di Damiano Palano
Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica.
«Mi fate ridere, tutti quanti! Non sapete niente di politica. Sembrate dei provinciali creduloni! Io sono un vecchio parigino e a me non la si fa. La vostra guerra finirà in niente, datemi retta! Molto rumore per nulla. Grande agitar di spade e, alla fine, la diplomazia metterà tutti d’accordo, e ciascuno se ne tornerà a casa sua. Perché? Ma perché è sempre andata così! Sì, lo so, la guerra dei Cent’anni, Napoleone… ma quella è Storia! Ai giorni nostri le cose finiscono sempre per aggiustarsi. Ne fanno delle canzoni, una parata a fine anno, ecco tutto!». Nell’estate del 1914, ad Adolphe Brun – una delle tante figurine che popolano Feux de l’automne di Irène Nemirovsky – la Storia sembrava solo quella impressa nei libri di scuola. E così anche la guerra appariva solo come una leggenda consegnata a ricordi sempre più sbiaditi, sempre più irreale nel secolo del progresso, anche se di lì a poco avrebbe fatto la propria tragica irruzione nella vita di milioni di europei. D’altronde Feux de l’automne, scritto fra il 1941 e il 1942, era una dura, spietata requisitoria contro le classi dirigenti francesi, contro l’élite economica-finanziaria e contro il mondo politico-affaristico della Terza Repubblica. Oltre che, soprattutto, il ritratto impietoso di una generazione le cui illusioni si erano dissolte nella tempesta della Grande Guerra.
È quasi inevitabile oggi accostare la crisi che stiamo vivendo a quella che trascinò il Vecchio continente nella ‘guerra dei Trent’anni’ aperta dall’attentato di Sarajevo e chiusa dagli accordi di Yalta. È quasi inevitabile perché l’instabilità di quel trentennio andava a inscriversi nella traiettoria di una tormentata transizione geopolitica, che avrebbe privato l’Europa della centralità di cui aveva goduto fin ad allora e che avrebbe consegnato lo scettro dell’egemonia a Washington. Ma è anche inevitabile perché, nel breve arco di alcuni anni, si stanno oggi sbriciolando, una dopo l’altra, tutte convinzioni in cui avevamo riposto le nostre più solide speranze, e che avevano indotto l’Occidente a immaginare il futuro in modo non troppo differente da quello con cui lo concepiva il minuto personaggio del romanzo di Némirovsky. Anche noi – e soprattutto noi europei – abbiamo pensato, proprio come Adolphe Brun, che la Storia, con tutte le sue violenze, le sue crisi dolorose, le sue tragedie, fosse per sempre consegnata ai manuali, ai documentari in bianco e nero, a ricordi sempre più sbiaditi, e che anche la guerra fosse al massimo uno spettacolo da gustare all’ora di cena, servita sul piatto dei telegiornali o di qualche talk-show. Anche noi, in altre parole, abbiamo a lungo pensato che il futuro che ci attendeva non fosse altro che una dilatazione del presente, e soprattutto di un presente destinato a scorrere su un binario magari non privo di qualche ostacolo, ma sostanzialmente lineare. E, proprio per questo, abbiamo concepito il grande progetto dell’Unione Europea come il regno – in parte persino fiabesco – in cui questa aspirazione a un ‘progresso senza Storia’ potesse trovare la piena realizzazione. Così, i più audaci esponenti dell’europeismo hanno consegnato all’Ue il compito di custodire, promuovere ed estendere i diritti umani, mentre altri – rivisitando inconsapevolmente i fasti del più bieco determinismo economicista – hanno preferito affidare all’economia, e all’integrazione economica, la missione della costruzione del ‘popolo europeo’.
Oggi è ormai chiaro a chiunque che l’intera impalcatura europea è stata innalzata sul fragile terreno offerto da una miscela di utopismo tecnocratico e di melassa retorica. Ma, come spesso avviene nelle vicende della storia intellettuale, il mutamento tarda ad essere metabolizzato. E le élite – le élite politiche, ma anche quella schiera di opinion makers che continuiamo a etichettare con il nome solenne di ‘intellettuali’ – non abbandonano le lenti con cui hanno guardato e misurato il mondo per due decenni. Senza mettere neppure in dubbio che quelle lenti diano una rappresentazione della realtà fedele. Ma limitandosi a biasimare il fatto che la realtà – con tutte le sue complicazioni – si mostra ancora fastidiosamente renitente a conformarsi alle loro previsioni e a seguire il binario promettente del ‘progresso’. In questa operazione, è scontato che nulla venga messo in discussione del progetto europeo, e che la responsabilità del fallimento non vada neppure in minima parte assegnata a quelle élite – politiche, economiche, intellettuali – che hanno elaborato l’intelaiatura dell’Ue, e che hanno provveduto a rivestirla nel corso dei decenni di una spessa coltre di formule retoriche, ormai divenute per molti insopportabili. Perché il peso del fallimento deve ricadere sulle spalle di quel popolo ignorante, ingordo, ingrato, che non ha compreso fino in fondo la bontà del progetto, e che non si è completamente adeguato alle direttive che quel disegno imponeva. Oltre che, naturalmente, a quelle classi politiche che – per bieche finalità egoistiche – hanno assecondato gli appetiti del corpo elettorale.
In questo fastidio per un demos vittima delle proprie pulsioni e preda dei più scaltri demagoghi non c’è, a ben vedere, nulla di particolarmente originale. La filosofia politica occidentale è segnata, fin dalla sua origine, da questo marchio. E, a ben vedere, nessuna forza politica – a sinistra come a destra – è stata immune dalla tentazione di considerare il popolo come una massa gregaria da guidare, ma sempre disposta a cambiare campo, a salire sul carro del vincitore, a preferire il proprio volgare guadagno agli ideali più nobili. Ma l’implicazione principale di questa impostazione diventa oggi una critica della democrazia paradossalmente pronunciata nel suo nome. In altri termini, la difesa della ‘casa europea’ – che doveva reggersi proprio sulle basi offerte dai principi democratici – deve assumere la forma di una critica della democrazia, dei suoi eccessi, della sua incapacità di produrre decisioni efficienti ed efficaci. Un campione di questa visione è naturalmente Mario Monti, ed è sufficiente scorrere anche rapidamente il recente volume scritto in collaborazione con Sylvie Goulard, e intitolato ambiziosamente La democrazia in Europa, per cogliere come la fede nella tecnocrazia e il fastidio per il demos trasudino quasi da ogni pagina. Ma si tratta di una lettura destinata probabilmente ad accompagnarci per i prossimi anni, anche perché la crisi dell’Ue – una crisi che si intreccia a doppio filo con la crisi dei regimi democratici dell’Europa meridionale – è ancora molto lontana dal risolversi.
Un esempio quasi cristallino è offerto in questo senso da Morire di democrazia. Tra derive autoritarie e populismo (Longanesi, pp. 111, euro 12.90), un agile volumetto di Sergio Romano. Pubblicato in piena campagna elettorale, il libro di Romano propone infatti un’analisi del «disagio» odierno della democrazia. Ma, soprattutto, rappresenta una sintesi paradigmatica di quell’«odio per la democrazia» di cui si è – più o meno occultamente – nutrito l’immaginario europeo, e che oggi affiora in modo palese. Ed è in questo senso ancora più significativo in quanto proviene da un intellettuale raffinato come Romano, profondo conoscitore delle tragedie della Storia e tutt’altro che incline alle semplificazioni.
La tesi di fondo di Romano è molto semplice. La crisi dell’Europa, a suo avviso, non ha nulla che vedere con il ‘deficit di democrazia’ che secondo i critici contrassegna le istituzioni dell’Ue. A Romano sembra, infatti, che «tutti i maggiori mali di cui l’Europa soffre in questo momento siano dovuti al pessimo funzionamento delle democrazie nazionali» (p. 9). Ritiene cioè che i problemi di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna siano una conseguenza delle scelte compiute negli anni da classi politiche corrotte e inadeguate, che gli avvertimenti dell’Ue siano stati disattesi, e che la moneta unica sia stata un’occasione che questi paesi non sono stati in grado di cogliere. Il motivo principale è solo uno: le classi politiche nazionali pensano solo ad accaparrarsi il voto degli elettori, e per questo alimentano i loro appetiti voraci, anche se il tentativo di accontentare un’opinione pubblica volubile e insaziabile si risolve in politiche fallimentari. I governi in carica sono dunque puniti dal voto popolare, la rappresentanza parlamentare è frammentata, si devono formare governi di coalizione eterogenei e litigiosi, e infine vengono premiati partiti ‘antisistema’, come Alba dorata in Grecia o come il Movimento 5 Stelle in Italia. Ma, se questi partiti sono sempre stati – come scrive Romano - «una inevitabile patologia delle democrazie», oggi il fenomeno si aggrava per un elemento inedito: «La novità, oggi, è che possono contare sull’esistenza di un forte malumore sociale e di folle giovanili che s’indignano nella Puerta del Sol di Madrid, dichiarano di volere occupare Wall Strett o campeggiano per parecchie settimane di fronte alla cattedrale londinese di Saint-Paul» (p. 13). E questo non è puramente incidentale, perché l’estensione della partecipazione è un processo che, secondo l’ex ambasciatore a Mosca, innesca una tensione pericolosa, alimentata anche dalle nuove tecnologie: «Si è formata così una pericolosa discrasia fra la capacità di protestare, straordinariamente accresciuta, e i risultati della protesta. Se la quantità della protesta tende ad aumentare e tendono a diminuire invece gli strumenti con cui i governi possono dare una risposta alle richieste dei loro elettori, quali saranno domani le sorti della democrazia?» (p. 22).
Naturalmente Romano non si limita a lanciare i propri strali contro l’eccesso di partecipazione. Segnala innanzitutto come gli Stati perdano gran parte del loro potere a causa della globalizzazione e a causa dell’ascesa della finanza. Non dimentica inoltre gli effetti perversi della spettacolarizzazione della politica, che da un lato consistono nella proliferazione dei suoi costi (da finanziare in modo lecito o illecito), mentre dall’altro implicano l’ulteriore indebolimento della fiducia nelle istituzioni e nei leader. Non tralascia di menzionare la schizofrenia delle classi politiche, che in Europa agiscono in un modo, mentre in patria contestano quelle stesse decisioni che hanno assunto in sede comunitaria. E, va da sé, compila un lungo elenco di difetti che condannano l’Italia, dall’assenza di un autentico sentimento nazionale, all’eredità statalista del fascismo, al ruolo antinazionale esercitato dalla Chiesa cattolica, all’assenza di un socialismo riformista. Ma, in generale, i problemi derivano dall’esasperazione di ciò che caratterizza la democrazia e l’ideale democratico: e cioè la convinzione che al popolo spetti la decisione su chi deve governarlo, e su quali obiettivi debbano perseguire i governanti. In questo senso, il web ha ulteriormente dilatato lo spazio in cui i cittadini possono far sentire la loro voce, anche lontano dal momento elettorale. Così, i cittadini diventano instancabili guardoni, ingordi di scandali, di informazioni carpite con l’inganno, di rilevazioni che dissolvono segreti inconfessabili. E per di più, osserva Romano in uno dei passaggi più vibranti della propria polemica, si spinge a invocare il rispetto di principi di eguaglianza e giustizia in termini tali da ingenerare un clima di linciaggio: «Vi è anche una rancorosa invidia, accompagnata da sospetti e denuncie, per la classe dirigente che ha tratto maggiori vantaggi dalle sue cariche e professioni. La macroscopica ingordigia dei banchieri e i privilegi che la classe politica ha concesso a se stessa hanno avuto l’effetto di rendere la ricchezza, comunque acquisita, colpevole. Nelle società occidentali vi è così una nuova forma di sanculottismo che vorrebbe impiccare i ricchi ai lampioni, e lo fa ogni giorno sul mondo virtuale della rete. Le diseguaglianze sono diventate scandalose e pericolose. Ma la pretesa di fissare un tetto, che gli emolumenti del settore privato e pubblico non devono sfondare, è una forma di dirigismo sociale, con una forte vena populista, che può rivelarsi in pratica poco applicabile o controproducente. Il laissez-faire finanziario degli ultimi trent’anni ha creato una generazione di banchieri spregiudicati e affamati di bonus. Ma una caccia alle streghe da bruciare sulla pubblica piazza non sarebbe uno spettacolo migliore» (pp. 52-53).
L’enfasi retorica di Romano può forse infastidire chi non abbia molto a cuore la causa dei grandi finanzieri bruciati sulla pubblica piazza, o che sia invece più simpatetico con la messe più numerosa di piccoli imprenditori, disoccupati e pensionati travolti dalla crisi che hanno deciso di togliersi la vita. Ma un accento tanto forte sulla portata del contemporaneo «sanculottismo» è diretta, nel discorso dell’editorialista del «Corriere della Sera», soprattutto a sostenere la tesi di fondo, secondo cui le democrazie contemporanee sono esposte a minacce sempre più forti, e dunque a una crisi che rischia di investire le basi stesse della convivenza democratica. «Non vi è ancora un appetito diffuso per nuove forme di autoritarismo, ma è difficile immaginare che questa vecchia e zoppicante democrazia possa, nelle sue forme attuali, sopravvivere al proprio declino senza rinnovare le sue istituzioni e soprattutto senza sterilizzare la grande piaga della corruzione. Non può esservi democrazia là dove non sarà stato possibile strozzare il flusso di denaro che innaffia ogni giorno la politica e i suoi manutengoli. Se questo non accadrà, le società europee finiranno per soccombere a qualche tentazione demagogica o autoritaria» (p. 106).
I timori di Romano non sono probabilmente eccessivi, perché le democrazie occidentali – e in particolare quelle europee – si trovano davvero alle prese con una crisi non puramente congiunturale. Ma ciò che è più significativo nel ragionamento dell’ex diplomatico non è tanto la fosca previsione, quanto la spiegazione che viene fornita del fenomeno. In altre parole, il discorso di Romano è interessante soprattutto perché riesce a mostrare come si possa ragionare su una crisi che è in gran parte (se non certo totalmente) un prodotto dell’integrazione europea e dell’unificazione monetaria, senza neppure mettere per un attimo in questione le premesse di quel progetto, l’ossatura del trattato di Maastricht, il disegno dell’introduzione della moneta unica. Ed è soprattutto rilevante perché, all’interno di un’argomentazione di questo tipo, ogni accenno a un esame delle conseguenze che ha prodotto effettivamente l’unificazione monetaria venga preventivamente accostato alle più retrive posizioni euroscettiche. È infatti proprio per questa insistenza che il ragionamento sviluppato da Romano viene a mostrare, in filigrana, l’atteggiamento di un’intera élite. Un’élite che non può mettere in discussione il modo in cui, a partire dalla fine degli anni Ottanta, ha immaginato e costruito l’Europa, senza al tempo stesso ammettere il proprio radicale fallimento politico e culturale. Ed è proprio per questo motivo che i timori per le sorti delle nostre democrazie devono accompagnarsi paradossalmente alla condanna dell’ignoranza del demos e a una sempre più tenace fede nella ‘tecnocrazia’, tanto più sconcertante quanto più appare evidente e doloroso il suo fallimento.
Nel lungo processo di integrazione, come spesso si dice, l’Europa ha proceduto coprendosi il volto con una maschera. Le élite europeiste hanno cioè spesso occultato con una serie di procedure puramente tecniche una serie di processi politici, destinati ad avere conseguenze rilevanti per ciascuno dei paesi membri. In questo modo, non solo si è aggirato l’ostacolo di opinioni pubbliche nazionali spesso resistenti a cedere porzioni di sovranità. Ma, al tempo stesso, si è potuto scaricare il peso di scelte impopolari e dolorose sull’Ue, ripetendo mille volte che “è l’Europa che ce lo chiede”. E, allora, più che ricercare una legittimazione popolare, le élite nazionali si sono limitate a ottenere una sorta di legittimazione ‘orizzontale’, in grado di preservare il progetto europeo dal rischio di un giudizio severo. Se questo progetto avesse prodotto quegli effetti positivi che vent’anni fa venivano quasi unanimemente annunciati alle opinioni pubbliche dei paesi candidati a entrare nella moneta unica, oggi si potrebbe riconoscere che la fiducia nella tecnocrazia era ben riposta, e che l’unificazione monetaria è stato un processo gestito da élite illuminate, che hanno dovuto difendere il loro lungimirante disegno da un popolo miope ed egoista. Ma, per chi voglia davvero guardare in faccia la realtà, le cose sono andate diversamente, e un ventennio di ‘sacrifici’ ha prodotto, nei paesi meridionali dell’Ue, ben pochi benefici e danni molto più visibili. Naturalmente si può obiettare che non tutta la colpa è dell’Euro, o persino – ma diventa sempre più complicato – che l’Euro non ha proprio nessuna colpa, e si può anche replicare che molti altri fattori – dalla globalizzazione all’ascesa della Cina, dalle nuove tecnologie alla corruzione delle classi politiche nazionali – hanno avuto un peso molto maggiore, o che fra un ventennio si inizieranno a vedere i frutti positivi di quel ‘risanamento’ cui la crisi odierna costringerà anche i paesi meno virtuosi. Forse, ma è lecito avere qualche dubbio, si tratta di osservazioni fondate. Però è del tutto comprensibile che non si tratta di osservazioni capaci di lenire la sofferenza di quei ceti sociali che hanno sostenuto il peso di un ‘risanamento’ sempre invocato e oggi più lontano che mai. Ed è molto probabile che risulteranno sempre meno capaci di arginare il risentimento che cova nelle giovani e meno giovani generazioni. Piaccia o non piaccia, giusto o sbagliato che sia, questo risentimento finirà allora con l’indirizzarsi proprio contro quelle élite che hanno difeso con tanta pervicacia l’utopia tecnocratica di un’Europa costruita sulla testa degli europei. Nonostante sia del tutto illusorio sperare che da questo mutamento di clima possa cominciare davvero quella ‘purificazione’ della scena pubblica che Némirovsky confidava potesse giungere dai ‘falò dell’autunno’. Perché, anche in questo caso, l’inverno che ci attende si rivelerà probabilmente molto più lungo e doloroso di quanto oggi temiamo.
Damiano Palano
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