di Damiano Palano
Sarà forse per la lontana somiglianza di Laura Boldrini con Barbara Steele, l’attrice di culto dell’horror gotico degli anni Sessanta. Sarà forse per il tono ispirato, vagamente ieratico, con cui il Presidente della Camera scandiva – come in una sorta di litania funebre – i nomi riportati sulle schede per l’elezione del nuovo inquilino del Quirinale, mischiati alla miriade di schede bianche e alle trovate di qualche buontempone. Sarà per il vortice dei colpi di scena che si sono succeduti uno dopo l’altro, o per tanto altro ancora. Ma il fatto è che lo spettacolo offerto da Montecitorio in questi giorni sembrava davvero molto simile a un remake di Danza macabra, il classico film di Anthony Dawson. Un film in cui una pattuglia di fantasmi stringe in una morsa fatale l’intrepido visitatore di un castello inglese, per sacrificarne la vita e riuscire così a guadagnare un giorno di vita.
La metafora può risultare un po’ eccessiva o indigesta. Ma in realtà – se vogliamo davvero guardare con occhi disincantati ciò che avviene oggi nel Palazzo – non possiamo più cercare di nascondere (e di nasconderci) una verità sempre più evidente. Una verità che ci dice che il vetusto, vituperato, svillaneggiato ‘sistema dei partiti’ non esiste più. Per il semplice motivo che oggi, nel Parlamento italiano, non esiste più nessun partito. E perché nessuna delle formazioni politiche che occupano gli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama ha ormai neppure lontanamente i connotati di ciò che chiamavamo ‘partito’.
Questo risultato era in gran parte prevedibile fin dagli ultimi mesi del 2012. La faida interna alla Lega Nord aveva portato alla luce una crisi forse non letale, ma certo destinata a incidere in profondità su un partito a lungo tenuto insieme dal carisma di Umberto Bossi. L’esilio kenyano di Silvio Berlusconi aveva fatto affiorare ciò che tutti per la verità sospettavano, ossia che il Popolo della Libertà non è mai stato davvero un partito, ma solo una miriade di gruppi e gruppuscoli provvisoriamente tenuti insieme dalla centralità del Cavaliere, e con ogni probabilità destinati a essere travolti da una formidabile spinta centrifuga nel momento (vicino o lontano) in cui il leader verrà meno. Inoltre, non era difficile riconoscere in Scelta Civica solo una maldestra operazione elettorale: un’operazione capace forse di dare un colpo alle ambizioni del centro di giocare un ruolo politico rilevante (e di far calare il sipario sulle speranze di quei leader politici di lungo corso che confidavano nella possibilità di intercettare i voti in libera uscita dell’area di centro-destra), ma non certo di tramutare Mario Monti in un leader carismatico. Infine, i risultati delle ‘parlamentarie’ avevano fatto intuire che il Movimento 5 Stelle si sarebbe trovato ad avere una pattuglia parlamentare piuttosto consistente ma fragilissima e inadeguata al ruolo, non solo per l’inesperienza politica.
Tutte queste tendenze sono state solo occultate dalla campagna elettorale, in cui le ‘personalità’ dei leader hanno occupato i teleschermi, e in cui – per una sorta di effetto ottico – si è avuta l’impressione di eserciti compatti, stretti attorno alla loro bandiera, impegnati l’un contro l’altro in una guerra di posizione. In realtà le cose non stavano così. E anche per questo, tutto il gioco ha continuato a ruotare attorno a quello che pareva costituire l’unico perno relativamente stabile, ossia il Partito Democratico. Anche se le performance comunicative del segretario lasciavano insoddisfatti molti elettori, e nonostante la lunga campagna per le primarie avesse messo in mostra i contorni di una lotta non certo amichevole fra il gruppo dirigente e i ‘rottamatori’, il Pd sembrava ancora una formazione piuttosto vicina a un partito. Un po’ per il suo radicamento territoriale, un po’ per la presenza di un ‘apparato’ politico-amministrativo piuttosto riconoscibile, il partito di Bersani dava infatti la sensazione di essere ancora un’organizzazione relativamente compatta, non priva di lacerazioni profonde, ma in ogni caso capace di muoversi con una sostanziale omogeneità. Anche perché, dopo tutto, si trattava pur sempre di un figlio – o di un figliastro – del vecchio Partito Comunista, un partito a lungo capace di occultare il dissenso sotto la coltre di un’omogeneità ufficiale e grazie al ferreo spirito di disciplina ereditato dalla tradizione leninista. E, soprattutto, perché quel partito sembrava poter contare su uno ‘zoccolo duro’ di elettori disposti ad accettare un po’ tutto, in nome della difesa di un’identità forse un po’ sbiadita nei connotati ideologici, ma ancora fortissima. Ma proprio questi capisaldi sono stati travolti dalle elezioni di fine febbraio. E ciò cui stiamo assistendo ora è solo la logica conseguenza di una tendenza ormai inarrestabile.
Lo ‘zoccolo duro’ del Pd, a un’attenta analisi del voto, si è rilevato infatti simile a una ciabattina consunta, perché il partito di Bersani ha visto prosciugato il proprio storico bacino elettorale persino nella roccaforte della ‘zona rossa’. E, così, l’intero nuovo gruppo dirigente del Pd – siano essi i “giovani turchi” o i sostenitori di Matteo Renzi – ha iniziato a condividere la medesima lettura. Una lettura per cui tutte le insidie non provengono dall’esterno del partito, ma dall’interno, dalla vecchia nomenklatura, da leader che non hanno più alcun contatto col territorio, e così via. Il risultato di queste spinte convergenti non può che essere la dissoluzione del Pd, condannato al tramonto insieme all’idea che un partito debba avere una linea, da perseguire magari pagando qualche prezzo e giungendo a qualche compromesso. E, in questo modo, sono destinati a svanire l’unico elemento che ancora teneva insieme la Seconda Repubblica e l’ultima diga che tratteneva l’ondata di piena.
Negli ultimi mesi Gianroberto Casaleggio è stato spesso oggetto del dileggio dei professionisti della politica e dei più autorevoli commentatori della scena politica. Certo i suoi toni apocalittici possono talvolta lasciare sconcertati. E senza dubbio il suo ghigno vagamente inquietante – a metà fra John Lennon e il Mago Galbusera – si presta facilmente a diventare l’oggetto di una satira pungente. Ma è davvero difficile non riconoscere nella più famosa delle profezie di Casaleggio una sinistra previsione di quanto sta accadendo in Italia. Non tanto perché la Rete stia delineando una nuova forma di democrazia. Quanto perché una subdola, umorale, insaziabile democrazia del “mi piace” sta dissolvendo ciò che rimane dei vecchi partiti, insieme all’idea che i partiti – con le loro visioni del mondo, il loro universo simbolico, la stessa retorica dell’appartenenza – siano necessari alla politica e alla democrazia.
Molto probabilmente la Rete – o quantomeno la Rete acriticamente idolatrata dal Movimento 5 Stelle – non è destinata a sostituire davvero i partiti. E presumibilmente ciò che avviene in Italia è solo l’effetto di un’onda che Grillo, Casaleggio e il Movimento 5 Stelle si sono limitati a cavalcare, seppure con un certo talento. Ma è davvero difficile non considerare come dei fantasmi, come dei morti viventi, come dei cadaveri che camminano, i partiti che occupano oggi la scena politica italiana. Ed è davvero difficile non guadare allo spettacolo di Montecitorio come a una grande, dolorosa ed eccitante danza macabra.
Damiano Palano
Gentile professor Palano,
RispondiEliminaa una prima letta del suo articolo ho pensato che i suoi toni fossero un poco catastrofici soprattutto quando afferma che il " 'sistema dei partiti' non esiste più" e "che oggi, nel Parlamento italiano, non esiste più nessun partito." Dopo aver fatto queste due forti affermazioni, lei analizza le dinamiche e le problematiche interne dei maggiori partiti presenti in Parlamento e vi trova una grandissima divisione e debolezza; da qui lei giunge alla conclusione che l'idea dei partiti "con le loro visioni del mondo, il loro universo simbolico, la stessa retorica dell’appartenenza" si stiano dissolvendo insieme all'idea che questi "siano necessari alla politica e alla democrazia."
Le dirò la verità: dato che le sue argomentazioni non mi convincevano del tutto, dopo aver letto questo suo articolo, sono andata a prendere il Fisichella per ricontrollare la definizione di Partito. Oltre alle funzioni di reclutamento della leadership, comunicazione, decision-making, mobilitazione, aggregazione degli interessi, socializzazione politica ecc, esistono tre funzioni che "se considerate congiuntamente, sono esclusive del partito e lo distinguono tipologicamente dalla generalità degli altri attori politici: funzione di competizione elettorale, funzione di gestione diretta del potere politico, funzione di espressione democratica." (Per espressione democratica Fisichella intende la capacità di "espressione di domande politiche".) (Fisichella D. Lineamenti di Scienza Politica. Concetti, problemi, teorie. Carocci Editore S.p.A, Roma, 2007, pagg 215-219). Da qui una riflessione: forse la funzione di competizione elettorale non è stata ancora intaccata dai problemi del sistema partitico italiano, ma forse quella di espressione democratica e quella di gestione diretta del potere politico sì; infatti è molto difficile vedere nel nostro sistema l'espressione di domande politiche da parte da partiti, ma ancora più difficile è vedere una gestione diretta del potere politico. La mia riflessione continua su quest'ultimo punto: l'incapacità effettiva di gestire il potere politico dopo averlo ottenuto.
"La politica non è forse l’arte della mediazione? [...] Come faccio a garantire convivenza pacifica e relazioni costruttive e speranzose tra cittadini e Stato, cittadini e società, società e Stato, se non trovo un accordo? E come si trova l’accordo tra diversi, talora opposti, e quindi persino confliggenti, se non attraverso una paziente e laboriosa mediazione? Attraverso una decantazione che riduce il conflitto a competizione, leale e serena? Se due si mettono d’accordo, quel che ne viene fuori non è sempre cosca e spartizione di un bottino. Anzi, questa è piuttosto l’eccezione. A meno che non si voglia ora raccontare che ogni vita di coppia, ogni famiglia, è solo e soltanto un’accozzaglia, forzata e provvisoria, di interessi loschi e convenienze reciproche. Eppure lo si è detto, in altre stagioni “culturali”, periodicamente riemergenti." Queste sono affermazioni di Danilo Bresci nel suo articolo "Per chiunque straparli di 'inciucio': ricordarsi che l'alternativa al compromesso è spesso il fanatismo" uscito sulla Rivista di Politica Online.
(continua nel prossimo commento)
(Continua dal precedente commento)
RispondiEliminaDetto questo: non è forse il caso di asserire che ciò che non funziona nel nostro sistema, non sono solamente le dinamiche interne ai partiti, ma anche le relazioni che intercorrono tra loro? Infatti, è vero che è importate misurare la coesione dei partiti, ma è altrettanto vero che se ogni partito ha la propria ideologia e non vuole scendere a compromessi con altri, difficilmente si riuscirà a gestire il potere politico. Lo stallo che il nostro Paese ha visto negli ultimi giorni (limitandoci a considerare il periodo post-elezioni) ne è la prova.
Un sano dialogo, un sano compromesso, un sano 'connubio' Cavouriano è forse quello che l'Italia dovrebbe recuperare (e questo non significa necessariamente trasformismo, anche se mi rendo conto che la linea di demarcazione tra le due può risultare mal definita e mal definibile); certo, sarebbe auspicabile anche un 'cambio della guardia', ma se l'alternativa ai vecchi partiti sono i grillini (che anche lei fa molta fatica a definire un partito), i quali non hanno la minima intenzione di scendere a patti con alcuno, mi sembra quasi di cadere dalla padella nella brace.
A mio parere, i partiti non dovrebbero solo ritrovare coesione al loro interno, dovrebbero anche tornare a considerare chi appartiene a un altro partito non un nemico, bensì un avversario politico, così forse, si dialogherebbe di più, ci si scannerebbe di meno e si uscirebbe dallo stallo in cui la politica italiana è andata a incappare.
La ringrazio per avermi dedicato un pò del suo tempo.
Una sua studentessa di Sistemi Politici Comparati.
F.B.
Grazie del commento. In "Danza macabra" il termine 'sistema dei partiti' è usato nel significato gergale, non in quello 'tecnico' usato dai politologi. Nel senso 'tecnico', un sistema dei partiti ovviamente esiste, così come esistono dei 'partiti' (che partecipano alle elezioni, ecc.). Nel linguaggio giornalistico e nel dibattito politico, il 'sistema dei partiti' è andato invece a indicare (a partire dagli anni Ottanta) un 'sistema' nel senso deteriore, e cioè il sistema 'partitocratico'. Comunque, al di là di questa precisazione, la sua osservazione è sensata. Non ho nulla contro il 'compromesso', anche perché la democrazia può nascere (e spesso vivere) solo grazie a una serie di 'compromessi'. La mia sensazione è però che la difficoltà di giungere a compromessi non dipenda tanto (o solo) dalle relazioni fra i partiti italiani, quanto da ciò che sono, al loro interno, questi partiti. Detto in altre parole, è possibile fare compromessi tra forze organizzate, che abbiano una certa compattezza interna. Ma diventa molto difficile fare accordi politici quando i partiti sono poco più che aggregazioni momentanee, instabili, e così via. L'ostinazione con cui il Pd negli ultimi due mesi ha rifiutato le 'larghe intese' non era, probabilmente, solo il risultato di una ostilità verso il Pdl, ma anche la conseguenza dell'instabilità interna del partito e del timore che la scelta del 'compromesso' facesse saltare definitivamente l'equilibrio, come è poi avvenuto con la mancata elezione di Marini, lo psicodramma che ne è seguito, ecc. Anche per questo temo che il 'compromesso' che farà nascere il nuovo governo sarà davvero molto fragile. E temo che neppure il 'trasformismo' (e cioè la conquista di un consenso parlamentare mediante l'assegnazione dei incarichi governativi, di pratiche clientelari, ecc.) potrà rafforzarne le basi.
EliminaGentile professor Palano,
RispondiEliminagrazie per le sue delucidazioni. Alla luce di quanto mi ha spiegato, risulta molto più chiaro quanto intendesse dire nel suo articolo e non posso fare a meno di essere d'accordo con lei.
Grazie mille per il suo tempo.
F.B.
l'osservazione non è sensata. non si può raggiungere il compromesso perchè ogni partito deve rispettare la volontà del proprio elettorato
RispondiEliminaOgni partito non è tenuto a rispettare la volontà del proprio elettorato perché non esiste un mandato a cui i partiti sono legati, infatti non esistono organi di controllo attraverso i quali i cittadini possono controllare il loro operato. Fare promesse é possibile, mantenerle non è obbligatorio.
EliminaF.B.
Il compromesso è soltanto un inciucio? Non mi sembra. Non si può generalizzare. Il 'compromesso storico' fu un inciucio? E anche il CLN? E il pentapartito fu un 'compromesso' o puro consociativismo? Bisogna saper distinguere fra compromessi di ampia portata e 'accordicchi' di basso rango! Ma come si fa a distinguere? é solo una questione di posizioni politiche?
RispondiEliminals