sabato 2 marzo 2013
Minuetto a colpi di martello. Il balletto della trattativa fra Bersani e Grillo (e il ‘suicidio assistito’ del Pd)
di Damiano Palano
Da vincitore annunciato delle elezioni politiche, dalla sera del 25 febbraio il Partito Democratico si è trovato retrocesso a ‘non vincitore’, o per meglio dire ad autentico sconfitto (insieme a Mario Monti). La coalizione guidata da Pierluigi Bersani ha infatti subito una duplice sconfitta. In primo luogo contro il centro-destra, che può persino gioire, scoprendo che l’emorragia di voti che ha colpito Pdl e Lega non è stata letale. E, in secondo luogo, contro il Movimento 5 Stelle, che – comunque la si pensi – è l’unico reale vincitore uscito dalle urne. La cosa – si potrebbe dire – non sarebbe poi così grave, se non fosse per la situazione che si è venuta a delineare in Senato. Dopo tutto, le sconfitte rientrano nella fisiologia della democrazia, e chi ha perso oggi può aspirare a diventare domani il nuovo trionfatore. In realtà, però, la sconfitta subita dal Pd è molto più grave di ogni altra sconfitta subita in passato dal centro-sinistra, e senza dubbio molto più pesante di quelle sofferte nel 2001 e nel 2008. Probabilmente, i risultati delle elezioni del 24-25 febbraio sono infatti destinate a chiudere definitivamente la storia del Partito Democratico e a sancire la conclusione di una storia politica tutto sommato piuttosto breve. E, presumibilmente, nei prossimi mesi assisteremo a una sorta di lancinante suicidio assistito, cui Movimento 5 Stelle e Popolo della Libertà daranno ovviamente il loro generoso contributo.
La cosa naturalmente non sfugge alla leadership del Pd. Certo il gruppo dirigente di questo partito ha mostrato un ritardo culturale quasi sconcertante, quando non ha compreso cosa covava nel paese (e nella propria stessa base), e quando ora non comprende cosa abbia realmente determinato l’exploit di Grillo. Ciò nondimeno, Bersani ha ben chiaro adesso quale posta si giochi il suo partito, oltre che – va da sé – quale sia la sorte che gli toccherà, comunque vadano le cose. Ed è per questo motivo che il leader del Pd si è attaccato così pervicacemente all’ipotesi di un governo Pd-M5S, che solo fino alle 18.00 di lunedì 25 sarebbe suonata alle sue orecchie come un’ingiuria. Ma, come è facile prevedere, l’ipotesi di una simile coalizione di governo rimane lontana anni luce dal realizzarsi.
Lo spettacolo della trattativa cui abbiamo assistito, e cui forse assisteremo ancora per qualche giorno, è quasi commovente. Da un lato, i toni concilianti dei vertici del Pd rientrano nel più classico repertorio del minuetto parlamentare, dei rituali della Prima Repubblica, con tutto il corollario di scenari e contro-scenari di ‘governi di minoranza’, di accordi programmatici, di patti di ‘non sfiducia’. Dall’altro, le risposte di Grillo rientrano invece nel bagaglio ormai consolidato della sua insolente retorica anti-casta, in cui Bersani e Berlusconi diventano poco più che zombie che rifiutano di prendere atto del decesso, e in cui, alle più o meno caute proposte di apertura programmatica, si risponde – figuratamente, è ovvio – col martello di una polemica irrispettosa di ogni rituale istituzionale.
Che un balletto di questo genere non debba portare a risultati significativi è quasi inevitabile, per vari motivi. Innanzitutto, perché il Movimento 5 Stelle ha, in questo caso, il coltello dalla parte del manico, e può perciò alzare notevolmente la posta in palio, spingendo il confronto con il Pd fino al punto in cui quest’ultimo non potrà seguirlo. Ma, soprattutto, perché il Movimento 5 Stelle – o quantomeno Grillo e Casaleggio (dal momento che le posizioni pare siano più articolate e possibiliste fra i neo-eletti) – ha troppo da perdere e nulla da guadagnare. O, quantomeno, nulla rispetto a quello che potrebbe guadagnare in caso di imminenti nuove elezioni.
Se infatti per il Pd l’ipotesi di un accordo col Movimento 5 Stelle potrebbe aprire la strada per riconciliarsi con una parte del proprio elettorato, e per realizzare alcune riforme che gli sarebbero invece precluse in caso di alleanza con Monti, la formazione di Grillo correrebbe solo una serie di rischi destinati a dissolvere la credibilità che ha consentito il successo elettorale di pochi giorni fa. E la ragione, da questo punto di vista, è molto semplice. Tutto il ragionamento imbastito da Bersani su un accordo centrato su alcuni progetti essenziali di ‘riforme’, e in particolare sulla riduzione dei ‘costi della politica’, si basa sul presupposto che sia possibile distinguere fra l’attività del legislativo e l’attività dell’esecutivo. In sostanza, secondo questo scenario, il Movimento 5 Stelle non dovrebbe necessariamente entrare a far parte dell’esecutivo presieduto da Bersani, o da un’altra personalità vicina al Pd, ma dovrebbe semplicemente garantire una fiducia tale da consentire al governo di entrare in carica (o, quantomeno, una ‘non sfiducia’, mediante un’uscita totale o parziale dei grillini dall’aula di Palazzo Madama). Questa fiducia darebbe la possibilità di avviare effettivamente la legislatura, e soprattutto offrirebbe la possibilità al Parlamento di varare quei provvedimenti richiesti dal M5S, come, per esempio, la riduzione del finanziamento pubblico dei partiti, o la fatidica riduzione del numero dei parlamentari, una riforma che più o meno da un quarto di secolo campeggia su tutti i programmi elettorali di pressoché tutti i partiti. Esaminata più da vicino, una simile ipotesi mostra subito tutte le insidie per il Movimento 5 Stelle.
L’ipotesi di una partecipazione grillina a un ‘governo di cambiamento’ presuppone, in sostanza, che il governo rimanga in vita solo per questioni tecniche (o per motivi non ben precisati), e che il Parlamento possa impegnarsi in una energica attività riformatrice. Ma, ovviamente, questo implicherebbe almeno tre condizioni, molto difficili da realizzarsi. In primo luogo, il sistema politico italiano dovrebbe lavorare del tutto libero da qualsiasi condizionamento da parte dei mercati finanziari. E, per esempio, il Parlamento dovrebbe decidere di organizzare – seguendo peraltro l’iter della modifica costituzionale – un referendum sulla permanenza dell’Italia dell’euro, senza alcuna reazione da parte dei mercati, senza alcuna fuga di capitali, senza alcuna pressione speculativa sui conti pubblici. In secondo luogo, l’Unione europea e le sue istituzioni dovrebbero uscire di scena, rassegnandosi al ruolo di spettatrici passive, e dunque rinunciando alla possibilità di definire i contenuti delle riforme, di vigilare sul rispetto degli impegni, di controllare la stabilità dei conti pubblici. Infine, il governo dovrebbe limitarsi solo alla ordinaria amministrazione, rispettando il ruolo del Parlamento rispetto alla funzione legislativa e utilizzando lo strumento del decreto-legge solo per provvedimenti dettati da eccezionalità ed urgenza, e non per varare riforme che le due camere sarebbero chiamate a confermare (o ‘correggere’).
Come è facile capire, ognuna di queste tre condizioni non è teoricamente impossibile. Ma, evidentemente, immaginare che possano effettivamente verificarsi nei prossimi mesi equivale a ritenere che cessino le pressioni esterne, che lo spread rimanga stabilmente sotto la soglia di guardia, che il panico non si diffonda tra gli investitori, che i grandi speculatori non affondino il coltello nella piaga dell’instabilità, che la Bce continui l’acquisto di titoli di Stato italiani, che non si verifichi la necessità di ricorrere a misure eccezionali, che anche l’Italia non sia sottoposta a un ‘commissariamento’ analogo a quello cui è stata vincolata la Grecia. Insomma, significa credere che l’Italia riesca a vivere per sei-dodici mesi, o forse di più, in una sorta di vuoto pneumatico. Anche perché quelle misure di ‘cambiamento’ che potrebbero indurre i grillini a sostenere l’esecutivo richiederebbero tempi piuttosto lunghi.
La riduzione del numero dei parlamentari richiede infatti una modifica della Carta costituzionale, dunque un iter parlamentare complesso, che potrebbe in teoria richiedere anche solo tre mesi, ma che molto probabilmente, per il meccanismo della doppia votazione, richiederebbe in realtà molto più tempo. Col risultato che l’eventuale ‘governo a tempo’ o ‘governo di scopo’ dovrebbe giungere almeno alla fine del 2013, prima che le camere possano essere nuovamente sciolte e che siano indette nuove elezioni. Una procedura analoga è richiesta per altre misure considerate cruciali dal M5S, come per esempio l’indizione di un referendum popolare sulla permanenza dell’Italia nell’euro: un simile referendum è infatti vietato dalla Costituzione, in quanto attiene a un trattato internazionale, e dunque il suo svolgimento richiederebbe dunque un’ulteriore modifica della Carta. E proprio simili tempistiche rendono quantomeno illusori i presupposti su cui si fonda l’ipotesi di un ‘governo di cambiamento’: ossia l’idea di un esecutivo che lasci in fondo a Grillo le mani libere da qualsiasi responsabilità di governo, ma che consenta però di realizzare – con la collaborazione del M5S – un numero limitato di proposte cruciali.
I motivi per cui il Pd deve attaccarsi con ogni residua forza all’ipotesi di un sostegno grillino sono piuttosto scontati. Il Pd non può che puntare a ‘responsabilizzare’, o chiamare alla prova dei fatti, una forza politica che ha costruito la propria fortuna sull’immagine di una rivolta ‘anti-sistema’, e che però fa della propria bandiera il fatto di non avere un’ideologia bensì solo proposte e idee per migliorare la situazione del paese. Coinvolgendo il Movimento 5 Stelle, il Pd può riuscire a disinnescare quella portata ‘eversiva’ che ne ha fatto il primo partito italiano. Anche perché, in questo modo, trascinandolo dentro il sistema, può dimostrare che il M5S non è una forza così diversa dalla altre, e che le sue proposte non sono poi così radicali o ‘rivoluzionarie’ come Grillo vorrebbe far intendere. Ma, va da sé, il Pd è costretto a questo estremo tentativo perché l’alternativa sarebbe solo un abbraccio fatale con quello che per vent’anni è stato l’altro polo del bipolarismo italiano. Il Pd sembra infatti essersi convinto, più o meno dalle 18.00 del 25 febbraio, di come la soluzione del ‘governo tecnico’ voluto da Napolitano e presieduto da Mario Monti sia stato un errore clamoroso, che ha ulteriormente allontanato e sfiduciato il proprio bacino elettorale. Con la conseguenza, che l’ipotesi di un nuovo governo di ‘larghe intese’, presieduto magari da qualche ‘tecnico’ o ‘semi-tecnico’, o da qualche personalità politica non sgradita al Pdl (come per esempio Enrico Letta), suona oggi alle orecchie di Bersani e della leadership democratica come una sorta di canto delle sirene, destinato a condurre alla morte. Ma, molto probabilmente, questo richiamo diventerà alla fine irresistibile.
Forse qualcuno tra i più entusiasti neo-eletti della compagine grillina può ravvisare nell’ipotesi di un sostegno (anche esterno) al ‘governo di cambiamento’ una riedizione dell’appoggio offerto dal M5S alla giunta Crocetta. D'altronde, questo accordo sulle ‘cose da fare’ rientra pienamente nella logica di una ‘lista civica’ a-partitica e a-ideologica che punta a realizzare, a livello comunale, una serie di misure ben chiare, o a impedire progetti reputati come dannosi. Ma le cose sono evidentemente molto diverse nel gioco parlamentare, perché i tempi lunghi non potrebbero non invischiare i neo-eletti grillini nella palude del ‘teatrino della politica’ da cui dichiarano con forza – e con un po’ di verginale ingenuità – di volersi tenere lontano.
Se qualche esponente della pattuglia che sbarcherà a Roma nei prossimi giorni può forse essere affascinato dalla proposta di Bersani, è invece molto probabile che Grillo e Casaleggio colgano bene tutte le insidie. Così, già da qualche ora hanno preso ad alzare la posta, tanto da rendere le condizioni in fondo inaccettabili da parte del Pd. La controproposta della Presidenza del Consiglio al M5S è un esempio che già fa presagire la linea che terrà Grillo nel confronto a distanza con Bersani. Ma non è difficile immaginare che il comico punterà sulle proposte su cui il Pd non può cedere, se non al prezzo di smentire gli impegni alla ‘serietà’ e alla ‘responsabilità’ che hanno scandito la lunghissima campagna elettorale del segretario del Pd, e che probabilmente servivano allora soprattutto a tranquillizzare quell'elettorato ‘moderato’ che forse non esiste neppure più. E, così, Grillo non farà altro che puntare sui bersagli più alti, come l’introduzione del ‘sussidio di disoccupazione garantito’, il taglio alle pensioni d’oro, il tetto ai compensi dei dirigenti pubblici. Sia perché il M5S non ha obiettivi di lungo periodo, come potevano avere la vecchia sinistra comunista o la stessa Lega Nord, ma solo una serie di proposte-shock. Sia perché la formazione capeggiata da Grillo deve molta della propria fortuna alla denuncia della metamorfosi della sinistra italiana, accusata – con un energia polemica pari, se non superiore, a quella riservata al Pdl – di aver stretto un patto d’acciaio con gruppi di potere economico-finanziario, e dunque di non rappresentare né il mondo dei lavoratori, né l’insieme dei ceti subalterni.
Per questi motivi, la conclusione del minuetto ritmato dai colpi di martello di Grillo è probabilmente scontata. E il Partito Democratico, dinanzi al muro eretto dal M5S, sarà così costretto a volgersi verso l’altra sponda, alla ricerca di qualche genere di accordo col Pdl, oltre che con la sparuta pattuglia montiana. Quali siano la formula e la durata di un simile ‘esecutivo ponte’ è difficile da dire. In ogni caso, appare improbabile che due partiti che hanno tollerato per più di un anno un governo ‘tecnico’, in nome dell’emergenza, si mostrino ora del tutto indifferenti alle pressioni che giungeranno da mille direzioni a sostenere la necessità impellente di un ‘governissimo’. Probabilmente, un simile esecutivo non potrà realizzare nessuna di quelle salvifiche riforme in grado di rilanciare la crescita, di cui si favoleggia da anni ma che nessuno ha mai davvero capito in cosa consistano. Ma non è da escludere che l’unico vero risultato di questo nuovo esperimento di alchimia parlamentare debba essere proprio la dissoluzione del Partito Democratico. Non perché sia destinato a essere schiacciato dall’ascesa delle cinque stelle, ma perché nei prossimi mesi verranno al pettine tutti i nodi di un progetto politico lacerato fin dalle origini da contraddizioni probabilmente insanabili.
In altre parole, la comparsa di un’opposizione radicale verrà a squadernare del tutto l’ambizione veltroniana, su cui il Pd è nato, di diventare l’unico soggetto dell’area di centro-sinistra, e cioè un soggetto politico ‘a vocazione maggioritaria’, capace di eliminare tutti gli ingombranti cespugli di sinistra e, al tempo stesso, di essere forza responsabile e di governo, stabilmente rivolta verso il centro e verso il fatidico elettore ‘moderato’. La minaccia proveniente dal Movimento 5 Stelle – che non è un cespuglio, ma che appare sempre più simile a una gigantesca pianta carnivora – spingerà infatti una parte dei dirigenti e dei militanti del Pd verso sinistra, nella convinzione che la sconfitta sia dovuta alla perdita di radicalità e all’incapacità reale di rappresentare i ceti sociali più colpiti dalla crisi. Ma un’altra parte non abbandonerà l’idea che il Partito Democratico debba essere invece una ‘responsabile’ forza proiettata verso il governo, attenta alla stabilità dei conti e sensibile al ‘rigore’, oltre che indirizzata verso la conquista del centro e di quei gruppi imprenditoriali che in passato hanno confidato nella ‘rivoluzione liberale’. L’ambizione di far convivere sotto lo stesso tetto un’anima di sinistra e un’anima moderata – un’ambizione coltivata in modo paradigmatico da Veltroni, ma centrale anche per il profilo del partito nella stagione bersaniana – dovrà allora scontrarsi con la necessità di una scelta, probabilmente destinata a rivelarsi fatale. Proprio per questo, il Partito Democratico rischia per molti versi di rimanere un progetto incompiuto, e di morire soffocato fra un’alleanza fatale col Pdl e l’incubo dell’onda grillina. E, molto probabilmente, i prossimi mesi sono dunque destinati a mostrarci tutte le sequenze di un suicidio annunciato.
Damiano Palano
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