L'ondata che nelle ultime elezioni ha travolto i principali partiti è soltanto l'annuncio di un cataclisma ancora più radicale? La forma-partito è destinata a dissolversi? Una discussione critica di "Finale di partito", l'ultimo libro di Marco Revelli
Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica
È davvero difficile sottrarsi alla tentazione di ravvisare,
nel quadro allestito da London più di cento anni fa, alcuni degli elementi che
oggi, secondo gli osservatori più critici, caratterizzano le nostre democrazie.
Democrazie in cui le elezioni si risolvono in uno spettacolo puramente
mediatico, in cui i cittadini hanno ruolo sostanzialmente passivo, e in cui le
intese più significative vengono raggiunte in contrattazioni riservate fra la
classe politica e i più influenti gruppi di interesse. Certamente la lettura
proposta da quanti sostengono che le democrazie occidentali siano ormai solo
‘postdemocrazie’ rischia di rivelarsi eccessivamente pessimista, come
d’altronde si rivelò troppo pessimista la previsione fantapolitica di London.
L’autore di Zanna bianca, del Richiamo
della foresta e Martin Eden era
d’altronde imbevuto, come si sa, di un marxismo dall’impronta fortemente
darwinista e positivista, che lasciava poco spazio alle sfumature. E, a ben
vedere, l’incubo distopico del Tallone di
ferro non faceva che tradurre in termini letterari – amplificato
dall’ambiente americano – lo schema tracciato da Engels nell’Antidüring, nel quale la previsione
dell’estensione di monopoli e cartelli era strettamente legata alla convinzione
che un progressivo impoverimento dovesse assottigliare sempre di più la schiera
dei ‘ceti medi’, dei piccoli imprenditori, destinati a tramutarsi in proletari.
Ma, al di là delle previsioni, uno degli aspetti più interessanti del romanzo
era l’immagine del partito rivoluzionario delineata da London. Quando pensava
all’organizzazione chiamata a combattere la dittatura della «plutocrazia», il
romanziere californiano descriveva infatti un partito non molto diverso da
quello di cui Lenin – dall’altra parte del globo – aveva iniziato a fissare i
caratteri essenziali solo pochi anni prima, nelle pagine di Che fare? Il partito che London poneva
al centro del suo romanzo fantapolitico non era un’organizzazione che puntava a
partecipare alle elezioni, se non altro perché i dibattiti al Congresso si
erano ormai tramutati in rappresentazioni puramente farsesche, prima di
degenerare ulteriormente. Il partito immaginato da London era piuttosto di
un’organizzazione che presentava tutti i tratti della compatta sagoma del
partito rivoluzionario novecentesco, e cioè di quel modello che, negli anni a
venire, sarebbe diventato per molti versi egemone all’interno del movimento
socialista. Nelle pagine di London, l’assetto dell’«oligarchia» americana, la
sua piena coesione interna e il suo implacabile sistema di sfruttamento – il
«Tallone di ferro» - implicavano infatti la necessità di un’organizzazione
rivoluzionaria altrettanto coesa e risoluta: un’organizzazione che soltanto una
rigorosa gerarchia e una precisa divisione dei compiti potevano garantire.
Inoltre, se all’organizzazione rivoluzionaria spettava il compito cruciale di
definire il piano segreto dell’insurrezione e del logoramento del «sistema
nervoso» dell’oligarchia, alla «massa del popolo disperato» restava soltanto un
ruolo secondario. Per quanto disposto a tutto, il «popolo dell’abisso» era
infatti totalmente inadatto ai compiti dell’organizzazione. E per questo,
capace di destarsi improvvisamente dall’abituale apatia – levandosi «in vere
ondate di rabbia, ruggendo e brontolando, carnivoro, ebbro del whiskey dei
depositi assaliti, ebbro d’odio e della sete di sangue» (ibi, p. 238) - poteva giocare una funzione solo all’interno dei
piani insurrezionali definiti dal partito.
Nella distopia fantapolitica di London si ritrovano in
effetti, seppur estremamente stilizzati, proprio tutti gli elementi al cuore di
quel modello di organizzazione rivoluzionaria destinato a imprimersi
nell’immaginario novecentesco. Un modello di organizzazione i cui elementi cruciali
sono costituiti dalla ferra disciplina interna, dalla centralità
dell’ideologia, dal ruolo di un militante disposto a sacrificare tutto se
stesso alla causa della rivoluzione e a sottomettere la propria volontà alle
decisioni del partito. Ma, in una certa misura, quel modello di partito si basa
sulla medesima convinzione che alimenta tutti i grandi partiti di massa
novecenteschi. Una convinzione secondo cui esiste un sostanziale ‘isomorfismo’
fra la struttura del potere economico e politico e la struttura di cui il
partito deve dotarsi per tentare di avviare un processo rivoluzionario, o anche
solo per impossessarsi delle leve del potere. E che spinge dunque partiti con
principi ideologici molto lontani fra loro, e con obiettivi spesso notevolmente
diversi, ad adottare lo stesso modello di organizzazione.
Alla base di Finale
di partito (Einaudi, Torino, pp. 137, euro 10.00), il più recente fra i
libri di Marco Revelli, sta per molti versi proprio la critica al fatale
isomorfismo che nel corso del Novecento si stabilisce fra organizzazione
politica e organizzazione economica. Il titolo del pamphlet – che come tutti gli scritti di Revelli si legge come un
romanzo – lascia naturalmente poche speranze al partito di massa che abbiano
conosciuto nel corso del XX secolo, e di cui gli ultimi trent’anni sembrano
d’altronde aver lasciato in piedi ben poco. In effetti, nelle pagine iniziali
del volume ricostruisce i contorni di quella «diaspora» che ha condotto buona
parte degli elettori italiani a fuoriuscire dagli steccati identitari che a
lungo li avevano ospitati. Una «diaspora» le cui dimensioni, dopo le elezioni
del febbraio 2013, sono evidentemente cresciute improvvisamente, a ulteriore
dimostrazione che il processo segnalato da Revelli non è certo un abbaglio
congiunturale. Naturalmente, questo processo è un esito della crisi economica,
delle politiche di austerità e del ‘governo tecnico’, ma è anche il segnale
della dissoluzione del bipolarismo sui
generis della Seconda Repubblica. Ma, per Revelli, si tratta di qualcosa di
ancora più radicale, e cioè di una crisi che mette in discussione la stessa
funzione dei partiti politici. D’altronde, la caduta verticale della fiducia
riposta nei partiti caratterizza buona parte delle democrazie occidentali, e
non è un fenomeno solo italiano. E la spiegazione più profonda va rintracciata
nella sensazione che la classe politica, la «casta», il sistema dei partiti,
costituisca in realtà una sorta di «oligarchia».
Ovviamente la denuncia della deriva oligarchica
nascosta nei meccanismi democratici non è una novità, perché poco più un secolo
fa Robert Michels ne fece la più impietosa – e ancora oggi affascinane –
analisi. Per molti versi, oggi non facciamo dunque che riscoprire ancora una
volta gli effetti della vecchia «legge ferrea dell’oligarchia», quando
riconosciamo – dentro ogni partito – la tendenza dei gruppi dirigenti a
trasformarsi in una casta intoccabile e inamovibile, che invariabilmente tende
a far coincidere il bene del partito (e il bene del paese) con la propria
conservazione. Gli effetti sono però oggi molto diversi da quelli del passato.
Il partito cui Michels guardava si fondava infatti sull’esistenza di una profonda
divaricazione sociale e culturale fra leader e masse: in altre parole, le masse
di lavoratori salariati, in larga parte privi di istruzione e con bisogni
prevalentemente «materiali», non solo delegavano la funzione di direzione a una
minoranza di intellettuali, ma – come sottolineava con forza lo studioso
tedesco – finivano anche col nutrire un’incondizionata fiducia nei propri capi.
Ed è invece questa fiducia a dissolversi progressivamente nell’ultimo secolo,
fino quasi ad annullarsi. Ma il motivo di questo cambiamento non è soltanto la
nascita di nuove generazioni di «post-materialisti», dotati di maggiori risorse
cognitive rispetto al passato, dell’individualizzazione, o del mutamento
tecnologico. Secondo Revelli, la spiegazione più radicale va ritrovata invece
proprio nell’isomorfismo tra forma-partito e forma dell’impresa.
Revelli non si limita infatti a segnalare come i
vecchi partiti di massa siano stati sostituiti da quelli che è diventato
abituale definire ‘partiti di cartello’, oppure da partiti
professionali-elettorali, con un radicamento territoriale sempre più esile. Il
suo discorso va più in là, e sviluppa l’idea che, in qualche modo, la crisi del
partito novecentesco non sia altro che l’ultimo episodio di quella transizione
al ‘post-fordismo’ che ha segnato gli ultimi trent’anni. «Le macchine
organizzative novecentesche», scrive infatti Revelli, «hanno tutte le stesse
caratteristiche (siano esse Fabbriche o Eserciti, Partiti o Chiese…): una
tendenza intrinseca al gigantismo (a incorporare masse ampie di uomini in modo
stabile, sistemandoli in strutture solide e permanenti» (p. 75). Che siano
fabbriche o partiti, tutte le «macchine» del Novecento sono infatti accomunate
da «una vocazione onnivora e centripeta, tesa ad attirare entro il proprio
campo organizzativo quante più funzioni possibile, per sottometterle alla ‘mano
visibile’ dei propri livelli gerarchici e garantirsene l’assoluta prevedibilità
di comportamento» (p. 76). Ma quel modello, fondato sul pilastro del
‘gigantismo’, sull’ambizione di un’integrazione ‘verticale’, sulla
formalizzazione di tutti i ruoli, sul primato della burocrazia, entra in crisi
a partire dalla fine degli anni Settanta, con i primi segnali del passaggio dal
‘fordismo’ al ‘postfordismo’: un passaggio che comporta la ricerca di
flessibilità organizzativa, la destrutturazione dei grandi complessi
industriali, l’affermazione del just-in-time
toyotista, ma anche una progressiva deregulation
e l’abbandono dei principi weberiani di una burocrazia orientata al fedele
rispetto delle procedure. Se il mutamento investe prima di tutto l’ambito
imprenditoriale, non mancano anche le ricadute sul terreno politico, che
finiscono col coinvolgere anche i partiti-fabbrica del Novecento. Quei partiti
erano infatti «un tipo di organizzazione per definizione ‘pesante’, concepita e
costruita non solo per gestire i processi istituzionali della rappresentanza
(per concorrere alle elezioni), ma anche – e spesso soprattutto – per
incorporare nelle proprie strutture (per ‘integrare’, appunto) interi pezzi di
società, aree ampie del proprio elettorato, per orientarne e formarne valori e cultura,
strutturarne aspetti significativi della vita (il tempo libero, le letture, i
gusti…), assicurandosene nel contempo la prevedibilità dei comportamenti
politici ed elettorali» (p. 80). Inoltre, nel corso dei decenni, quegli stessi
partiti – pur differenti per origini e ideologia – presero a dilatare i loro
apparati, seguendo una logica in fondo molto simile a quella dell’«integrazione
verticale» dell’impresa fordista: «Non più solo circoli e sezioni per la
discussione e l’elaborazione politica, ma anche tutta la strumentazione tecnica
(l’‘indotto’ potremmo dire) per far fronte ai compiti di una moderna macchina
socio-produttiva», e tutto «con la logica manageriale del make, che offriva l’enorme vantaggio del controllo diretto –
attraverso la ‘mano visibile’ dell’organizzazione – sull’intero ventaglio delle
azioni politicamente utili e sul proprio stesso ‘capitale politico’ ed
elettorale» (p. 81).
Proprio perché tanto ‘pesanti’, i partiti ‘fordisti’
non sono in grado di rispondere al mutamento di paradigma. Un mutamento che –
in modo analogo a quanto si produce sul mercato dei beni – avviene
principalmente nel ‘mercato elettorale’, perché anche gli elettori diventano
sempre più fluttuanti nello spazio politico e non sono più vincolati nelle loro
scelte da stabili appartenenze ideologico-partitiche. Alcuni dei vecchi partiti
riescono ad adeguarsi alle nuove esigenze del ‘mercato’, mentre altri non sono
in grado di farlo, e si dissolvono nell’arco di qualche anno. Ma, in generale,
tutti i partiti devono rapidamente rimodulare la loro organizzazione in vista
della modificazione che si realizza nel rapporto con gli elettori, testimoniata
dal calo degli iscritti e del flusso di finanziamenti provenienti da seguaci e
militanti. È proprio per rispondere a questa sfida che la gran parte dei
partiti si indirizza verso nuove fonti di finanziamento, principalmente pubbliche
e in parte provenienti da gruppi privati. Anche perché, nel frattempo, la
competizione politica si sposta rapidamente sul terreno della comunicazione
televisiva (un terreno in cui il militante serve a poco, mentre occorrono
ingenti risorse, professionalità piuttosto costose, costanti monitoraggi del
clima di opinione). In termini economici, l’effetto della ‘mediatizzazione’ è
soprattutto una dilatazione dei costi delle campagne, e da questo punto di
vista è sufficiente ricordare – come fa opportunamente Revelli – che Barack
Obama e Mitt Romney hanno investito per la loro campagna più o meno due
miliardi di dollari, circa il doppio della cifra di quattro anni prima, e venti
volte più di quanto spesero i contendenti delle elezioni del 1980. La
spiegazione della lievitazione dei ‘costi della politica’ va ricercata perciò
nel mutamento del contesto in cui operano i partiti e nel cambiamento del
terreno su cui si svolge il confronto. Ma il punto è che l’estensione del loro
costo – tanto più in contesti in cui il finanziamento è soprattutto pubblico –
risulta sempre più in contrasto con la realtà di partiti il cui legame con la
società diventa sempre più labile, e il loro radicamento nel territorio sempre
più evanescente. «Un po’ com’era accaduto negli anni Settanta del Settecento,
quando i costi congiunti della tradizionale noblesse
d’épée, degli squattrinati eredi dell’antica aristocrazia guerriera, e
della più recente noblesse de robe,
dei famelici servitori di corte più vicini al re, erano apparsi sempre più
ingiustificabili e intollerabili man mano che la carestia erodeva le risorse di
una società in trasformazione fino a lacerare l’involucro dell’Ancien régime». In effetti, anche la
‘nobiltà’ dei partiti sembra «incapace di mediare tra passato e presente
compensando gli esplosivi costi di transazione imposti dalle nuove condizioni
del mercato politico con una proporzionale riduzione dei suoi consolidati costi
organizzativi», e pare piuttosto «impegnata a moltiplicare gli investimenti
fissi per tentare di difendere una residua e sempre più incerta capacità di
controllo su una società sempre più liquida e imprevedibile» (p. 94).
Il ragionamento di Revelli non si limita però a
denunciare l’estensione dei costi della politica, o a segnalare la metamorfosi
che ha investito i partiti. L’interrogativo principale di Finale di partito sta infatti, probabilmente, sulle conseguenze che
la metamorfosi può avere sulle stesse democrazie rappresentative. In questo
senso, l’immagine della «democrazia del pubblico», proposta da Bernard Manin,
coglie alcuni aspetti di quel processo per cui i cittadini – sempre meno
identificati con i vecchi di partiti - finiscono col tramutarsi nel pubblico di
uno spettacolo, e cioè in un soggetto sostanzialmente estraneo al gioco
politico, e al quale è assegnato solo il ruolo di applaudire o censurare quanto
fanno gli attori sul palcoscenico. Alcune dinamiche sono messe in luce anche
dall’idea di Pierre Rosanvallon di un’estensione progressiva di quella
«contro-democrazia» che, negli ultimi due secoli, aveva avuto un ruolo solo di
‘controllo’, nei confronti della classe politica presente nelle assemblee
rappresentative, ma che, pur senza mirare alla ‘presa del potere’, tende oggi a
ridurre sempre più i margini di fiducia e legittimazione di cui gode chi occupa
i posti di comando. E forse persino lo scenario catastrofico della «democrazia
immediata», sostenuto dagli entusiasti seguaci della Rete, è in grado di
cogliere almeno qualcosa di quello smottamento che colpisce le stesse
fondamenta dei partiti.
Come
debba concludersi il finale cui allude il titolo del libro di Revelli non è
ancora chiaro. Senza dubbio, secondo Revelli il partito novecentesco sembra
avere ormai del tutto concluso la sua parabola storica. In altre parole,
l’isomorfismo tra organizzazione dell’impresa e organizzazione politica
condanna la tradizionale forma-partito e spinge verso la ricerca di nuovi
assetti, che siano più orizzontali, più flessibili e che, soprattutto, superino
una rigida divisione dei ruoli. «Il controllo monopolistico dello spazio
pubblico da parte del partito novecentesco», scrive infatti proprio al termine
del libro, «è finito». E la sovranità del partito appare ormai del tutto
limitata, perché dipende «dai vertici di un triangolo a geometria variabile».
Un triangolo i cui vertici sono il potere mediatico – definito come «la vera
variabile determinante capace di dimensionare, di volta in volta, il perimetro
della rappresentanza (riconvertita ormai quasi completamente in
rappresentazione) e di assegnare secondo la propria narrativa prerogative e
spazi decisionali» - la coppia di potere economico e potere finanziario, e i
«movimenti», ossia «quel ‘nuovo popolo’ informato, competente ed esigente, che
rivendica a sé spazi crescenti di autodeterminazione e seleziona attentamente i
livelli della delega», e che Revelli identifica – adottando un’espressione di
Urlich Beck – come «sub-politica». «Dalla risoluzione di quell’equazione a
molte incognite dipenderà, in buona misura, il futuro delle nostre democrazie
fragili. O, se si preferisce, dal grado in cui la forza di gravità di ognuno di
quei vertici del triangolo opererà sulla massa liquida – e talvolta addirittura
gassosa – di ciò che resta dei partiti politici dopo la loro metamorfosi
radicale» (p. 136).
Naturalmente si potrebbe discutere a lungo sulla previsione che i partiti siano ormai vicini al loro definitivo tramonto (una previsione che, a ben vedere, Revelli non sposa almeno pienamente), e si potrebbe anche dissentire sulle tinte piuttosto fosche del ritratto del partito novecentesco che emerge dal pamphlet dell’intellettuale torinese. Anche perché Revelli sembra davvero far propri alcuni dei vecchi cavalli di battaglia della critica anti-partitica: una critica che, senz’altro nel corso dell’ultimo mezzo secolo ha trovato degli alfieri anche tra le fila dell’intelligentzia radicale, impegnata a difendere la causa dei ‘movimenti’ contro partiti sempre più sclerotizzati, ma che, tradizionalmente, ha avuto i più convinti sostenitori tra quei pensatori che, con qualche nostalgia per la vecchia rappresentanza individuale, vedevano nei partiti soltanto macchine dispotiche avide di denaro pubblico e del tutto indifferenti all’interesse collettivo. Ma, a dispetto di questi elementi, è davvero difficile non concordare con la diagnosi formulata da Revelli sulla metamorfosi dei partiti. Perché i punti che segnala si ritrovano davvero nella realtà delle nostre democrazie. E, soprattutto, perché l’insieme delle trasformazioni che abbiamo vissuto negli ultimi anni – e che sono diventati quasi dirompenti negli ultimi ventiquattro mesi – sembrano davvero suonare come il definitivo requiem per la democrazia dei partiti.
Naturalmente si potrebbe discutere a lungo sulla previsione che i partiti siano ormai vicini al loro definitivo tramonto (una previsione che, a ben vedere, Revelli non sposa almeno pienamente), e si potrebbe anche dissentire sulle tinte piuttosto fosche del ritratto del partito novecentesco che emerge dal pamphlet dell’intellettuale torinese. Anche perché Revelli sembra davvero far propri alcuni dei vecchi cavalli di battaglia della critica anti-partitica: una critica che, senz’altro nel corso dell’ultimo mezzo secolo ha trovato degli alfieri anche tra le fila dell’intelligentzia radicale, impegnata a difendere la causa dei ‘movimenti’ contro partiti sempre più sclerotizzati, ma che, tradizionalmente, ha avuto i più convinti sostenitori tra quei pensatori che, con qualche nostalgia per la vecchia rappresentanza individuale, vedevano nei partiti soltanto macchine dispotiche avide di denaro pubblico e del tutto indifferenti all’interesse collettivo. Ma, a dispetto di questi elementi, è davvero difficile non concordare con la diagnosi formulata da Revelli sulla metamorfosi dei partiti. Perché i punti che segnala si ritrovano davvero nella realtà delle nostre democrazie. E, soprattutto, perché l’insieme delle trasformazioni che abbiamo vissuto negli ultimi anni – e che sono diventati quasi dirompenti negli ultimi ventiquattro mesi – sembrano davvero suonare come il definitivo requiem per la democrazia dei partiti.
Ciò
nondimeno, c’è un aspetto su cui l’analisi di Revelli sembra in parte
sorvolare, un aspetto che peraltro non coincide soltanto con un dettaglio del
quadro, ma che risiede nel contesto sistemico in cui la metamorfosi dei partiti
prende forma nel corso degli ultimi tre (o quattro) decenni. In effetti, Revelli, per
dar conto della trasformazione del partito novecentesco, prende le mosse
dall’analogia fra quanto avviene nella sfera dell’impresa e quanto si produce
in ambito politico. In questo senso, si tratta per molti versi del medesimo
impianto interpretativo già sviluppato da Revelli nel suo dibattito Oltre il Novecento. La politica, le
ideologie e le insidie del lavoro (Torino, Einaudi, 2001). Ma è soprattutto significativo che, in
entrambi i casi, la causa del mutamento, l’elemento che innesca la
trasformazione, sia rinvenuta nel mercato, ossia nel cambiamento delle attese,
dei bisogni, delle richieste dei consumatori. In altre parole, la svolta al ‘postfordismo’
viene interpretata soprattutto come una risposta alla saturazione del mercato
dei beni standardizzati di massa e all’esigenza delle imprese di differenziare
il prodotto in base alle richieste del consumatore, ‘pensando al contrario’
rispetto alla logica fordista. Allo stesso modo, il passaggio al ‘partito
leggero’ è interpretata soprattutto come un modo per venire incontro alle
mutate sensibilità di elettori non più legati affettivamente ai partiti e
disposti a ‘fluttuare’ nel mercato politico, alla ricerca dell’alternativa più
convincente, o del leader più seducente. Per quanto questi processi siano in
entrambi i casi innegabili, considerarli come la ‘causa’ del mutamento, o
comunque come il tassello decisivo per decifrare il puzzle della trasformazione
democratica, rischia però di diventare fuorviante. Ci si può chiedere se l’idea
della saturazione del mercato rappresenti la chiave di lettura più adeguata per
comprendere la transizione al postfordismo, ma ci si può chiedere soprattutto
se – puntando lo sguardo su ciò che avviene nei partiti (e sul rapporto fra
partiti e società) – si riesca davvero a comprendere le radici della
trasformazione delle nostre democrazie.
In
realtà, dovremmo forse allargare la nostra prospettiva, non tanto per negare il
mutamento dei partiti (o per considerarlo come irrilevante), quanto piuttosto
per collocarlo all’interno di un quadro articolato. E cioè per riconoscere come
il «finale di partito» sia probabilmente uno dei tasselli di una grande
trasformazione sistemica, un riflesso della transizione a una nuova «era
post-americana» e del mutamento geo-politico in atto, oltre che un portato
della ‘crisi fiscale’ delle democrazie occidentali. Questi processi di lungo
periodo non sono naturalmente da considerare come ‘cause economiche’ che
‘determinano’ conseguenze politiche, ma piuttosto come il contesto entro cui
vanno a innestarsi e a interagire le modificazioni nelle identità politiche, le
modalità di espressione dei conflitti, le dimensioni organizzative della società
e della politica. D’altra parte, osservando il Novecento dalla prospettiva che
ci consente il nuovo secolo, dobbiamo riconoscere la liberaldemocrazia
occidentale era anche il risultato della ‘guerra civile mondiale’, ossia il
riflesso di un conflitto internazionale che investiva e penetrava la politica
interna di ogni Stato. E che dunque i partiti di massa erano organizzazioni
disciplinate, gerarchiche, quasi militari nella loro fisionomia, proprio perché
il loro compito era di presidiare le casematte di una società sempre sul punto
precipitare in una guerra al tempo stesso civile e mondiale. Ora naturalmente
quel mondo non esiste più. Ma non solo perché i cittadini sono fuggiti da
quelle trincee, o perché hanno trovato le casematte in cui erano rimasti
imprigionati per mezzo secolo sempre più soffocanti e claustrofobiche. Ma anche
perché la guerra (quella guerra) è finita. Perché – per un intreccio di vicende
che, come sempre avviene per i grandi mutamenti storici, è in fondo
inestricabile – le vecchie trincee e le casematte non servono più a nulla. E
proprio per questo la domanda non deve essere forse – soltanto – se sia
possibile una democrazia «oltre» i partiti, o se insieme alla fine del partito
novecentesco si debba celebrare l’estinzione di ogni tipo di partito, o se una
nuova forma di partito – più flessibile, più orizzontale, meno gerarchica –
possa davvero riuscire a prendere corpo. La vera domanda che forse ci dovremmo porre è,
invece, se la democrazia che abbiamo conosciuto – la democrazia basata sui
partiti, ma anche sullo Stato sociale e su un certo tipo di regolazione del
conflitto – possa sopravvivere al mutamento sistemico che diventa di giorno più
evidente. O se, fra qualche decennio, non dovremo considerarla soltanto come il
pezzo di un «mondo di ieri» da rimpiangere nostalgicamente. E come un assetto
sempre meno capace di resistere all’abbraccio fatale di un nuovo magmatico e
inafferrabile ‘tallone di ferro’.
Damiano Palano
* Questo testo è apparso (in una versione più breve) sul sito dell'Istituto di Politica
Sullo stesso tema, vedi anche:
I partiti in un vicolo cieco. Un libro di Piero Ignazi sul passato e sul presente dei partiti
Simone Weil: il "manifesto" contro i partiti politici in una nuova edizione a cura di Marco Dotti e commentata da Marco Revelli e Andrea Simoncini
Abolire i partiti politici? Rileggere Simone Weil e Adriano Olivetti, pensando alla Terza Repubblica