili molti degli schemi di ragionamento adottati fino a quel momento. Non è così affatto sorprendente scoprire come proprio il conflitto iracheno abbia rappresentato per molti teorici radicali un punto di svolta, e come le dinamiche del conflitto del 1991 abbiano dato avvio all’elaborazione di programmi – pur fra loro molto diversi – come per esempio quelli di Giorgio Agamben, di Danilo Zolo o persino di Hardt e Negri. E non è neppure sorprendente che Norberto Bobbio e la sua riflessione sulla «guerra giusta» siano diventati un termine di confronto (esplicito o implicito) per tutte queste riflessioni.
Anche se la discussione del gennaio 1991 impresse quantomeno qualche deformazione al suo ragionamento, l’idea della «guerra giusta» aveva rappresentato un tema di interesse pressoché costante nel percorso di Bobbio, almeno a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Ed è proprio a questo aspetto della riflessione del filosofo torinese che si rivolge ora il volume di Giovanni Scirocco, L’intellettuale nel labirinto. Norberto Bobbio e la «guerra giusta» (Biblion Edizioni, pp. 126, euro 10.00). Il libro di Scirocco si inserisce in una letteratura critica senza dubbio affollata, che – anche grazie al lavoro compiuto da allievi di Bobbio come Luigi Bonanate, Michelangelo Bovero, Pietro Polito, Pierpaolo Portinaro e Marco Revelli – ha contributo a ripercorrere i fili dell’opera dello studioso. Ma la produzione di Bobbio è davvero sterminata, e così chiunque si accosti al suo percorso rischia davvero – per parafrasare il titolo del volume di Scirocco – di smarrirsi in un labirinto di saggi, articoli, conferenze, interviste, e di perdere così gli elementi di continuità di un itinerario. Tenendo ben saldo il filo di Arianna rappresentato dalla riflessione sulla «guerra giusta», Scirocco riesce invece a seguire tappa per tappa l’evoluzione del pensiero di Bobbio in proposito. Anche grazie all’utilizzo delle carte conservate nell’archivio personale del filosofo, ora ospitate presso il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, Scirocco può infatti mostrare come Bobbio avesse incominciato a interrogarsi sulla possibilità di una «guerra giusta» circa trent’anni prima dello scoppio del primo conflitto del Golfo. Fu infatti all’inizio degli anni Sessanta, grazie all’incontro con l’opera di Günther Anders, che le questioni della guerra e della «condizione atomica» entrarono nella riflessione dell’intellettuale torinese. La proposta di Anders – per cui Bobbio scrisse la Prefazione a Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki (Einaudi, Torino, 1961) – era principalmente di ordine etico, ma il punto era che il filosofo tedesco poneva in modo radicale la necessità di prendere atto del fatto che la minaccia dell’annientamento dell’umanità non era più un’eventualità del futuribile, ma una possibilità concreta, se non addirittura la conseguenza inevitabile di una nuova guerra. Bobbio non avrebbe mai sposato l’idea di un pacifismo etico, preferendo sempre la prospettiva di un «pacifismo istituzionale». Ma, da quel momento, i temi della pace e del pacifismo entrarono stabilmente tra gli oggetti privilegiati dalla sua attività di ricerca.
Il confronto con Anders e l’attiva partecipazione al movimento pacifista italiano indussero Bobbio a occuparsi in modo più approfondito del problema della guerra, e dunque a considerare anche il grande tema della «guerra giusta». In quegli stessi anni, lo studioso prese parte tra l’altro alle attività della sezione italiana della Fondazione Bertrand Russell per la pace, la cui animatrice era Joyce Lussu. A questo proposito sono piuttosto significative alcune formule di dissenso che Bobbio espose a Lussu in relazione alla posizione di Russell sul conflitto indo-pakistano. In una lettera ora pubblicata nel volume di Scirocco, Bobbio scriveva infatti, polemizzando con Russell: «Non vi è nulla di più opinabile che il giudizio del giusto e dell’ingiusto soprattutto quando si tratta di rapporti tra stati che vivono in una condizione di quasi anarchia […]. Chiunque abbia una qualche familiarità col diritto sa che il giudizio sul giusto e sull’ingiusto anche in fatti molto banali è difficile. […] Un pessimo modo di impegnarci in questa azione sarebbe quello di prendere posizione di fronte a tutte le guerre stabilendo chi ha ragione e chi ha torto, cioè ritornando alla teoria della guerra giusta abbandonata ormai da secoli» (p. 30). Non si trattò dell’unico motivo di dissenso, ma, ad ogni modo, anche questi contrasti spinsero Bobbio a riflettere sulla tradizione teorica del pacifismo. Il risultato principale fu il lungo saggio Il problema della guerra e le vie della pace, apparso nel 1966 su «Nuovi Argomenti» e destinato poi a essere più volte ristampato. La gestazione del saggio era stata piuttosto tormentata, e Scirocco ne ricostruisce le tappe di composizione. Ma ciò che il lavoro profilava era la preferenza accordata da Bobbio al pacifismo istituzionale, a un pacifismo «giuridico», vicino a quello di Hans Kelsen, secondo il quale la pace può diventare possibile solo grazie all’esistenza di un «Terzo» superiore, capace di esercitare la funzione che lo Stato svolge nei rapporti interni.
Nei decenni seguenti Bobbio avrebbe continuato a riproporre quella medesima visione, pur nella consapevolezza che le Nazioni Unite, bloccate dalla logica del bipolarismo, avessero lasciato del tutto incompiute le ambizioni originarie. Ma lo scenario cambiò ovviamente con il 1989, e non è dunque sorprendente che Bobbio tornasse a evocare la nozione di «guerra giusta» alla vigilia del primo conflitto del Golfo. Comprensibilmente, Scirocco dedica così la parte conclusiva del volume proprio al dibattito innescato dalla breve intervista televisiva del 15 gennaio 1991. In realtà, Bobbio si pentì ben presto di aver utilizzato un’espressione tanto ambigua, anche se non mutò sostanzialmente la propria posizione. Parlando di una «guerra giusta» intendeva alludere a una guerra legittima dal punto di vista del diritto internazionale, e sotto questo profilo era pressoché indiscutibile che l’occupazione militare del Kuwait da parte delle forze armate irachene rendesse legittimo un intervento armato condotto sotto l’egida delle Nazioni Unite. «Sono io stesso il primo a riconoscere che è stato da parte mia un errore usare la parola ‘giusto’ non rendendomi conto che poteva essere interpretata in modo diverso da come l’avevo intesa io, molto semplicemente come guerra ‘giustificata’ in quanto rispondente ad un’aggressione», scrisse per esempio a Danilo Zolo (ibi, p. 77). Ma nel dibattito che fece seguito alle parole del filosofo, l’aggettivo fu inteso invece nel suo significato etico, ossia come un riferimento a una giustizia superiore, capace di discernere fra bene e male. Per questo molti intellettuali riconobbero in Bobbio l’alfiere di una sorta di nuova ‘guerra santa’, combattuta sulla base della convinzione che l’Occidente fosse schierato dalla parte del ‘giusto’ e del ‘bene’. E, fra gli altri, Marco Revelli poté criticare Bobbio ricorrendo alle stesse argomentazioni di Il Problema della guerra e le vie della pace, in cui la guerra veniva definita come una «via bloccata».
Dopo la prima Guerra del Golfo, la questione della «guerra giusta» si ripropose nuovamente, soprattutto nel caso della guerra «umanitaria» contro la Serbia, nel 1999. Questa volta Bobbio negò però la legalità dell’intervento, pur giustificandolo, e le sue argomentazioni andarono così a collocarsi su un piano differente, in cui la dimensione istituzionale non era più centrale, mentre acquistava maggior peso una dimensione ‘realistica’, che in sostanza tendeva a prendere atto del ruolo ‘imperiale’ degli Usa. «Gli Stati Uniti», affermava, «sono, orwellianamente, ‘più uguali’ degli altri, e hanno acquisito una specie di diritto assoluto che li pone totalmente al di fuori dell’ordine internazionale costituito. […] La nostra difficoltà di Europei, in questa circostanza, è che non possiamo non essere filo-americani, non possiamo non essere amici degli Usa, non possiamo disconoscere questa primazia di un paese che ci ha ripetutamente salvato». Comprensibilmente, attorno a queste frasi si sviluppò un polemica piuttosto energica, anche perché la logica di un simile ragionamento pareva divergere in modo sostanziale dalla traiettoria del pacifismo istituzionale, che Bobbio aveva sino a quel momento seguito, e cui le stesse posizioni espresse nel 1991 si riconducevano. Anche in questo caso, il filosofo ridimensionò in parte il peso delle sue affermazioni e disse di aver fatto il «passo più lungo della gamba», parlando di una giustificazione etica per il ruolo di egemone assunto dagli Usa. Ma, d’altro canto, osservò che, «esaminati equamente, imparzialmente, senza animosità preconcetta i pro e i contro di fatto, […] gli Stati Uniti si sono trovati sempre dalla parte giusta […] in base ad un criterio di valore, che non ricavo dalla constatazione di fatto di come sono andate le cose bensì presuppongo: la democrazia anche difettosa è preferibile a qualsiasi forma di stato autoritario, dispotico, totalitario, di cui l’attuale regime serbo è un esempio perfetto» (ibi, p. 100).
Le conclusioni cui Bobbio giungeva proprio sul finire del secolo non pretendevano certo di costituire un punto fermo. Si trattava piuttosto di approssimazioni, di tentativi che non potevano che porsi sempre come problematici e provvisori, dinanzi al problema «tragico» della scelta intorno al «male minore». Ed è per questo del tutto appropriato il titolo con cui Scirocco ha inteso sintetizzare il percorso di Bobbio intorno al nodo della «guerra giusta». Il filosofo torinese ebbe in effetti sempre chiara la percezione che la propria riflessione su questo tema era molto simile al tentativo di trovare una via d’uscita da un labirinto claustrofobico. Nell’Autobiografia osservò per esempio: «La condizione umana può essere raffigurata meglio con una terza immagine, che io prediligo: quella del labirinto. Crediamo di sapere che una via d’uscita esista, ma non sappiamo dove sia. Non essendoci nessuno al di fuori di noi che possa indicarcela, dobbiamo cercarla da noi» (N. Bobbio, Autobiografia, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 226-227). Ma – come ricorda Scirocco nelle pagine conclusive – in una prospettiva segnata da un marcato ‘pessimismo esistenziale’ come quella di Bobbio, la ricerca della via d’uscita doveva spesso assumere i contorni di un’impresa destinata a condurre ogni volta al punto di partenza. E così, come lo stesso Bobbio non mancò di rilevare in una vecchia intervista, la metafora si doveva tingere di toni ben più cupi: «Lo stesso Plutarco ammette che il labirinto era probabilmente una prigione da cui i prigionieri non potevano uscire. Forse è questa interpretazione del labirinto che conviene di più alla rappresentazione della storia umana» (ibi, p. 117).
Se per molti versi era ben consapevole di come fosse impossibile trovare una via di uscita dal labirinto, Bobbio non tramutò mai il proprio ‘pessimismo esistenziale’ in cupa rassegnazione. E per quanto sia possibile contestare alcune delle sue posizioni intorno alla «guerra giusta», così come – da un’ottica pienamente ‘realista’ – criticare la prospettiva del «pacifismo istituzionale», è davvero difficile non ravvisare anche oggi nel riconoscimento del mutamento radicale che interviene con l’era atomica un obbligato punto di partenza per ogni riflessione sulla trasformazione dell’ordine politico mondiale. Trent’anni fa, in un intervento pubblicato su «Vita e Pensiero», Bobbio si soffermava d’altronde proprio su questo dato ineludibile, che colora il nostro tempo di un nuovo, tetro millenarismo. «Il punto di partenza obbligato per ogni discorso sulla pace è una constatazione di fatto: dal giorno della bomba di Hiroshima la prospettiva della storia umana è cambiata. L’uomo si è trovato per la prima volta di fronte a strumenti di distruzione tanto potenti da mettere a repentaglio la vita, ogni forma di vita, sulla terra. La fine del mondo per opera dell’uomo è possibile. Non so se vi rendete conto che cosa significa un mondo in cui una delle tre dimensioni del tempo, il futuro, non esiste più. Ma nel momento stesso in cui il mondo è senza avvenire, perdono significato anche il presente e il passato» (Etica della potenza ed etica del dialogo, in «Vita e Pensiero», marzo 1983, p. 29). La presa d’atto di quella condizione – che ancora oggi descrive il quadro entro cui collochiamo il nostro modo di intendere un futuro assediato dalla catastrofe – è forse la cifra con cui interpretare l’intera riflessione di Bobbio sulla guerra. Perché – come il filosofo torinese ebbe modo di osservare, proprio ricordando l’impatto del testo di Anders – è la novità della ‘condizione atomica’ a sottrarre la ricerca dell’uscita dal labirinto agli ‘esperti’ della politica internazionale, e a renderla una necessità autenticamente ‘politica’: «C’è in quel libro una battuta polemica contro gli esperti che non ho mai dimenticata. Un interlocutore si rivolge all’autore con questa domanda: “Perché non lascia tutta la faccenda ai signori che se intendono?” “Per una ragione molto semplice – risponde –: questi signori non esistono”. L’altro ribatte: “C’è sempre un competente in ogni ramo” “Ma già questa è la cosa più terribile: che lei consideri la distruzione del mondo come un ramo fra gli altri”».
Damiano Palano
Giovedì 20 giugno 2013, alle 19, presso il Circolo Giovane Italia (via Kennedy 7) di Parma, si svolgerà una conversazione su "La crisi della forma partito", a partire da Partito (Il Mulino, pp. 260, euro 15.00). L’incontro è a cura del Centro studi movimenti di Parma.
L'incontro si inserisce in un ciclo di dibattiti su "Le trasformazioni della politica".
La crisi economico-finanziaria non ha solo impoverito i concetti di sovranità popolare e di cittadinanza, ma anche le stesse forme tradizionali della politica, la cui crisi è sinonimo di un cambiamento profondo dello stesso criterio di rappresentanza. Occorre rivedere la forma-partito novecentesca? Il berlusconismo è stato – ed è – un tentativo di occupare il vuoto suscitato da tale domanda? E se lo ha fatto, in che modo ciò è avvenuto? Si è trattato di populismo? E ancora: il fenomeno Cinque stelle presenta caratteristiche simili al partito-azienda di Berlusconi, nel segno del populismo? Ma politica, secondo Ernesto Laclau, è, essenzialmente, fare populismo, ovvero costruire un popolo.
Info: csm.parma@libero.it / 340-9741754
di Damiano Palano
Questo testo è apparso, con il titolo "I senza potere che vinsero la menzogna", su "Avvenire" del 4 giugno 2013.
Sono passati trentacinque anni da quando Václav Havel scrisse Il potere dei senza potere, e da allora il mondo è completamente cambiato. Ciò nonostante le pagine di quel volumetto, ripubblicato ora in due diverse edizioni da La Casa di Matriona - Itaca (a cura di Angelo Bonaguro e con una prefazione di Marta Cartabia) e da Castelvecchi, non hanno perso nulla della loro forza. Tanto che probabilmente può essere considerato come una delle più lucide riflessioni condotte nell’ultimo mezzo secolo sul potere nella società contemporanea.
Naturalmente il pamplhet di Havel – scomparso nel 2011, dopo aver ricoperto per un decennio la carica di Presidente della nuova Repubblica Ceca – era soprattutto l’esito di una discussione critica sul fallimento della Primavera di Praga, oltre che un contributo alla chiarificazione del significato di Charta 77. Ma la specifica situazione cecoslovacca era per molti versi solo il punto di partenza per un ragionamento molto più ambizioso, che anche per questo merita di essere riscoperto.
Al centro della discussione di Havel c’è innanzitutto la natura del sistema ‘post-totalitario’: un sistema in cui certo non viene meno la dimensione dispotica dell’esercizio del potere, ma in cui la febbre rivoluzionaria e il furore ideologico dei primi decenni sono ormai esauriti. L’ideologia gioca ancora un ruolo fondamentale, ma non spinge più a modificare la realtà: è ormai solo un rituale, un linguaggio cristallizzato, privo di qualsiasi contatto con il mondo reale. L’ideologia nei sistemi totalitari, sostiene Havel, diventa allora solo un codice che consente la legittimazione rituale del regime, soprattutto perché ciascun individuo ne adotta – più o meno spontaneamente – le regole. Così, il fruttivendolo infila fra i propri ortaggi uno dei tanti slogan del regime non perché creda realmente al suo contenuto, ma solo perché in quel modo esprime la propria fedeltà al potere. Solo perché, adeguandosi al rituale, quel fruttivendolo – così come ogni altro cittadino e ogni membro del regime – può conservare la propria posizione ed evitare fastidi. La pseudo-realtà ideologica diventa allora il vero pilastro del sistema. E il risultato di questo meccanismo non può che essere la vittoria della menzogna. Una menzogna perpetuata da chiunque si adegui al codice del potere e alla rappresentazione rituale della realtà.
Dinanzi a questa condizione, Havel non propone un movimento politico che punti alla presa del potere. Ciò di cui prefigura le sequenze è piuttosto una “rivoluzione esistenziale”, il cui contenuto – semplice, ma effettivamente rivoluzionario – consiste nel “vivere nella verità”. Proprio perché il regime si fonda sulla menzogna, il semplice rifiuto della falsificazione rappresenta infatti il primo passo di una rivoluzione destinata a dissolvere le basi stesse del post-totalitarismo. In altre parole, anche la semplice decisione del fruttivendolo di non esporre gli slogan consunti del regime può costituire il primo atto di un rovesciamento radicale. Perché dimostra che “è possibile vivere nella verità”.
Damiano Palano
NB. Secondo l’intellettuale ceco la realtà del post-totalitarismo era solo una specifica declinazione di una “crisi morale” ben più generale, innescata dal trionfo della tecnica e dalla riduzione dell’essere umano a passivo ingranaggio della macchina sociale. E proprio per questo, come rileva opportunamente Cartabia, la lezione del "Potere dei senza potere" risulta oggi altrettanto preziosa. D’altronde, l’esigenza di “vivere nella verità”, la prospettiva della “rivoluzione esistenziale” e la necessità di collocare al centro l’“uomo concreto” continuano forse a indicare – più di qualsiasi soluzione ‘tecnica’ – il modo più efficace in cui pensare a una riforma dei nostri sistemi politici. E l’unico reale strumento con cui opporsi davvero a quello che Havel definiva come il rischio di una “totalizzazione strisciante”.