sabato 4 maggio 2013

Apologia letteraria del «passacarte». Un libro di Luciano Vandelli sull'impiegato nella letteratura



di Damiano Palano

Honoré de Balzac definiva la burocrazia come un “un potere gigantesco messo in moto da nani”, e in quasi due secoli la reputazione della macchina amministrativa non è certo migliorata. Il mondo della burocrazia è stato infatti quasi sempre rappresentato come un regno dominato da un’esasperante lentezza, costantemente intasato, frenato da procedure bizantine e formalismi quasi caricaturali. E gli stessi impiegati pubblici sono stati invariabilmente raffigurati come gelosi custodi dei misteri della macchina, o come parassiti annidati dentro uffici polverosi. Proprio per questo può essere sorprendente leggere Tra carte e scartoffie. Apologia letteraria del pubblico impiegato (Il Mulino, pp. 304, euro 22.00), un libro in cui Luciano Vandelli – tra i più autorevoli studiosi italiani di diritto amministrativo – porta alla luce lo stretto legame che unisce burocrazia e letteratura. Vandelli compie infatti un viaggio appassionante nella narrativa degli ultimi duecento anni, e scopre che molti celebri romanzieri – come Stendhal, Maupassant, Puškin, Gogol, Melville, Kafka – furono, per una parte rilevante della loro vita, funzionari della burocrazia statale. La rappresentazione letteraria del pubblico impiego è dunque, per molti versi, un’auto-rappresentazione prodotta da quello stesso gruppo sociale che trascorreva le proprie giornate ‘fra carte e scartoffie’. Non è allora così singolare che molti grandi romanzi siano affollati di piccoli impiegatucci, sempre alle prese con stipendi insufficienti, con i dispetti dei colleghi, con le angherie del capufficio. Ed è anche comprensibile che la macchina burocratica possa diventare, oltre che un formidabile palcoscenico, una grande metafora del mondo moderno. Gli uffici vengono infatti a offrire la plastica raffigurazione di una modernizzazione diretta a smantellare antichi privilegi e cariche venali. Ma si trasformano anche nel simbolo di un’organizzazione in cui le esigenze di razionalità producono spesso meccanismi perversi, e in cui le maglie delle procedure finiscono con lo stringere l’impiegato in una prigione soffocante. Nelle pagine di Kafka – che fu peraltro un impiegato modello – è allora facile riconoscere il più fedele specchio letterario della celebre «gabbia d’acciaio» della modernizzazione: la gabbia di cui la società occidentale, secondo Max Weber, sarebbe rimasta prigioniera proprio a causa del successo della burocrazia. 
Naturalmente l’immagine letteraria dell’impiegato pubblico, spesso assai poco generosa, tende a offuscare quella che Anna Maria Cancellieri – introducendo il libro di Vandelli – definisce come “l’altra faccia della burocrazia”: la faccia costituita dai tanti piccoli e grandi funzionari che quotidianamente servono con passione lo Stato. Forse dovremmo iniziare ad apprezzare un po’ di più questa dimensione. Ma, probabilmente, dovremmo anche cominciare a riconoscere che la pubblica amministrazione negli ultimi decenni è profondamente cambiata, e che le sue logiche sono ormai piuttosto lontane da quelle che avevano di fronte Weber e Kafka. E anche per questo l’ingranaggio burocratico non cessa di riflettere in modo formidabile le trasformazioni sociali. Perché, in fondo, finisce col restituire tutta l’incertezza caotica del nuovo ‘mondo liquido’. Un mondo di cui le scienze sociali hanno già iniziato a indagare le dinamiche, ma che, probabilmente, attende ancora il suo Balzac.

Damiano Palano

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