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martedì 30 aprile 2013

"Partito". Dal 2 maggio in libreria!




Dal 2 maggio 2013 è in libreria Partito.
 
 
Partito
di Damiano Palano
Il Mulino, pp. 257, euro 15.00.

Accompagnata sin dall'antichità da una fama sinistra, l'idea di partito ha suscitato nella storia del pensiero occidentale critiche, sospetti e condanne fino alla fine dell'Ottocento, nel timore che l'affermarsi di una fazione potesse distruggere la concordia dell'ordine politico. La svolta decisiva si ha soltanto al principio del Novecento, quando emergono le organizzazioni di massa destinate a segnare il secolo. È allora che i partiti cessano di essere oggetto di dannazione o fenomeno deteriore da biasimare, per diventare le basi più salde e autentiche dello Stato, sia nei regimi autoritari, sia nelle nuove democrazie parlamentari. Ma le ombre infauste non si diradano del tutto e nemmeno oggi cessano di incombere sull'idea di partito che, come testimonia la cronaca quotidiana, incarna agli occhi di molti l'immagine peggiore dell'agire politico.

Indice: Introduzione. - I. Le parti politiche nel mondo antico. - II. Parti e fazioni nel Medioevo. - III. Lo Stato «super partes». - IV. Il gioco dei partiti. - V. Partito e rivoluzione. - VI. Lo Stato dei partiti. - VII. Tiranni senza volto. - Bibliografia. - Indice dei nomi.

lunedì 29 aprile 2013

La nuova febbre dell’oro. Un libro di Matthew Bishop e Michael Green sul passato e il futuro della moneta



di Damiano Palano

Questa recensione del volume di Matthew Bishop e Michael Green, Caccia all’oro. Vecchie e nuove monete per il futuro (Egea, pp. 139, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" di sabato 14 aprile 2013.

La moltiplicazione delle insegne con la scritta “Compro oro”, spuntate come funghi per le strade delle nostre città, è senza dubbio un indizio efficace della crisi che stiamo vivendo. Non solo perché rende palese il disagio in cui è precipitata una parte del ceto medio. Ma anche perché segnala come l’interesse per l’oro sia cresciuto vertiginosamente. Tanto che, alla fine del 2012, il prezzo del minerale era circa sei volte quello registrato all’inizio del 2001. Nel loro Caccia all’oro. Vecchie e nuove monete per il futuro (Egea, pp. 139, euro 16.00), Matthew Bishop e Michael Green cercano di dare una spiegazione al fenomeno. A loro avviso, non si tratta soltanto di un riflesso culturale, o di un comportamento irrazionale. L’oro, per i due osservatori, è infatti un tipo particolare di moneta. E il fatto che molti investitori lo considerino un’opzione credibile è una spia della crisi economica che sta travolgendo l’economia globale. Dal 1971, e cioè da quando Richard Nixon sospese la convertibilità fra dollaro e oro, il sistema monetario globale si basa infatti su una “moneta fiduciaria”, la cosiddetta fiat money: una moneta la cui validità è garantita unicamente dallo Stato. Ma, ovviamente, la crisi finanziaria iniziata del 2008 ha minato proprio la credibilità degli Stati. I timori di un default del debito sovrano non hanno coinvolto solo alcuni paesi dell’Eurozona, ma anche gli Stati Uniti, con conseguenze ancora più rilevanti. Il dollaro americano è infatti la valuta in cui si svolgono la maggior parte delle transazioni commerciali. Inoltre, le riserve ufficiali delle principali banche centrali sono costituite ancora in misura consistente da dollari. E questo significa che un eventuale default degli Stati Uniti avrebbe effetti semplicemente disastrosi per l’intera economia globale. Naturalmente, la probabilità di un vero e proprio default (cioè la denuncia del debito) da parte di Washington rimane piuttosto remota. Ma, in teoria, gli Usa potrebbero imboccare la strada di un ‘soft default’, inondando il mercato di nuovi dollari e innescando così una spirale inflazionistica difficilmente controllabile. Sebbene si tratti di scenari ancora lontani, gli investitori che puntano sull’oro li ritengono piuttosto plausibili, o comunque credibili. E questa situazione di incertezza indirizza verso una moneta alternativa come l’oro, sottratta ai rischi che vivono le monete fiduciarie. 
Secondo Bishop e Green, l’interesse per quella che John Maynard Keynes definiva la “barbara reliquia” non prefigura però il ritorno a un sistema monetario centrato sull’oro. Un nuovo gold standard certo renderebbe più stabile la moneta, ma avrebbe ripercussioni molto negative sul mercato mondiale, sulla crescita economica e sull’occupazione. La soluzione sta piuttosto nel ripensamento delle basi del sistema monetario internazionale. Oltre che, come sostengono i due analisti, nell’invenzione di un nuovo tipo di moneta, probabilmente simile alle monete digitali già oggi utilizzate sul web. Una nuova moneta che in teoria potrebbe essere più efficiente e più solida dell’odierna fiat money. Ma che appare ancora lontana dal rappresentare oggi una credibile alternativa. Ed è probabilmente anche per questo che il metallo giallo non perderà tanto presto il suo fascino.

Damiano Palano

martedì 23 aprile 2013

"Partito". In uscita in questi giorni un volume sulla storia dell'idea di partito





Esce nei prossimi giorni Partito, un nuovo libro di Damiano Palano, pubblicato dall'editore Il Mulino nella collana "Lessico della politica".
Un libro da non farsi sfuggire!

Nelle migliori librerie


Il Mulino, pp. 257, euro 15.00.

Accompagnata sin dall'antichità da una fama sinistra, l'idea di partito ha suscitato nella storia del pensiero occidentale critiche, sospetti e condanne fino alla fine dell'Ottocento, nel timore che l'affermarsi di una fazione potesse distruggere la concordia dell'ordine politico. La svolta decisiva si ha soltanto al principio del Novecento, quando emergono le organizzazioni di massa destinate a segnare il secolo. È allora che i partiti cessano di essere oggetto di dannazione o fenomeno deteriore da biasimare, per diventare le basi più salde e autentiche dello Stato, sia nei regimi autoritari, sia nelle nuove democrazie parlamentari. Ma le ombre infauste non si diradano del tutto e nemmeno oggi cessano di incombere sull'idea di partito che, come testimonia la cronaca quotidiana, incarna agli occhi di molti l'immagine peggiore dell'agire politico.

Indice: Introduzione. - I. Le parti politiche nel mondo antico. - II. Parti e fazioni nel Medioevo. - III. Lo Stato «super partes». - IV. Il gioco dei partiti. - V. Partito e rivoluzione. - VI. Lo Stato dei partiti. - VII. Tiranni senza volto. - Bibliografia. - Indice dei nomi.

sabato 20 aprile 2013

Danza macabra. L’implosione dei partiti italiani




di Damiano Palano

Sarà forse per la lontana somiglianza di Laura Boldrini con Barbara Steele, l’attrice di culto dell’horror gotico degli anni Sessanta. Sarà forse per il tono ispirato, vagamente ieratico, con cui il Presidente della Camera scandiva – come in una sorta di litania funebre – i nomi riportati sulle schede per l’elezione del nuovo inquilino del Quirinale, mischiati alla miriade di schede bianche e alle trovate di qualche buontempone. Sarà per il vortice dei colpi di scena che si sono succeduti uno dopo l’altro, o per tanto altro ancora. Ma il fatto è che lo spettacolo offerto da Montecitorio in questi giorni sembrava davvero molto simile a un remake di Danza macabra, il classico film di Anthony Dawson. Un film in cui una pattuglia di fantasmi stringe in una morsa fatale l’intrepido visitatore di un castello inglese, per sacrificarne la vita e riuscire così a guadagnare un giorno di vita.
La metafora può risultare un po’ eccessiva o indigesta. Ma in realtà – se vogliamo davvero guardare con occhi disincantati ciò che avviene oggi nel Palazzo – non possiamo più cercare di nascondere (e di nasconderci) una verità sempre più evidente. Una verità che ci dice che il vetusto, vituperato, svillaneggiato ‘sistema dei partiti’ non esiste più. Per il semplice motivo che oggi, nel Parlamento italiano, non esiste più nessun partito. E perché nessuna delle formazioni politiche che occupano gli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama ha ormai neppure lontanamente i connotati di ciò che chiamavamo ‘partito’.
Questo risultato era in gran parte prevedibile fin dagli ultimi mesi del 2012. La faida interna alla Lega Nord aveva portato alla luce una crisi forse non letale, ma certo destinata a incidere in profondità su un partito a lungo tenuto insieme dal carisma di Umberto Bossi. L’esilio kenyano di Silvio Berlusconi aveva fatto affiorare ciò che tutti per la verità sospettavano, ossia che il Popolo della Libertà non è mai stato davvero un partito, ma solo una miriade di gruppi e gruppuscoli provvisoriamente tenuti insieme dalla centralità del Cavaliere, e con ogni probabilità destinati a essere travolti da una formidabile spinta centrifuga nel momento (vicino o lontano) in cui il leader verrà meno. Inoltre, non era difficile riconoscere in Scelta Civica solo una maldestra operazione elettorale: un’operazione capace forse di dare un colpo alle ambizioni del centro di giocare un ruolo politico rilevante (e di far calare il sipario sulle speranze di quei leader politici di lungo corso che confidavano nella possibilità di intercettare i voti in libera uscita dell’area di centro-destra), ma non certo di tramutare Mario Monti in un leader carismatico. Infine, i risultati delle ‘parlamentarie’ avevano fatto intuire che il Movimento 5 Stelle si sarebbe trovato ad avere una pattuglia parlamentare piuttosto consistente ma fragilissima e inadeguata al ruolo, non solo per l’inesperienza politica.
Tutte queste tendenze sono state solo occultate dalla campagna elettorale, in cui le ‘personalità’ dei leader hanno occupato i teleschermi, e in cui – per una sorta di effetto ottico – si è avuta l’impressione di eserciti compatti, stretti attorno alla loro bandiera, impegnati l’un contro l’altro in una guerra di posizione. In realtà le cose non stavano così. E anche per questo, tutto il gioco ha continuato a ruotare attorno a quello che pareva costituire l’unico perno relativamente stabile, ossia il Partito Democratico. Anche se le performance comunicative del segretario lasciavano insoddisfatti molti elettori, e nonostante la lunga campagna per le primarie avesse messo in mostra i contorni di una lotta non certo amichevole fra il gruppo dirigente e i ‘rottamatori’, il Pd sembrava ancora una formazione piuttosto vicina a un partito. Un po’ per il suo radicamento territoriale, un po’ per la presenza di un ‘apparato’ politico-amministrativo piuttosto riconoscibile, il partito di Bersani dava infatti la sensazione di essere ancora un’organizzazione relativamente compatta, non priva di lacerazioni profonde, ma in ogni caso capace di muoversi con una sostanziale omogeneità. Anche perché, dopo tutto, si trattava pur sempre di un figlio – o di un figliastro – del vecchio Partito Comunista, un partito a lungo capace di occultare il dissenso sotto la coltre di un’omogeneità ufficiale e grazie al ferreo spirito di disciplina ereditato dalla tradizione leninista. E, soprattutto, perché quel partito sembrava poter contare su uno ‘zoccolo duro’ di elettori disposti ad accettare un po’ tutto, in nome della difesa di un’identità forse un po’ sbiadita nei connotati ideologici, ma ancora fortissima. Ma proprio questi capisaldi sono stati travolti dalle elezioni di fine febbraio. E ciò cui stiamo assistendo ora è solo la logica conseguenza di una tendenza ormai inarrestabile.
Lo ‘zoccolo duro’ del Pd, a un’attenta analisi del voto, si è rilevato infatti simile a una ciabattina consunta, perché il partito di Bersani ha visto prosciugato il proprio storico bacino elettorale persino nella roccaforte della ‘zona rossa’. E, così, l’intero nuovo gruppo dirigente del Pd – siano essi i “giovani turchi” o i sostenitori di Matteo Renzi – ha iniziato a condividere la medesima lettura. Una lettura per cui tutte le insidie non provengono dall’esterno del partito, ma dall’interno, dalla vecchia nomenklatura, da leader che non hanno più alcun contatto col territorio, e così via. Il risultato di queste spinte convergenti non può che essere la dissoluzione del Pd, condannato al tramonto insieme all’idea che un partito debba avere una linea, da perseguire magari pagando qualche prezzo e giungendo a qualche compromesso. E, in questo modo, sono destinati a svanire l’unico elemento che ancora teneva insieme la Seconda Repubblica e l’ultima diga che tratteneva l’ondata di piena.
Negli ultimi mesi Gianroberto Casaleggio è stato spesso oggetto del dileggio dei professionisti della politica e dei più autorevoli commentatori della scena politica. Certo i suoi toni apocalittici possono talvolta lasciare sconcertati. E senza dubbio il suo ghigno vagamente inquietante – a metà fra John Lennon e il Mago Galbusera – si presta facilmente a diventare l’oggetto di una satira pungente. Ma è davvero difficile non riconoscere nella più famosa delle profezie di Casaleggio una sinistra previsione di quanto sta accadendo in Italia. Non tanto perché la Rete stia delineando una nuova forma di democrazia. Quanto perché una subdola, umorale, insaziabile democrazia del “mi piace” sta dissolvendo ciò che rimane dei vecchi partiti, insieme all’idea che i partiti – con le loro visioni del mondo, il loro universo simbolico, la stessa retorica dell’appartenenza – siano necessari alla politica e alla democrazia.
Molto probabilmente la Rete – o quantomeno la Rete acriticamente idolatrata dal Movimento 5 Stelle – non è destinata a sostituire davvero i partiti. E presumibilmente ciò che avviene in Italia è solo l’effetto di un’onda che Grillo, Casaleggio e il Movimento 5 Stelle si sono limitati a cavalcare, seppure con un certo talento. Ma è davvero difficile non considerare come dei fantasmi, come dei morti viventi, come dei cadaveri che camminano, i partiti che occupano oggi la scena politica italiana. Ed è davvero difficile non guadare allo spettacolo di Montecitorio come a una grande, dolorosa ed eccitante danza macabra. 

Damiano Palano





giovedì 18 aprile 2013

Ritorno a Metropolis? "Il trionfo della città" di Ed Glaeser



di Damiano Palano

Questa recensione del volume di Ed Glaeser, Il Trionfo della città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici, è uscita su "Avvenire" di sabato 7 aprile 2013.

Nel corso del Novecento il futuro della città è stato immaginato in modi molto diversi. Negli anni Venti Fritz Lang rappresentò Metropolis come una sorta di New York fantascientifica. Una città ‘verticale’, in cui mastodontici grattacieli svettavano verso l’alto, e in cui le strade risultavano perennemente oscurate dall’ombra dei palazzi. Qualche decennio dopo il fascino delle ‘città verticali’ iniziò però a offuscarsi. Negli anni Cinquanta e Sessanta buona parte dei ceti più abbienti se ne andò dal centro intasato e sovraffollato delle grandi metropoli americane per rifugiarsi nei sobborghi residenziali. E il simbolo della città del futuro divenne Los Angeles: uno sterminato agglomerato urbano distribuito su una superficie immensa e contrassegnato da una bassissima densità abitativa. Proprio in quel periodo, la grande urbanista americana Jane Jacobs scrisse il suo famoso Vita e morte delle grande città (Einaudi). Un libro che celebrava la città come straordinario laboratorio di creatività. Ma che, al tempo stesso, condannava la ‘città verticale’, perché – ai suoi occhi – i grattacieli erano destinati a produrre degrado, criminalità e povertà. Nel suo Il Trionfo della città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici (Bompiani, pp. 587, euro 23.00), Edward Glaeser riprende ora molte delle intuizioni di Jacobs. Ma ne contesta proprio la tesi principale. E si impegna così in una difesa a spada tratta della ‘città verticale’ prefigurata da Metropolis.
Innanzitutto il libro di Glaeser, economista all’Università di Harvard, celebra la città come una formidabile officina di innovazione, di produttività, di competizione intellettuale. La prossimità fisica, l’elevata densità e la vicinanza tra le persone sono infatti elementi che da sempre consentono alle idee di circolare rapidamente. E, naturalmente, i grandi centri urbani rappresentano un polo di attrazione per tutti coloro che – dalle più lontane periferie – vanno in cerca di successo, o anche solo di un lavoro migliore. Se tutto questo era vero per la Firenze di Brunelleschi, non è meno vero oggi per Bangalore e Mumbay. E, soprattutto, secondo Glaeser, non risulta sostanzialmente modificato neppure dalle nuove tecnologie. Perché le interazioni “faccia a faccia” continueranno a giocare un ruolo fondamentale.
Se la città è destinata a rimanere centrale dal punto di vista economico e culturale, ciò non significa però che non sarà investita nel prossimo futuro da una sfida epocale, su cui Glaeser non manca di attirare l’attenzione. Una sfida che riguarda lo stile di vita centrato sull’automobile, e che dunque è destinata a coinvolgere anche il modo di concepire le nostre città. La convinzione ‘ecologista’ di costruire quartieri suburbani verdi, vivibili e con bassa densità di abitanti, secondo Glaeser, ha prodotto infatti conseguenze assai poco rispettose degli equilibri ambientali. La fuga verso i sobborghi e la struttura urbanistica di Los Angeles (o della celebre Silicon Valley) si basano d’altronde sul presupposto che l’automobile sia una componente insostituibile nella vita di ogni famiglia e di ogni individuo. E, dunque, che non sia possibile muoversi – per andare a scuola, in ufficio, o al cinema – altro che in automobile. Ma proprio per questo si tratta di un modello ben poco sostenibile dal punto di vista ambientale. Se grandi giganti economici in ascesa come Cina e India dovessero sposare l’idea di uno sviluppo urbano basato sul sobborgo residenziale, le conseguenze, prevede Glaeser, sarebbero disastrose. E la soluzione, per l’economista, consiste allora in una sorta di ritorno a Metropolis. E cioè nello sviluppo ‘verticale’ delle città. 
Naturalmente, si tratta di una proposta destinata a incontrare molte obiezioni, e ben più di qualche perplessità, soprattutto nella ‘vecchia Europa’. Perché è evidente che il fascino delle nostre città risiede nella capacità di conservare le radici storiche. E perché l’invito di Glaeser può suonare anche come una sorta di ambigua legittimazione di una speculazione senza scrupoli. Ciò nonostante, sia pur con tutte le cautele del caso, si tratta di uno scenario che non può essere accantonato senza qualche riflessione. 

Damiano Palano

mercoledì 17 aprile 2013

Call for Paper - Convegno Sisp - Sezione "Politica e religione"

 
Lo standing group 'Politica e religione' organizza per la prima volta una sezione tematica (diretta da Piero Ignazi e Damiano Palano) al prossimo convegno SISP di Firenze (12-14 settembre).
 
Per proporre un paper, inviare un abstract di circa 200 parole agli organizzatori dei singoli panel.
 
Deadline: 15 maggio 2013.
 
Programma della sezione:

1) Il fattore religioso in contesti internazionali secolarizzati: norme e attori religiosi nelle istituzioni internazionali.
Chair: Gregorio Bettiza ( Gregorio.Bettiza@EUI.eu This e-mail address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it )
Abstract: Negli ultimi decenni si è verificata una crescita esponenziale nella mobilitazione e lobbying religiosa a livello internazionale, specialmente in istituzioni come le Nazioni Unite, le Istituzioni Finanziarie Internazionali e l’Unione Europea. Molte di queste istituzioni sono radicate in una realtà internazionale fortemente ancorata alle strutture secolarizzate dell’international liberal order (John Ikenberry). Il panel si interroga dal punto di vista teorico ed empirico sui meccanismi ai quali ricorrono attori religiosi transnazionali per avanzare i loro interessi e le loro norme religiose all’interno di istituzioni internazionali secolarizzate. Quando e come gli attori religiosi hanno successo nella loro opera di lobbying? Quali tipi di attori religiosi hanno maggior successo nell’avanzare i propri interessi? Quali tipi di norme religiose hanno la maggior probabilità di essere accomodate e accettate da istituzioni internazionali, e perché? Quali sono le caratteristiche che distinguono le istituzioni internazionali particolarmente favorevoli a lobbyes e norme religiose, da quelle invece particolarmente impervie? Come stanno cambiano the istituzioni internazionali alla luce della crescita di lobbyes religiose?
Over the past decades an exponential growth in religious advocacy and lobbying has occurred towards international institutions that are deeply embedded and anchored to the secular structures of the ‘international liberal order’ (Ikenberry). These institutions range from the United Nations, the European Union, and the International Financial Institutions. This panel theoretically interrogates and empirically investigates the discourses, strategies and mechanisms adopted by transnational religious norm entrepreneurs to advance their concerns within secular international institutions. The panel seeks to address, among others, the some of the following questions. When, under what circumstances, and which religious norm entrepreneurs succeed in their advocacy efforts? Which type of religious norms have, and have had, the greatest chances of being diffused and why? In which ways and how have international institutions changed, if al all, to accommodate religious norm entrepreneurs? What distinguishes international institutions that are more accommodating to the claims of religious actors from those who are less?

2) Religious organizations in the local political sphere
Chairs: Xabier Itçaina ( x.itcaina@sciencespobordeaux.fr This e-mail address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it ) and Alberta Giorgi ( albertagiorgi@ces.uc.pt This e-mail address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it )
Abstract: The relationships between religion and politics are a topic usually dealt with from a national or international perspective. Nevertheless, the changes in the contemporary political systems, in Europe and abroad, reshaped the hierarchies between the local and the national spheres on a number of policies. Specifically, the processes of devolution and subsidiarization of policies, as well as the cooperation between private and public organizations (especially in the field of social services) under the horizontal governance perspective, increased the importance of local politics. For instance, the local scale is particularly relevant as constituting the arena where public authorities, private actors, religious and secular “third sector” organizations manage – or not - to constitute efficient networks of governance in the welfare field. These local arrangements constitute an implicit form of regulation of public life by religious actors that, in some cases, might not coincide exactly with the sociopolitical preferences of the religious central authorities. In addition, politicized controversies on symbolic issues often take place at the local level –the debates over the localization of mosques in Italy, for example, and, more broadly, the issues dealing with religion in public life. Moreover, grassroots religious organizations and associations have an important and increasing political role – in Italy (movements for public water and against discrimination, renewed engagement of religious associations in politics,…), and abroad (Indignados, Arab Spring…). This panel aims at exploring the political involvement of religious associations and organizations at the local level. Papers’ topics include (but are not limited to): religious associations and political movements, third-sector religious organizations and local policies, interactions between religious and political identities. Papers dealing with empirical cases are more than welcome.

3) Religione e relazioni internazionali
Chair: Valter Coralluzzo ( valter.coralluzzo@libero.it This e-mail address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it )
Abstract: È noto che per lungo tempo gli studiosi di Relazioni internazionali (RI) d’ogni scuola e indirizzo non hanno prestato alcuna attenzione alla religione, o l’hanno relegata a un ruolo affatto marginale, al punto da far parlare di un vero e proprio «esilio» del fenomeno religioso dal campo d’indagine della disciplina scientifica delle RI. Il fatto è che nel codice genetico di tale disciplina è iscritto quello che Scott Thomas ha definito «il postulato westfaliano», ossia la convinzione che la privatizzazione della religione e la secolarizzazione della politica rappresentino un passaggio obbligato ai fini del consolidamento di un ordine internazionale. Negli ultimi decenni, tuttavia, a fronte del crescente rilievo del fattore religioso nelle dinamiche della politica mondiale, gli studiosi di RI si sono mostrati maggiormente propensi a prendere sul serio la questione religiosa. Da una parte, v’è chi ha cercato di integrare la religione nella teoria delle RI, sia interrogandosi su come (a prezzo di quali compromessi epistemologici) il fattore religioso possa essere incluso in tradizioni di ricerca (come il realismo e il liberalismo) nate e sviluppatesi sotto l’egida del paradigma della secolarizzazione, sia proponendo paradigmi innovativi o spingendosi addirittura (come Vendulka Kubálková) a proporre la creazione di una sub-disciplina, denominata Teologia politica internazionale, che metta la religione al centro della propria analisi degli affari internazionali. Dall’altra, v’è chi ha indagato le forme e la misura dell’influenza del fattore religioso sulle politiche estere degli Stati e il ruolo effettivo che la religione e gli attori religiosi transnazionali giocano nella politica mondiale e all’interno di vari scenari regionali, come fonte di conflitto e/o fattore di pacificazione. Il panel intende affrontare l’insieme di questi problemi, accogliendo contributi che analizzino il ruolo della religione nella teoria e nella pratica delle RI.

4) Religion and democracy in Italy’s ‘second republic’
Chairs: Luca Ozzano ( luca.ozzano@unito.it This e-mail address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it ) and Marco Marzano ( marco.marzano@unibg.it This e-mail address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it )
Abstract: L’Italia rappresenta un caso molto interessante di relazione tra religione e democrazia, sia per la presenza a Roma del Vaticano (il che ha sempre comportato relazioni del tutto peculiari tra la Chiesa Cattolica e lo stato italiano) e per il dominio, durato decenni, del partito della Democrazia Cristiana (DC). Negli ultimi decenni, tuttavia, il ruolo della religione nel sistema politico italiano ha sperimentato cambiamenti che sono stati solo in parte descritti e spiegati dalla letteratura: questo sia in conseguenza di più ampi processi socio-economici, come la secolarizzazione e i flussi migratori (che hanno reso sempre più pluralista un panorama religioso in cui il cattolicesimo era del tutto predominante); sia per il crollo, all’inizio degli anni ’90, del vecchio sistema partitico che includeva la DC, come conseguenza di un ampio scandalo di corruzione. Con la disgregazione della DC, e la dispersione dei cattolici in fazioni e partiti di centrosinistra e di centrodestra, è sembrata iniziare una nuova era. Innanzitutto, la Chiesa ha iniziato a svolgere un ruolo diretto in politica attraverso il cosiddetto ‘progetto culturale’ della Conferenza Episcopale Italiana (CEI). Inoltre, nuovi attori politici, appartenenti ad entrambi i lati dello spettro politico, hanno iniziato a sfruttare issues di carattere morale e religioso, nel tentativo di raccogliere il disperso voto cattolico. Numerose issues morali, dalla presenza del crocefisso negli spazi pubblici ai diritti degli omosessuali, sono così diventate oggetto di contesa nel dibattito pubblico italiano. Questo panel si occuperà dei temi appena citati, nel tentativo di gettare maggiore luce sul ruolo della religione e delle issues religiose nella democrazia italiana della cosiddetta ‘seconda repubblica’. Saranno ben accetti studi di carattere sia qualitativo sia quantitativo, così come lavori comparativi, in italiano e inglese.
Italy is a very interesting case in terms of relation between religion and democracy, both because of the presence in Rome of the Vatican (which has always implied peculiar relations between the Catholic Church and the Italian state) and for the decades-long rule of the Christian Democracy (DC) party. In the latest decades, however, the role of religion in the Italian political system has experienced changes that have been only partially acknowledged by the literature: both as a consequence of wider socio-economic processes, such as secularization and migration flows (which have turned the country from predominantly Catholic to increasingly pluralistic); and as a consequence of the demise, at the beginning of the 1990s, of the old party system (including DC) because of a wide bribery scandal. With the collapse of the party, and the fragmentation of Catholics in left-wing and right-wing factions and parties, a new era seemed to start. To begin with, the Catholic Church started to play a direct role in politics through the so-called ‘cultural project’ of the CEI, the organization of the Italian bishops. On the other hand, new political actors, both from the left and from the right wing of the political spectrum, started to exploit religious and moral issues (albeit with different frames) in order to garner the votes of the Catholic constituency. Several moral issues, from the presence of the crucifix in public offices, to gay unions, have thus become points of contention in the Italian public debate. The panel will take into account these subjects, in order to cast a new light on the role of religion and religious issues in Italian democracy after the beginning of the so-called ‘second republic’. Qualitative as well as quantitative empirical studies are welcome, as well as comparative ones, both written in English and in Italian.

5) Una democrazia post-secolare? La teoria democratica oltre la secolarizzazione
Chair: Damiano Palano ( damiano.palano@unicatt.it This e-mail address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it )
Abstract: Negli ultimi due decenni il ‘ritorno del sacro’, la ‘rivincita di Dio’ e la ricomparsa della religione sulla scena pubblica hanno alimentato un dibattito piuttosto acceso anche nel campo delle scienze sociali e della teoria politica, soprattutto perché hanno posto in questione le più consolidate teorie della secolarizzazione. Se la gran parte degli scienziati sociali della fine del XIX secolo e dell’inizio del Novecento riteneva (quasi senza eccezioni) che le appartenenze religiose fossero destinate a perdere la loro forza e a disgregarsi dinanzi all’incedere della modernizzazione, la realtà degli ultimi anni sembra smentire queste rappresentazioni e lo schema di lettura che le imposta. Inoltre, rimettendo in discussione la cruciale separazione fra politica e religione (e fra pubblico e privato) che, in gran parte, segna l’avvio della politica moderna, la rinascita della religione viene a profilare una sfida per la ricerca politologica, e soprattutto per la teoria democratica. Delineata nel corso del Novecento, la contemporanea teoria della democrazia considera infatti (seppur implicitamente) la secolarizzazione come un dato acquisito. In altre parole, la democrazia è vista come necessariamente ‘relativista’, nel senso che la pluralità delle identità, degli stili di vita morali, degli ethos è assunta come requisito culturale fondamentale di una stabile convivenza democratica. Le tracce di un mutamento in senso post-secolare e il ‘ritorno del sacro’ sembrano per questo costituire una minaccia per l’assetto democratico, ma, al tempo stesso, pongono questioni che spingono a una rivisitazione della teoria democratica. Questo panel punta a considerare le conseguenze del ‘ritorno del sacro’ affrontandone le ricadute sulla teoria democratica. In particolare, sono sollecitati contributi che affrontino, anche criticamente, il dibattito sul ‘post-secolarismo’ e la democrazia (Habermas, Gauchet, Rusconi, ecc.), e che mettano in luce le eventuali conseguenze che il ’ritorno del sacro’ ha sulla teoria democratica.


All’interno della sezione ‘Relazioni internazionali’, è presente inoltre il panel:
Islamism in the Arab world: between elections, street politics and armed struggle
Chair: Francesco Cavatorta ( Francesco.cavatorta@dcu.ie This e-mail address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it )
Abstract: The Arab Spring has once again led analysts and policy-makers to focus their attention of Islamist movements and parties, which have become the main beneficiaries of the changes of the last two years in the region. However, different groups have responded differently to the new opportunity structures that the Arab Spring opened up. The purpose of this panel is to examine the theoretical and comparative perspectives on the ways in which Islamist groups acted in the wake of the Arab Spring and what explains their specific strategy and choices. How have some movements come to the decision to participate in elections? Conversely how have other movements in a similar setting decide to continue with street protests, refusing to engage with the new institutions being built? What explains the choice of military struggle as in Syria? Was it the inevitable response to regime’s repression or did other factors come into play?

lunedì 15 aprile 2013

La mutazione genetica dell’euroscetticismo. Il Vecchio continente sul piano inclinato


di Damiano Palano

Questo articolo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica

Alla fine degli anni Trenta, proprio mentre si preparava lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Edward H. Carr dava alle stampe The Twenty Years’ Crisis, uno dei suoi libri più famosi, ma anche più polemici. In quel lavoro, divenuto nel corso dei decenni un vero e proprio classico, Carr illustrava quali dovessero essere le basi di un’analisi ‘realista’ della politica internazionale. In questo senso, si richiamava direttamente al maestro del realismo politico, al Machiavelli del Principe, di cui Carr riprendeva alcune idee. Ma, soprattutto, rivolgeva un attacco spietato a tutte le convinzioni – del tutto “utopistiche” – che avevano dominato il dibattito nei primi decenni del Novecento, che dopo la fine del primo conflitto mondiale avevano indirizzato verso la costruzione della Società delle Nazioni. In particolare, secondo Carr, il progetto della Società delle Nazione si reggeva sull’idea che la guerra potesse essere scongiurata semplicemente confidando nella forza della ragione, ossia nel carattere ‘pacifista’ dell’opinione pubblica mondiale. Ma tutta l’impalcatura dottrinaria della Società ginevrina si posava, per lo studioso britannico, sulla premessa del tutto irrealistica che esistesse un interesse comune a tutta la comunità internazionale. La dottrina dell’«armonia degli interessi», un’estensione al campo della politica internazionale del principio liberale del laissez-faire, secondo Carr nasceva infatti da una distorsione di fondo, che spingeva a trascurare «la spiacevole realtà che esiste una fondamentale divergenza di interessi fra gli Stati che desiderano mantenere lo status quo e quelli che desiderano sovvertirlo» (E.H. Carr, Utopia e realtà, Rubbettino, 2009, p. 80). In altre parole, la dottrina dell’armonia degli interessi finiva col trascurare il ‘dettaglio’ che gli Stati avevano interessi e rivendicazioni divergenti. E per questo, come tutte le teorie relative alla morale sociale, quella dottrina doveva essere considerata come «il prodotto di un gruppo dominante, che si identifica con la comunità nel suo complesso e che possiede strumenti negati ai gruppi subordinati o agli individui per imporre la propria visione del mondo alla collettività» (ibi, p. 113). Un gruppo di paesi che, agli occhi di Carr, coincideva naturalmente con i popoli di lingua anglosassone, impegnati a difendere lo status quo dinanzi a potenziali sfidanti.
Il ragionamento di Carr non era naturalmente privo di limiti. D’altronde, se dalle pagine dello studioso britannico emergeva nitidamente la critica rivolta all’“idealismo” e all’assenza di realismo che avevano influenzato la Società delle Nazioni e la politica postbellica, non era affatto chiaro in cosa consistesse la pars costruens del suo discorso. E, soprattutto, non era affatto chiaro se, o in che misura, la proposta di Carr si distanziasse dalla linea dell’appeasement con la Germania. Ma forse è proprio per l’accostamento fra la più affilata critica realista e l’incapacità di suggerire una linea politica effettivamente alternativa che le classiche pagine di Carr sembrano parlarci del nostro quotidiano. Perché, per un verso, anche noi siamo oggi in grado di cogliere tutte le premesse ‘idealiste’, l’irrealismo, l’ingenuità e la superficialità con cui venne disegnata l’attuale Unione Europea, e con cui soprattutto venne incardinata sul perno della moneta unica. Mentre per l’altro, proprio come lo storico britannico estimatore di Machiavelli, ci troviamo disarmati dinanzi al compito di indicare strade alternative, che non vadano a coincidere con le più sinistre proposte antieuropeiste e antidemocratiche.
Una conferma del vicolo cieco in cui sembra destinata a incamminarsi la critica della moneta unica non proviene soltanto dall’ambigua traiettoria del Movimento 5 Stelle, una forza politica che deve il proprio successo proprio all’attacco rivolto alla ‘tecnocrazia’ europea e alle politiche di austerità, ma che non sembra neppure in grado elaborare un’ipotesi alternativa che non coincida con il più classico ‘euro-scetticismo’. Una conferma ancora più significativa si ritrova nella produzione pubblicistica che va arricchendosi in questi mesi, e che si indirizza – in termini sempre più energici, quasi impensabili alcuni anni fa – contro la moneta unica, perché il suo discorso appare molto simile a quello che Carr svolgeva nel suo The Twenty Years’ Crisis. Al centro di questa letteratura, non sempre sbilanciata sul versante della più immediata polemica politica, non stanno semplicemente i classici motivi della retorica ‘euroscettica’, come l’enfasi sulle identità nazionali, sul potere dell’eurocrazia, o sulle lobby massoniche che regnerebbero incontrastate nei palazzi di Bruxelles. Al cuore delle critiche odierne sta infatti un’analisi delle conseguenze prodotte dall’Euro e della divaricazione fra Stati ‘forti’ e Stati ‘deboli’, fra ‘vincitori’ e ‘perdenti’, che la moneta unica avrebbe determinato. In altre parole, l’argomentazione principale è che l’Unione Europea abbia innescato un processo esattamente opposto a quello che di prefiggeva: nonostante l’Ue avesse tra i propri obiettivi di lungo periodo la costruzione di un vero popolo europeo, le premesse dell’europeismo degli anni Ottanta e Novanta hanno avuto come risultato l’esatto contrario. Non solo si è infatti consegnato all’economia (alla moneta unica) il compito di preparare una autentica unificazione, ma si è anche coltivata la convinzione che tale processo potesse garantire nel modo migliore l’interesse comune di tutti gli Stati europei. E, cioè, che l’unificazione monetaria avesse ricadute positive per tutti i membri dell’Eurozona.
Oggi, i critici non hanno certo grandi difficoltà a mettere in luce come le cose siano andate diversamente, e che i paesi del Nord, tra cui soprattutto la Germania, siano usciti ‘vincitori’, mentre i paesi del Sud – la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, ma in parte persino la Francia – siano i ‘perdenti’, e abbiano cioè peggiorato la situazione di partenza. E proprio questa percezione – indubbiamente suffragata da alcuni dati empirici – innescherà probabilmente una sorta di mutazione genetica dell’euroscetticismo. La contrapposizione fra un centro e una periferia – fra una Germania ‘vittoriosa’ e un Sud ‘sconfitto’ – è destinata infatti a diventare la dicotomia chiave della politica europea dei prossimi anni. Che all’origine della situazione odierna siano solo le responsabilità dei tecnocrati europeisti, o anche – come è in realtà scontato – le classi politiche nazionali conta ormai poco. Ciò che conta davvero è che la camicia di Nesso in cui risulta avviluppata l’Unione Europea – un vincolo da cui, come è noto, gli ingeneri della moneta unica neppure immaginarono una via d’uscita, nella convinzione che la ‘costrizione’ avrebbe reso più salda la disciplina degli Stati membri – diventerà presumibilmente, a meno di sostanziali revisioni, sempre più soffocante nei prossimi anni. E che la retorica della lotta contro il ‘nuovo imperialismo’ tedesco rischia di diventare tanto forte da ridefinire completamente il quadro della competizione politica.
Quando Carr affrontava la crisi dei vent’anni, non si poneva il problema di capire quale fosse la parte del torto e chi, fra i vari contendenti, avesse ragione. D’altronde, uno dei fondamenti dell’analisi realista di Carr era rappresentato dalla convinzione che non ci fosse una ‘naturale’ armonia degli interessi, e che dunque la divergenza fra gli interessi degli Stati fosse in qualche modo inevitabile. Il problema era piuttosto che l’ordine postbellico, delineato dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, era stato costruito nella convinzione che fosse possibile superare definitivamente le contrapposizioni, oltrepassare gli egoismi della politica di potenza e dunque perseguire l’interesse comune dell’intera comunità internazionale. Ma, dietro le parole d’ordine della legalità internazionale, del primato della giustizia e della sovranità dell’opinione pubblica, si nascondeva soltanto la difesa dello status quo (e dunque la difesa del primato britannico). Le riparazioni di guerra imposte alla Germania di Weimar alle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale furono l’esempio più nitido di questa logica. Al tavolo della pace, Londra e Parigi poterono infatti condannare Berlino per la ‘colpa’ della guerra, anche se in tal modo introducevano un elemento quantomeno innovativo nel diritto internazionale, e dunque furono in grado – non senza qualche ragione storica – di infliggere ai tedeschi una ‘legittima’ sanzione. Ma proprio questo elemento, insieme alle altre misure evidentemente punitive nei confronti della Germania, contribuì a rendere instabile un ordine che, peraltro, risultava estremamente debole anche per molti altri motivi. La questione del debito tedesco divenne infatti il motivo centrale della politica europea, coprendo le responsabilità delle classi politiche nazionali e spingendo verso una nuova tragedia.
 Oggi la Germania non è più la ‘perdente’, ma la principale potenza europea. Una potenza che ‘legittimamente’ reclama che i paesi più ‘deboli’ dell’Europa rispettino quegli accordi che hanno liberamente sottoscritto per entrare nell’area della moneta unica. Al tempo stesso, diventa sempre più evidente che anche il Trattato di Maastricht e il progetto di unificazione monetaria sono fondati su basi altrettanto irrealistiche di quelle che reggevano la Società delle Nazioni, quantomeno perché si limitavano a immaginare che la moneta unica avrebbe arrecato un vantaggio all’intera Europa, trascurando sostanzialmente la possibilità che potessero aggravarsi gli squilibri fra economie forti ed economie deboli, fra centro e periferia. Per questo, è in fondo irrilevante chiedersi oggi quale sia la parte del ‘torto’, e da quale parte stia la ragione. Il punto è che, poggiando su basi fragili, l’unione monetaria non può che allontanare fra loro i paesi membri dell’Ue. In altre parole, il progetto dell’unificazione monetaria, invece di contribuire alla costruzione di un ‘popolo europeo’ (magari ‘forzando’ le opinioni pubbliche nazionali, ‘costringendole’ con l’urgenza a misure ‘inevitabili’), sta producendo – e produrrà sempre più nel corso dei prossimi anni – nuove lacerazioni. Lacerazioni che, come sempre avviene, finiranno col rinfocolare vecchi sospetti, antiche rivalità e odi che consideravano del tutto sepolti. Qualcosa di simile sta avvenendo d’altronde in Grecia, dove l’ormai lontano ricordo della resistenza anti-nazista viene paradossalmente ad alimentare il risentimento anti-tedesco. Ma si tratta probabilmente solo della prima manifestazione di un processo che rischia di non rimanere circoscritto entro i confini greci. La questione del debito dei paesi del Sud è infatti destinata a diventare il nodo attorno a cui si coaguleranno, per un verso, il risentimento di opinioni pubbliche che si sentiranno sconfitte dalla ‘politica di potenza’ tedesca, e, per l’altro, la crescente diffidenza verso paesi accusati di voler scaricare il peso della loro irresponsabilità sulle spalle del Nord laborioso e disciplinato. E, così, il Vecchio continente continuerà a camminare sulla superficie scivolosa di un piano inclinato, in cui diventerà sempre più difficile mantenere l’equilibrio.

Naturalmente, si potrà obiettare, la storia non si ripete mai nello stesso modo, e, soprattutto, la guerra – una guerra paragonabile a quelle che il Vecchio continente ha vissuto nel corso del Novecento – è ormai una possibilità impraticabile, tanto più nella vecchia Europa, percorsa da mille fili di amicizia, da relazioni commerciali consolidate, da interessi culturali comuni, e così via. Inoltre – si può ancora osservare più che legittimamente – le crisi hanno spesso spinto i membri della costruzione europea ad affrontare i problemi rafforzando l’integrazione, e così avverrà anche nei prossimi mesi, magari dopo il settembre 2013, perché, dopo le elezioni che si svolgeranno in Germania, i governanti tedeschi saranno disposti a concedere molto ai paesi del Sud, e forse accetteranno persino di sobbarcarsi il peso del debito pubblico di Italia e Spagna. E poi, si potrebbe infine aggiungere, la Banca Centrale Europea rappresenta un fattore di garanzia, perché con i suoi interventi è riuscita ad arginare l’ondata speculativa dell’ultimo anno, scavalcando anche le resistenze dei singoli Stati nazionali.
Ognuna di queste osservazioni è del tutto sensata, e può servire a temperare le argomentazioni che invece tendono al pessimismo. Anche perché, cresciuti in un clima di pace, di sicurezza, di crescita economica, viviamo in un mondo ‘post-storico’ che ci fa percepire la guerra – e soprattutto la guerra in Europa, la guerra nelle nostre città – come qualcosa di completamente irreale, come un’ipotesi inverosimile persino per le più ardite simulazioni fantapolitiche. Ma simili argomentazioni, se certo ci possono indurre a rimuovere gli scenari più inquietanti, non sono certo sufficienti a mutare il cupo pessimismo in un fondato ottimismo. Se non altro perché è difficile dimenticare che tutte le promesse dell’unificazione monetaria, tutte le rappresentazioni di un futuro idilliaco fatte intravedere dalle élite europee per giustificare mille ‘sacrifici’, si sono puntualmente rivelate del tutto illusorie.

Damiano Palano

sabato 13 aprile 2013

La sinistra nel labirinto della rivoluzione globale. Alcune annotazioni a partire da «Sinistra» di Carlo Galli 2/2


di Damiano Palano

segue da La sinistra nel labirinto della rivoluzione globale. Alcune annotazioni a partire da «Sinistra» di Carlo Galli 1/2

Questa recensione è apparsa (in una versione più breve) sul sito dell'Istituto di politica


Il caotico dibattito che ha scandito la campagna elettorale non ha comprensibilmente consegnato lo spazio che meritava all’analisi di Galli. Piegata sulla quotidianità, e spesso sui suoi risvolti più miserabili, la discussione non poteva certo affrontare con la dovuta serietà un ragionamento che, evidentemente, si colloca sui tempi lunghi e si proietta verso l’orizzonte dei prossimi decenni. Tra le voci che più da vicino si sono confrontate con le tesi di Sinistra, spicca però quella di Antonio Negri, che pur riconoscendo i meriti di un solido sforzo intellettuale, ha intravisto nel libro di Galli i contorni di un progetto nostalgico. In altre parole, Negri scorge nell’operazione di Galli il tentativo di resuscitare la vecchia doppiezza di Togliatti, ossia la capacità di rappresentare le classi subalterne e di esercitare, al tempo stesso, una funzione riformista nella gestione del governo (non più locale ma nazionale). In questo senso, il disegno di Galli sarebbe tutto incentrato su una ridiscussione del ruolo del Partito Democratico, che sarebbe invitato a porre fine alla frattura fra le ‘due sinistre’, fra i movimenti e l’istituzione-partito. In realtà, osserva però Negri, tutta questa operazione si fonda su un presupposto sbagliato, e cioè sull’idea che sia oggi ancora possibile quel «patto fra produttori» che il ‘modello emiliano’ realizzò concretamente fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, ma che si è ormai in larga parte dissolto. «Da troppo tempo non c’è più. È ancora possibile? Galli lo promette a nome della sinistra. Ma può esserci in una società dove il lavoro precario è ormai consolidato in una diseguaglianza di redditi enorme – questa sì, progressiva – bene, è immaginabile una simile ricostruzione, una seconda primavera della ‘differenza emiliana’? Ecco una bella utopia nostalgica, preteso programma progressivo, in effetti regressivo, da realizzare attraverso la vittoria elettorale della sinistra» (A. Negri, Vana ricerca del buon governo, in «il Manifesto», 2 febbraio 2013, pp. 10-11).
Una critica tanto severa prende le mosse dalla convinzione che il libro di Galli debba essere considerato come una sorta di manifesto elettorale del Pd bersaniano, perché – sebbene in modo un po’ evanescente – l’idea di ‘esportare’ a livello nazionale il ‘modello emiliano’ (insieme con il ‘patto fra produttori’ che lo ha storicamente contrassegnato) rappresenta davvero la cifra caratterizzante del progetto politico dell’attuale segretario democratico. Ma, a ben vedere, il saggio si Galli non può essere considerato né come un manifesto elettorale, né tanto meno come un tentativo di legittimare l’attuale fisionomia del Pd. Forse può essere inteso come il frutto di un impegno politico all’interno del Partito Democratico, o persino come l’episodio di una battaglia – condotta con le affilate armi della riflessione filosofica – diretta a spingere questo partito verso una certa direzione, e farlo magari diventare una sorta di ‘partito del lavoro’. E, in questo senso, l’impegno politico di Galli all’interno del Pd si inscrive proprio all’interno di una visione progettuale alta, che considera praticabile la via di un «New New Deal», ossia non solo di un rovesciamento dei rapporti di forza, ma soprattutto della costruzione di un nuovo quadro istituzionale in grado di ‘regolare’ i conflitti. «Questo non vuol dire riproporre un impianto socialdemocratico di stampo statualistico gigantesco», ha precisato Galli, ma piuttosto «cercare di ottenere i medesimi risultati che allora si ottennero: e questi furono, sono e dovranno essere in futuro, che la politica non stia più al comando del potere economico e del potere finanziario, ma si ponga invece, come minimo, come contropotere, come un potere concorrente rispetto ai primi due» (C. Galli – M. Revelli, New Deal cerca partito, in «Micromega», 2/2013, p. 96).
Naturalmente è scontato che si possano nutrire riserve sulle effettive possibilità del Pd odierno di avviare e sostenere il nuovo New Deal che Galli auspica, così come ci si può chiedere se davvero il Pd abbia la capacità di porsi in termini conflittuali – e non magari di semplice contiguità – rispetto ai ‘poteri forti’. E proprio simili perplessità sono per esempio sollevate da Marco Revelli, nel corso di una conversazione con Galli ospitata su «Micromega», quando sottolinea che il Partito Democratico non è stato immune dalla grande trasformazione che ha investito la politica e la società negli ultimi vent’anni: «Un partito come il Pd», dice infatti Revelli, «è un partito che non sta né fuori né contro i poteri forti; al contrario, ne è profondamente attraversato, condizionato e, in alcune sue componenti, si identifica con essi. Il sistema degli affari è diventato una componente fortissima della vita politica all’interno stesso dei partiti. Man mano che si affievoliscano la fiducia e la capacità di mobilitazione basate su un’identità collettiva, su un’adesione identitaria, si faceva più stretto il rapporto tra politica e denaro. Il costo della politica è progressivamente aumentato e ha assunto dimensioni scandalose, ma è il costo con cui le organizzazioni politiche si pagano la fedeltà dei propri seguaci e costruiscono la propria immagine» (ibi, p. 100). 
All’indomani delle elezioni, molte delle polemiche che hanno scandito l’approssimarsi della consultazione si sono dissolte, il quadro che ci si attendeva – o che, quantomeno, si attendevano i più pessimisti – non solo si è puntualmente materializzato, ma si è materializzato con i contorni per molti versi ancora più cupi di una situazione di ingovernabilità pressoché ingestibile. Ma è forse in questo nuovo scenario che il ragionamento di Galli diventa ancora più interessante e lucido nel riconoscimento del passaggio di fase che stiamo attraversando. Non certo perché sia facile realizzare un nuovo New Deal. In un’economia dominata dai flussi finanziari, e in un mondo in cui il fronte ‘lavoro’ appare frammentato, scomposto, persino difficile da riconoscere, e forse impossibile da ricondurre sotto le insegne di qualsiasi organizzazione politica e sindacale presente e futura, diventa infatti molto complicato anche solo pensare – prima ancora che costruire – un equilibrato assetto istituzionale paragonabile al vecchio New Deal rooseveltiano.
Se i contorni di questo ‘nuovo compromesso’ rimangono ancora difficili da decifrare, il ragionamento di Galli riesce però a fornire una chiave di lettura del tutto adeguata per comprendere i rischi cui la sinistra si troverà esposta nei prossimi anni, rischi che la situazione italiana sembra già oggi palesare. Come sostiene Galli, la sinistra non solo è stata sconfitta radicalmente dalla quarta rivoluzione novecentesca, dalla rivoluzione globale, ma si è rivelata finora in larga parte incapace di rispondere a quella sfida. Per molti versi, è rimasta imprigionata nella gabbia della rivoluzione dello Stato sociale, una rivoluzione che certo ha scandito una fase importante nell’avvio del compromesso democratico post-bellico, ma le cui basi sono state travolte dalla trasformazione degli ultimi tre decenni. Il punto non consiste naturalmente nella rinuncia alla difesa dello Stato sociale, o ai diritti e ai principi che lo hanno contrassegnato. Ma consiste piuttosto nella dimensione in cui vengono ricercati gli strumenti per difendere questi diritti e questi principi. A dispetto della marcia compiuta dal processo di integrazione europea, e nonostante le principali misure di politica economica vengano ormai decise al livello europeo, la sinistra è sostanzialmente rimasta inchiodata alla sua dimensione nazionale, senza che quei labili raggruppamenti europei abbiano conquistato una rilevanza poco più che simbolica, e senza che i convegni che periodicamente coinvolgono i rappresentanti dei diversi partiti europei si dimostrino poco più che convention mediatiche. Naturalmente non si tratta di un problema che investa solo le forze di sinistra, ma il ritardo appare più evidente proprio su questo versante, perché emerge in modo particolarmente marcato il contrasto con la tradizione internazionalista del movimento operaio, il quale, già negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando non esistevano comunicazioni telefoniche, collegamenti aerei o Internet, riuscì a organizzare mobilitazioni che coinvolsero simultaneamente milioni di lavoratori nei vari continenti. E, benché si tratti evidentemente di esempi non riproducibili nella realtà contemporanea, al confronto con quei lontani episodi non può che apparire quasi sconcertante l’assoluta incapacità dell’odierna sinistra europea, e degli stessi sindacati, di organizzare iniziative che vadano al di là dei confini nazionali, e che riescano – anche solo all’interno del perimetro dell’Ue – a guadagnare un ruolo poco più che simbolico.
A ben vedere, simili difficoltà non tradiscono soltanto un ritardo organizzativo, o una carenza di leadership, ma palesano soprattutto la difficoltà teorica (e ideologica) di uscire da quei confini entro cui, nella stagione aurea dello sviluppo europeo, si sono potuti incardinare le strutture del welfare e un impianto di salvaguardia dei diritti individuali. Ma questi confini tendono oggi a diventare le sbarre di una gabbia da cui diventa sempre più difficile evadere. E, dall’interno di questa gabbia, le uniche opzioni rimangono due. Da un lato, consegnare le briglie del comando all’Ue, ossia sposarne la vocazione tecnocratica, limitandosi a una funzione di legittimazione di scelte più o meno efficaci. Dall’altro, impugnare la bandiera della sovranità nazionale perduta, adottare la causa di una difesa ‘nazionalista’ e dunque – sotto il profilo economico – imboccare la strada di una politica protezionista, ambiguamente stretta fra un ‘sovranismo’ orgoglioso e tentazioni xenofobe. 
Che questo scenario non si proietti in un futuro molto lontano, ma ci parli già dell’oggi, diventa evidente, guardando al risultato uscito dalle urne il 25 febbraio. Certo è vero che è finita la stagione delle «due sinistre», perché la vecchia «sinistra radicale» – con la sconfitta della malriuscita operazione elettorale di Rivoluzione civile e la sostanziale irrilevanza di Sinistra Ecologia e Libertà – appare davvero uscita di scena, probabilmente in modo irrimediabile. Ma il risultato non è affatto un compattamento dell’unica sinistra rimasta sulla scena, perché quest’ultima risulta anzi indebolita, insidiata, persino scalzata da una forza come il Movimento 5 Stelle. Una forza indecifrabile, in cui si può vedere qualsiasi cosa e che si può interpretare in mille modi. Ma la cui fortuna, imprevedibile anche solo dodici mesi fa, è probabilmente solo il primo frutto della grande crisi che stiamo attraversando. Una crisi economica, sociale e politica che trascina con sé, insieme all’edificio europeo, una sinistra incapace di raccogliere la sfida di quella che Galli chiama la «quarta rivoluzione» novecentesca. Perché per molti versi – nonostante il ‘populismo’ di Grillo e il profilo del M5S rimangano ancora del tutto enigmatici, e aperti a mille possibili evoluzioni – il risultato delle elezioni di febbraio prefigura molto probabilmente la sagoma che assumeranno le rivolte dei prossimi anni, quantomeno nei paesi meridionali dell’Ue. Rivolte che effettivamente si collocano al di là di ciò che abbiamo finora chiamano ‘sinistra’ e ‘destra’, e che finiranno forse col dare un nuovo significato a questi termini. Ma in cui non è affatto escluso che ad avere la meglio siano proprio le tentazioni protezioniste, o persino xenofobe, semplicemente perché si tratta della soluzione all’apparenza più immediata. Con il rischio inevitabile che il Vecchio continente si incanali in una spirale di ritorsioni e chiusure. E dunque verso una crisi del processo di integrazione di cui non è neppure possibile immaginare le conseguenze di medio e lungo periodo.

venerdì 12 aprile 2013

La sinistra nel labirinto della rivoluzione globale. Alcune annotazioni a partire da «Sinistra» di Carlo Galli 1/2


di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa (in una versione più breve) sul sito dell'Istituto di Politica

Quasi vent’anni fa, la campagna elettorale del 1994 precipitò l’Italia, nell’arco di pochi mesi, dall’entusiasmo forcaiolo dei giorni di Tangentopoli al clima di un infuocato conflitto ideologico, che rinfocolava odi a lungo rimasti sommersi, e di cui molti non sospettavano neppure lontanamente la residua forza. Se gli anni Ottanta erano stati dipinti come una stagione di ‘rinascita’ della democrazia dopo il periodo oscuro del terrorismo, con la scomparsa della Democrazia Cristiana e del partito di Craxi molti dei fantasmi del passato riemersero vigorosamente, conquistando il centro del proscenio. Di fronte all’ipotesi di una vittoria elettorale dei «Progressisti» si formò nell’arco di poche settimane un blocco eterogeneo che univa sotto un’unica bandiera gli eredi del Movimento Sociale, la Lega Nord e una nuova formazione, ancora misteriosa (e per molti inquietante), creata a tempo di record da Silvio Berlusconi. Nonostante entrambi gli schieramenti puntassero su un immagine di efficienza tecnocratica lontana dai tradizionali richiami all’appartenenza politica degli elettori, la campagna elettorale che precedette l’appuntamento del 27 marzo 1994 divenne forse una delle più ideologiche della storia repubblicana, e molti osservatori rilevarono paradossali analogie con le elezioni del 18 aprile 1948. All’acceso furore anticomunista sbandierato da Berlusconi, rispondevano gli allarmi lanciati da un vasto fronte di politici e intellettuali sul possibile avvento di un ‘nuovo fascismo’. E benché gli eredi principali del Pci e del Msi avessero dichiarato esplicitamente la loro rottura con il passato, nella realtà continuarono a lungo ad accusarsi reciprocamente di non aver compiuto una sincera e completa autocritica per le rispettive colpe.
Proprio in quei giorni usciva nelle librerie italiane un volumetto di Norberto Bobbio, Destra e sinistra, l’ennesimo della sua sterminata produzione. Nonostante non fosse né il prodotto migliore del filosofo torinese, né un lavoro particolarmente originale, Destra e sinistra divenne, in modo del tutto inaspettato, un vero e proprio best seller, conquistando per settimane il vertice delle classifiche di vendita. Il messaggio del libro era piuttosto chiaro, e lo stile didattico, insieme alla concisione dell’esposizione, lo rendeva appetibile a un vasto pubblico, solitamente disinteressato alle questioni di teoria politica. In sintesi, il discorso di Bobbio consisteva nel considerare l’opposizione destra-sinistra come una particolare espressione della dicotomica dell’universo politico. Più in particolare, sosteneva che l’idea «secondo cui la distinzione fra sinistra e destra corrisponde alla differenza fra egualitarismo e inegualitarismo», che quindi essa «si risolve in ultima istanza nella differenza di percezione e di valutazione di ciò che rende gli uomini eguali o diseguali». Per alcuni aspetti, l’operazione di Bobbio rischiava di apparire semplicistica, quantomeno perché collocava in un vuoto di determinazione storica una dicotomia concettuale elementare, che, in questo modo, invece di spiegare differenze e peculiarità, finiva con l’appiattire e confondere tutto. Forse anche per la struttura così elementare della sua proposta, Destra e sinistra divenne una vera e propria bandiera per i «Progressisti» italiani, allora alla disperata ricerca di un fondamento teorico. Rinnegato il loro passato per aspirare alla conquista dell’elettorato moderato, i nuovi leader della sinistra si aggrapparono in effetti a simboli del tutto a-ideologici e tranquillizzanti, come l’immagine di un arcobaleno o la fotografia di un neonato, oltre che a un concetto sbiadito come quello di «progresso». In questo quadro, il volumetto di Bobbio, travalicando i confini della letteratura scientifica, si tramutò in una sorta di piccolo manifesto politico per gran parte di quel «popolo della sinistra» che – orfano del marxismo, del socialismo e dei tradizionali riferimenti ideologici – aveva trovato in una singolare sintesi di furore antiberlusconiano e memoria antifascista la temporanea conferma della propria identità. 
A vent’anni di distanza, nei giorni di una campagna elettorale che forse non chiude la ‘Seconda Repubblica’, ma che ne certifica quantomeno lo stato di agonia, Carlo Galli torna sul quesito dell’identità della sinistra, tentando in particolare di comprendere quale sia il cuore più autentico di quel modo di vedere la realtà, e di quella modalità dell’appartenenza politica, cui è stato assegnato il nome di «sinistra». Sebbene l’uscita del volume, nuovo episodio di una lunga ricerca intellettuale, sia andata a coincidere con il momento più infuocato di una campagna che ha visto Galli schierato tra le fila del Partito Democratico, sarebbe ingeneroso – oltre che improprio – considerare Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia (Mondadori, Milano, 2013, pp. 165, euro 17.50) come un manifesto elettorale, o come un istant-book. Pur accostandosi all’odierna situazione italiana, il libro di Galli sviluppa infatti un ragionamento molto più ampio, che si interroga sui grandi mutamenti della politica globale, sulla sconfitta della sinistra novecentesca e sulla possibilità di dare ancora un significato a un termine che pare sempre più offuscato, se non addirittura inutilizzabile. 
Dal punto di vista teorico, l’analisi di Galli si lega alle tesi già sviluppate in Perché ancora destra e sinistra (Laterza, Roma – Bari, 2010). In quel pamphlet, Galli sosteneva che la distinzione fra destra e sinistra non deve essere ricercata nei contenuti di questi concetti, bensì nelle modalità in cui le sfide poste dalla storia vengono di volta in affrontate. La distinzione fra destra e sinistra, una distinzione che rompe l’unità del campo politico, è dunque una conseguenza della modernità, e del costante oscillare della modernità fra contingenza e necessità. E anche per questo – sosteneva Galli in quel volumetto – la dicotomia destra/ sinistra non può essere superata neppure nell’«età oltremoderna», sebbene i contenuti assegnati a una e all’altra parte non possano che modificarsi rispetto al passato, perché cambiano le modalità di intendere i soggetti, le loro energie, la loro progettualità. Al termine di quel volume, Galli scriveva infatti: «Il passaggio al postmoderno (ossia al globale) trasfigura […] sia la destra sia la sinistra, e fa perdere loro le tradizionali identità e forme politiche; ma – benché entrambe traggano dall’origine della modernità la loro ragion d’essere – non le rende obsolete come categorie della politica. E il passato non passa perché destra e sinistra siano acquisizioni permanenti, ma (solo) perché la moderna duplicità strutturale della politica, in sospeso fra anomia naturale e norma implicita nelle soggettività, ha sì perduto soggetti, forme e orizzonti ma non è sostituita da alcun terreno solido, da alcuna nuova Giustizia o da un suo equivalente funzionale che funga da metro, da misura, per nuove categorie della politica, e neppure da un nuovo fronte polemico capace di determinare un nuovo orizzonte di senso politico. Permane insomma la duplicità originaria del Moderno, anche se non le sue architettura politiche e istituzionali. […] Così, benché il mondo sia mutato, benché i problemi cambino e le soluzioni manchino, se la politica resta strutturalmente indeterminata, se le lenti categoriali restano queste – ovvero se la soggettività come fine in sé può essere, almeno nel discorso politico, ancora discriminante –, allora destre e sinistre continueranno a determinare lo spazio politico» (C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, cit., pp. 77-78).
A distanza di qualche anno, Galli riprende il discorso, senza modificare naturalmente la chiave interpretativa generale, ma interrogandosi più specificamente su come possa oggi essere ridefinita la «sinistra», dinanzi al mutare dei soggetti e al tramonto delle progettualità novecentesche. Un aspetto cruciale del percorso di Galli consiste nella convinzione che la filosofia moderna offra una chiave essenziale per comprendere davvero la storia e la politica, e che dunque i significati mutevoli della sinistra possano essere compresi come riflessi del modo in cui – con strumenti filosofici differenti – viene raffigurato il rapporto fra la Parte e il Tutto. Come scrive infatti Galli: «‘sinistra’ è il nome di una Parte, di un settore della società e di uno schieramento ideale; ed è anche il nome di una direzione, di un orientamento che questa Parte, con l’azione politica, vuol dare al Tutto, all’ordine politico. Parte e Tutto si implicano l’una nell’altro. C’è l’una perché c’è l’altro. Come questa Parte venga individuata, in quale relazione stia col Tutto, come e a quali fini lo voglia trasformare, e con quali strumenti politico-istituzionali, sono questioni che si spiegano col risalire alle principali tradizioni filosofiche della modernità» (p. 13). Queste tradizioni sono per Galli principalmente il razionalismo, la tradizione dialettica, il pensiero negativo. Per il razionalismo – che da Hobbes e Locke arriva a Kant e a John Stuart Mill – «la parte è il singolo soggetto, che lotta per affermare i propri diritti contro le forze della tradizione, contro gli autoritarismi», e dunque la sinistra è «il luogo dei partiti progressisti, che progettano di allargare a tutti il godimento reale dei diritti, per realizzare l’uguaglianza democratica» (pp. 13-14). Per il pensiero dialettico, e in special modo nella tradizione marxista, la sinistra coincide invece con «lo spazio della classe operaia e del suo partito, all’interno di un Tutto, il capitalismo, che è conoscibile solo dalla Parte» (p. 14). Infine, agli occhi del pensiero negativo – che si muove fra Nietzsche, Heidegger, Derrida e Foucault, ma che influisce in profondità anche sulle altre tradizioni – «le Parti non si percepiscono all’interno di un Tutto, e anzi vi si sottraggono», tanto che la ‘sinistra’ in senso proprio non esiste: «esiste semmai il conflitto fra Parti diverse, che in linea di principio si equivalgono: le opzioni di valore a favore dell’una o dell’altra non sono razionali. La politica, qui, può essere narrazione o decisione, decostruzione critica o volontà di potenza, evento o mito, espressività o conflittualità; certo non progresso né rivoluzione» (p. 14).
Dal punto di vista politico, ognuno dei tre modi di rappresentare il rapporto fra la Parte e il Tutto produce conseguenze diverse, e soprattutto indirizza verso risposte differenti alle concrete sfide della storia. In questo senso, Galli individua nella storia del Novecento quatto grandi rivoluzioni, che scandiscono il «secolo lungo»: il comunismo, il fascismo, lo Stato sociale, il neoliberismo. «Queste quattro rivoluzioni, queste diverse forme di organizzazione delle cose umane», scrive Galli, «nascono da precise condizioni materiali, da rapporti di produzione, da livelli di tecnologia, da posizioni e da proiezioni di potenza interne e internazionali; ma trovano spiegazione e comprensione (e, in parte, autocomprensione ideologica) anche come momenti della concorrenza fra razionalismo, pensiero dialettico e pensiero negativo per attuare l’obiettivo del Moderno: per costruire la politica secondo la misura dell’uomo, cioè secondo la razionalità, la dignità, i diritti di ogni singolo – per individuare un’altra misura, oltre il soggetto» (p. 38). Naturalmente, nella ricostruzione di Galli è scontato che siano soprattutto le due ultime rivoluzioni ad avere un ruolo, perché è proprio in queste due tappe che si delinea la disgregazione politica e simbolica della sinistra contemporanea. E, soprattutto, perché è la globalizzazione neoliberista a scardinare le fondamenta della sinistra novecentesca. In particolare, lo Stato sociale è considerato da Galli nei termini di un compromesso fra capitale e lavoro, in cui socialdemocrazie e democrazia liberale vengono a convergere sull’idea che sia possibile conquistare «un equilibrio fra popolo e capitalismo»: «Un equilibrio di questo genere non si produce spontaneamente: è possibile in quanto è realizzato dalla politica, cioè dallo Stato che si rende garante dell’incontro fra capitale e lavoro; al primo lo Stato democratico mette a disposizione lo spazio politico interno come mercato nazionale (e apre spazi internazionali, come il Mec nel 1957); ai lavoratori dà l’inclusione, reale e non formale, nella vita associata con qualche chance per tutti (per molti, in realtà) di accedere, grazie alle politiche pubbliche (finanziate col prelievo fiscale), ai beni primari della salute, del lavoro, dell’istruzione. In questa rivoluzione nasce quella che abitualmente si intende per democrazia, che ai tempi della guerra fredda è stata la principale arma contro il modello sovietico, il vanto dell’Occidente, il compimento della parabola dello Stato moderno, la sua seconda vita dopo la crisi del liberalismo e dopo la notte totalitaria: il riformismo democratico, le riforme dall’alto, sulla base di istanze sociali (sia del capitale sia del lavoro) filtrate e gestite dal ceto politico e dai suoi tecnici» (p. 45).
La rivoluzione dello Stato sociale, e il compromesso fra capitale e lavoro, si basavano peraltro su una serie di presupposti economici, politici e sociali. E proprio il progressivo sgretolamento di tali presupposti ha preparato il terreno alla quarta rivoluzione, la rivoluzione neoliberista, di cui Galli riconosce le prime tracce nella svolta conservatrice di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Una svolta che non si limita a modificare la logica delle politiche keynesiane, ma che riscrive lo stesso rapporto fra le Parti e il Tutto. Per Friedrich von Hayek, scrive per esempio Galli: «il Tutto, ciò che è universale – appunto l’uguaglianza, la giustizia sociale, il bene comune, l’interesse generale, e le istituzioni che li perseguono, come lo Stato sociale e i socialismi in tutte le loro forme -, è una fallacia logica, psicologica e linguistica, e in politica è l’equivalente della dittatura; solo nel particolare, nella Parte, sta la libertà; solo nella libera interazione delle Parti c’è la possibilità dell’armonia e dell’equilibrio» (p. 49). Ma, al di là della specifica proposta teorica di Hayek, il neoliberismo si riflette, nella vulgata più popolare, soprattutto in un individualismo utilitaristico privo di limiti, che auspica l’espulsione della politica dalle cose umane. Un’espulsione della politica che è in realtà solo apparente, perché il neoliberalismo può realizzare la propria rivoluzione solo grazie a una dura lotta politica, e solo mediante un’inversione della logica operativa delle istituzioni politiche. «Insomma, la quarta rivoluzione del XX secolo consiste nel rilancio di una politica dinamica contro l’ordine statico del welfare, in un’introduzione di rischio, di conflitto, di insicurezza e di disuguaglianza – in varie forme – della società. Se le istituzioni politiche sono il tentativo di ridurre a zero il rischio – lo Stato moderno è un’impresa di sicurezza all’interno, e di rischio calcolato all’esterno – lo Stato sociale, che è il punto d’arrivo di questa tendenza, subisce, nella quarta rivoluzione, un vero smantellamento: starve the beast, affamare la bestia il grande Leviatano, è la parola d’ordine. Il welfare è ormai dipinto come occasione di potere per burocrati e politici di professione – autentici parassiti sociali – e come assistenzialismo immorale, ingiusto finanziamento di deboli, incapaci, fannulloni; semmai, è dall’arricchimento dei migliori che può derivare, per ‘sgocciolamento’ (il trickle down) un aumento del benessere delle masse» (p. 52). Ed è ovviamente la quarta rivoluzione novecentesca a determinare una crisi radicale per la sinistra novecentesca, o quantomeno per quella sinistra che aveva trovato il proprio fondamento nella democrazia post-bellica, nel compromesso fra capitale e lavoro, nella costruzione dello Stato sociale, nei grandi partiti di massa come mediatori e rappresentanti delle più differenti istanze sociali. Ma il risultato principale di questa quarta rivoluzione, agli occhi di Galli, è addirittura la distruzione di qualsiasi universale, o meglio la costruzione di «un mondo senza universale»: «Una società che si fonda sulla mobilitazione, e quindi sulla destrutturazione dello Stato (della sua stabilità, della sicurezza che ne proviene), e che al tempo stesso è anche, paradossalmente, la distruzione della Parte – dell’individuo – che dovrebbe esserne il centro, l’attore, il promotore. Il trionfo dell’avidità non è solo potenza ma anche debolezza, non è solo pienezza ma anche vuoto, non è solo ricchezza ma anche e soprattutto debito, non è esplosione di desiderio e di Vita ma precarizzazione e mortificazione della vita. La società del rischio distrugge il Tutto razionale e formale, e al tempo stesso mette a reprentaglio la Parte attraverso l’espropriazione dei mondi vitali in un’economia politica che sottomette tutta la vita al valore, al profitto, e che la espelle al contempo come priva di valore» (p. 63).
È all’interno di questo quadro interpretativo che Galli colloca la propria analisi della sinistra italiana, e in particolare della storia (e dell’eredità) del Pci. In questo senso, Galli riprende la vecchia tesi della «doppiezza» di Togliatti e del Partito comunista, ma ne modifica in larga parte il senso. La scelta del Pci del dopoguerra di conservare l’ambizione dell’«oltrepassamento» del capitalismo e, al tempo stesso, di trasformarsi in un partito saldamente incardinato nella dinamica di una democrazia liberale è intesa infatti da Galli come «una doppiezza strategica» che «non è malafede, ma che deriva dal cuore del pensiero dialettico (particolarmente se interpretato come storicismo), ossia dall’idea che il ritmo della storia e della politica è evolutivo, e che in ogni posizione (anche nella democrazia) è contenuto un elemento di contraddizione che la rende instabile, che le impedisce di essere la figura ‘ultima’ della storia, che anzi la mobilita verso il proprio oltrepassamento» (p. 69). Ma, forzando sullo stesso schema dialettico, il Pci si pone addirittura, più che come istanza di Parte, come «asse portante del Tutto – dello Stato democratico –, come cardine della democrazia repubblicana», oltre che come una forza che «ha scommesso sulla propria capacità di essere, rispetto a quel Tutto, anche la Parte capace di spostare avanti l’orizzonte della democrazia verso l’orizzonte del socialismo, pur accettando la democrazia come lo spazio che per intanto determina l’azione politica reale» (p. 70). Naturalmente, l’obiettivo del socialismo diventa a poco a poco un «mito», un «sogno», ma ciò non toglie – secondo Galli – che proprio questo riferimento consenta alla «doppiezza» di declinarsi in modo originale: per un verso, come rivendicazione del carattere di Parte, e, per l’altro, come trasformazione in «pilastro dello Stato e della democrazia», in «una forza capace di stare costruttivamente e progressivamente nella società proprio perché crede nella democrazia del presente e al contempo nel socialismo del mondo che verrà» (p. 72). 
Il riflesso più evidente della «doppiezza» del Pci è naturalmente il ruolo di governo assunto nelle amministrazioni locali della ‘zona rossa’. Le amministrazioni emiliane erano infatti, già nella lettura che ne diede Togliatti nella famosa conferenza del 1946 Ceto medio ed Emilia rossa, la prefigurazione di «una società che avrebbe dovuto essere un modello per la nazione», il modello di «quel ‘patto fra produttori’ che era il lato economico della ‘democrazia progressiva’» (p. 73), e che consisteva in sostanza nella capacità di assecondare il capitalismo, lo sviluppo locale, le istanze imprenditoriali, gli interessi dei ceti medi, garantendo al tempo stesso la diffusione di una solida struttura di welfare locale, buona amministrazione, sostegno ai ceti subalterni. Come scrive Galli a questo proposito: «la ‘differenza emiliana’ è consistita nel tentativo di assorbire le contraddizioni sociali attraverso l’inclusione democratica per via amministrativa. L’obiettivo era l’edificazione di una società progressiva ma prevedibile e pacificata, in cui le tensioni fossero gestibili e controllabili. Alla base c’era un dogma culturale e politico: tutto è gestibile, con il dialogo (col Pci da posizioni di forza, s’intende). La ricerca del consenso ha assunto di conseguenza il ruolo di una chiave universale: tutto si può fare con il consenso» (p. 77).
La forza della «doppiezza» del Pci inizia però ad esaurirsi già in corrispondenza con il momento di massima avanzata elettorale, in occasione delle consultazioni amministrative del 15 giugno 1975 e delle politiche del 20 giugno 1976. È in questo momento che, secondo Galli, «il Pci perde proprio l’energia delle Parti, poiché, mentre allarga la propria base elettorale, pezzi di società si allontanano dal partito e gli si lanciano contro», e perché in questo modo «perde anche la scommessa strategica di farsi Tutto non solo in quanto difensore dello Stato ma anche in quanto ammesso al governo» (p. 85). Naturalmente, Galli pensa al Settantasette bolognese, che per la prima volta vede un consistente movimento giovanile scagliarsi contro il Pci e contro la città vetrina della buona amministrazione comunista, ma pensa anche al terrorismo, le cui vicende vengono a calare il sipario sulla «fase espansiva della democrazia italiana» (p. 88). Da allora, e in particolare dopo la conclusione della parentesi del ‘compromesso storico’, il Pci appare sempre più disorientato, incapace di reagire alla nuova ondata che travolge l’Occidente e, di lì a pochi anni, il mondo intero. Negli anni Ottanta, il Pci si rinchiude in una «politica di denuncia» e appare sempre più come un «partito di fordisti spaesati fra gli yuppies» (p. 93). E anche la ‘svolta della Bolognina’, con tutte le successive (più o meno memorabili) svolte, non avrebbe modificato sostanzialmente il quadro di un disorientamento generale, declinato di volta in volta in una sorta di occasionalismo politico, in grado forse di afferrare le parole d’ordine del momento, ma del tutto incapace di formulare un progetto e di ridefinire un’identità. Ma, in questo caso, non si tratta solo di una storia italiana. Perché opportunamente Galli considera la Seconda Repubblica italiana come la declinazione locale di quella quarta rivoluzione novecentesca che modifica completamente il quadro in cui si era mossa la sinistra post-bellica. E sebbene il «comunismo» del Pci, in special modo quello delle amministrazioni ‘rosse’, avesse ben poco da spartire con l’Unione Sovietica, la sinistra italiana non poteva certo sottrarsi all’impatto di una travolgente ondata globale. «Il punto», scrive Galli, «è che la rivoluzione fa male a chi non la fa; e la quarta rivoluzione la sinistra l’ha subita» (p. 97).
Dinanzi a un simile scenario, Galli cerca di capire quale significato la parola «sinistra» possa ancora avere, quale compito le forze di sinistra debbano assumere, e soprattutto quante sinistre effettivamente – e credibilmente – si trovino oggi sul campo della battaglia politica. E in questo senso, nella foresta di filoni e movimenti che si richiamano alle differenti declinazioni della sinistra, Galli scorge soprattutto «una spaccatura profonda fra le due sinistre», ossia fra una sinistra riformista, cui viene imputato «di praticare un’ideologica superficialità, di non affrontare le contraddizioni di fondo del neoliberalismo e dello Stato moderno», e una sinistra radicale, accusata invece «di velleitarismo, di infantilismo, di mancanza di realismo, di estremismo inconcludente e controproducente» (p. 111). È ovviamente non solo una frattura fra due diverse sinistre, ma anche una lacerazione – ormai all’apparenza insanabile – fra il movimento e l’istituzione, due momenti che ancora fino agli anni Settanta parevano legati da una relazione dialettica. Una lacerazione che invece – ed è questa la proposta forse principale sotto il profilo politico del discorso di Galli – andrebbe ricomposta all’interno di una nuova dialettica. 
In effetti, per Galli «il pensare in termini di aut aut fra le due sinistre è un prodotto dell’epoca neoliberale», «una semplificazione in fondo conservatrice, che si adagia, sulla natura stessa del neo-liberismo» (p. 113). Ripensare la sinistra, nelle prospettiva di una «quinta rivoluzione», oltre quelle novecentesche, significa invece tentare di ricomporre la netta separazione che oppone le due sinistre. «Ora, non si dice che la sinistra debba essere il soggetto di una rivoluzione nel senso tradizionale», ma, «anche se la quinta rivoluzione – la prima, in realtà, del XXI secolo – non vorrà darsi questo nome, la sinistra oggi ha oggettivamente il compito di andare oltre un programma di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta» (pp. 113-114). In altre parole, secondo Galli, si tratta di «bloccare gli aspetti distruttivi del capitalismo, cioè di uscire dal paradigma neoliberale, di cambiare il volto del capitalismo e il suo rapporto con la politica» (p. 114). Un obiettivo che, per molti versi, si configura come un nuovo New Deal, anche se è naturalmente impossibile replicare le misure istituzionali di quella stagione. In altre parole, si tratta «della sfida di operare una neutralizzazione attiva delle contraddizioni delle due sinistre e insieme delle contraddizioni del neoliberismo: di non permettere che questi conflitti si manifestino in forma distruttiva e di riportarli dalla società alle istituzioni politiche» (p. 115). E, infine, di porre in atto «un progetto di neutralizzazione attiva come ripoliticizzazione delle istituzioni, come nuova centralità politica della dimensione pubblica sostenuta da un forte consenso popolare, da un rapporto dei partiti con i movimenti: non tutti […] e in ogni caso non per blandirli ma per decifrarne le ragioni e per intercettarne l’energia, per quanto è possibile» (p. 115).
Per Galli, la vera decisione che la sinistra deve affrontare non consiste in una scelta fra i diversi aut aut che le vengono poste. È piuttosto la scelta «fra la logica degli aut aut, da una parte, e, dall’altra, la logica della Parte concreta, del ripartire dalle Parti, e cioè dai partiti e dai movimenti, da quanti vogliono prendere parte, partecipare, e al tempo stesso evitare la sterile parcellizzazione, il narcisismo particolaristico, il risentito ripiegamento sulla propria parte» (p. 119). E ripartire dalle Parti, dalla Parte concreta, significa soprattutto ripartire dal lavoro, in cui Galli ritrova l’unico possibile pilastro tanto per la sinistra di domani, quanto per un nuovo, ancora ipotetico New Deal: «Il lavoro», scrive infatti proprio nelle pagine finali, «è la Parte che consente di comprendere le dinamiche del Tutto; perché l’inizio materiale ed esistenziale della progettazione della vita; perché, nonostante il neoliberaismo abbia fatto di ciò un dogma, non è un fatto privato, perché è l’inizio della vita individuale e sociale per una grande parte delle donne e degli uomini; una Parte che è venuto il momento riconosca se stessa appunto come Parte, come soggettività che del resto è stata da sempre individuata come tale dal neoliberismo, che da sempre le ha dichiarato guerra. […] Il lavoro è la Parte da cui iniziare la politica perché il lavoro si colloca là dove il potere ha origine: nel sistema economico» (p. 134). La sinistra di domani che si delinea – come orizzonte progettuale possibile – al termine del volume è allora una sinistra che attinge a tutte le tre grandi tradizioni della filosofia politica moderna, ma che riconosce al lavoro una centralità al tempo stesso etica e politica. E l’idea di fondo è infatti proprio «che il lavoro è il limite immanente del capitale, altrimenti illimitato», «che c’è forma solo se c’è limite», «che c’è forma umana solo se c’è limite umano». E, come conclude Galli, «che quindi è nel lavoro che prendono forma se non una soggettività politica forte – difficile, nell’attuale frammentazione delle esperienze lavorative – almeno le energie e le speranze per alleanze tattiche di medio periodo, rivolte a ricivilizzare la società» (p. 160).

Segue...

La sinistra nel labirinto della rivoluzione globale. Alcune annotazioni a partire da «Sinistra» di Carlo Galli 2/2

Damiano Palano