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lunedì 25 marzo 2013

Le grandi bugie della Seconda Repubblica Intorno a «La tela di Penelope» di Simona Colarizi e Marco Gervasoni




di Damiano Palano

  Mentre si avvicina la fine della Seconda Repubblica, diventa possibile stilare un bilancio dell'ultimo ventennio. Un bilancio che certo non può essere positivo. E che ci spinge a chiederci se la Seconda Repubblica non si sia basata su alcuni grandi bugie. O quantomeno su alcuni enormi errori di valutazione.
Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica

Nell’aprile del 1993, proprio nei giorni in cui infuriava la bufera di Tangentopoli, Ernesto Galli della Loggia scrisse che la Seconda Repubblica stava «nascendo su una bugia», in modo non del tutto dissimile da quanto era avvenuto per la Prima: «Allora la bugia fu la supposta rivolta – morale prima, armata poi – di tutto il popolo contro il fascismo. […] Oggi la nuova bugia parla anch’essa di rivoluzione – non più antifascista ma antiburocratica – che […] vedrebbe protagonisti gli italiani per così dire rigenerati, fatti moralmente nuovi […]. Come si può credere ad una qualunque nuova sostanza morale di massa dietro la cosiddetta rivoluzione italiana quando non risulta che siano mutati di un ette i comportamenti ‘morali’ e ‘immorali’ di massa degli italiani?». Dalla lettura di Galli della Loggia trapelava ben più che un’ombra di pessimismo, e anche per questo risultava stridente il contrasto con gli umori dominanti, che dipingevano invece l’offensiva giudiziaria contro la classe politica del vecchio «pentapartito» come una sorta di liberazione dal giogo sopportato per tanti anni. Proprio quel pessimismo coglieva però la dimensione più oscura che si celava dietro il mito «società civile», dietro le entusiastiche celebrazioni della «gente», dietro la raffigurazione di una piazza onesta in rivolta contro la corruzione del «Palazzo». E non soltanto perché alle spalle di quelle immagini si nascondeva una grande operazione autoassolutoria. Ma soprattutto perché grazie all’illusorio rituale di quella specie di ‘nuova Resistenza’ si evitava di riconoscere il serrato legame che stringeva la società italiana (o quantomeno una sua parte significativa) al sistema politico, tanto da dimenticare persino come il benessere dei tanto celebrati (e denigrati) anni Ottanta fosse intrecciato a doppio filo con tutti i problemi che il paese si sarebbe trascinato per due decenni. 
Oggi la pesante eredità che la Prima Repubblica ha consegnato alla Seconda inizia invece a diventare sempre più chiara, e in effetti diverse ricostruzioni si spingono a rintracciare proprio negli anni Ottanta le radici più profonde del clamoroso tradimento delle speranze di rigenerazione coltivate al principio degli anni Novanta. Un contributo importante al dibattito viene in questo senso anche dal volume di Simona Colarizi e Marco Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica. 1989-2011 (Laterza, pp. 276, euro 18.00), un testo che naturalmente, pur volgendosi all’indietro, non può evitare di guardare al presente e, in special modo, al futuro di una transizione ancora indecifrabile. La tesi interpretativa dei due storici – non certo teneri nei confronti della classe politica dell’ultimo ventennio – si trova per molti versi esplicitata già nel titolo del lavoro. In primo luogo, la «tela di Penelope» evocata da Colarizi e Gervasoni – e richiamata dal verso dell’Odissea collocato in epigrafe («di giorno la gran tela tesseva / e la sfaceva di notte con le fiaccole accanto») – allude infatti all’impotenza della politica, del tutto incapace di costruire soluzioni alle necessità del paese e di mantenere le grandi promesse di riforma. In secondo luogo, il perimetro temporale, entro cui i due autori circoscrivono l’analisi, esplicita la convinzione che a segnare l’intera vicenda della Seconda Repubblica siano due eventi internazionali: il crollo dei regimi socialisti e il vertice europeo di Maastricht. Proprio questi due eventi – pur precedendo l’avvio del nuovo ciclo della politica italiana – sono infatti destinati a pesare a lungo. Per un verso, il crollo del Muro berlinese mette a dura prova l’identità del Pci, posto dinanzi al fallimento di un’esperienza a lungo considerata come un riferimento importante (se non proprio come un modello o una guida). Per l’altro, la fine della Guerra fredda priva anche la Democrazia cristiana del ruolo di baluardo anticomunista, sotto il quale è rimasta per decenni occultata la degenerazione del partito. Mentre entrambi i pilastri della Prima Repubblica risultano per questo colpiti nelle fondamenta, le tendenze alla disgregazione del sistema partitico possono finalmente svilupparsi compiutamente, conducendo rapidamente al tracollo – con il supporto dell’azione giudiziaria – un sistema di potere. Ma anche il secondo evento ricordato da Colarizi e Gervasoni – l’incontro di Maastricht – gioca un ruolo tutt’altro marginale. Negli ultimi anni della Prima Repubblica, la classe politica sposa infatti con un incondizionato entusiasmo europeista la prospettiva che condurrà all’unione monetaria, sebbene sia assai meno disposta a compiere i passi necessari per procedere realmente su questo terreno. «A parole», scrivono d’altronde i due storici, «tutti i partiti si proclamavano decisi a compiere i passi necessari, tutti sbandieravano la loro fedeltà ai principi comunitari», ma «nei fatti tutti esitavano con cura di attuare gli indirizzi della comunità europea che avrebbero comportato una brusca frenata alla spesa pubblica e al welfare su cui si poggiava l’edificio già traballante dei consensi ai governanti» (p. 17). L’ambivalenza fra un esibito europeismo e la resistenza a mettere in pratica le indicazioni dell’Ue segnerà il ventennio seguente. E, per molti versi, spingerà il paese verso un vicolo cieco.

Nella loro ricostruzione, Colarizi e Gervasoni ripercorrono naturalmente la deflagrazione di Tangentopoli, la marcia verso le elezioni del 1994, la ‘discesa in campo’ di Silvio Berlusconi, la nascita di Forza Italia, e la vittoria dei due poli che nella figura del magnate della comunicazione trovarono l’elemento di temporanea aggregazione. E, in seguito, si volgono all’altra ‘discesa in campo’ di Prodi, alle lacerazioni interne del Pds, all’eterogeneità politico-culturale dell’Ulivo, ai rapporti contrastati con Rifondazione comunista. La frammentazione della coalizione guidata da Prodi ebbe come più evidente conseguenza l’instabilità governativa, destinata a segnare l’intera legislatura iniziata nel 2006. Ciò nondimeno, proprio gli anni del primo governo Prodi furono probabilmente quelli che indirizzarono l’Italia sul binario che avrebbe percorso nel corso della Seconda Repubblica. La decisione europea di giungere a un’unione monetaria ampia (comprendente anche Italia e Spagna), la crescita economica favorita dalla parabola della new economy statunitense, le pressioni sulla riduzione del debito pubblico, le prime misure volte a flessibilizzare il mercato del lavoro per favorire l’occupazione giovanile, definirono infatti un quadro da cui l’Italia non sarebbe più uscita. Come scrivono da questo punto di vista Colarizi e Gervasoni: «la nazione rinunciava a una parte rilevante della propria sovranità senza avere però una classe dirigente in grado di assicurare ai suoi cittadini i vantaggi che derivavano dall’appartenenza a una grande comunità sovranazionale, l’area economica più ricca del mondo. Il sistema politico, rimasto instabile dopo la caduta della Prima Repubblica, sembrava condannare l’Italia a una progressiva marginalizzazione sul terreno delle decisioni che gli Stati dell’Unione Europea assumevano e avrebbero assunto in questa fase di vera e propria riorganizzazione del mondo. E il paese declinava sotto ogni profilo, economico, sociale, culturale, più accentuato si faceva i ripiegamento su se stesse delle forze politiche chiuse nei palazzi di un potere ormai ridotto e assorbite da lotte interne che le allontanavano progressivamente dall’Europa e dalla stessa società italiana» (pp. 86-87).
In effetti, benché oscurata dall’obiettivo centrato dell’ingresso nell’unione monetaria, la realtà del declino economico e politico del Paese si sarebbe progressivamente imposta, senza che nessuno dei governi succedutisi negli anni fosse minimamente in grado di alterare la sostanza di un processo all’apparenza ineluttabile. Un processo comunque assecondato dallo scenario di ingovernabilità di cui Colarizi e Gervasoni seguono le sequenze principali, dalla caduta del governo Prodi, alle parentesi degli esecutivi presieduti da Massimo D’Alema e Giuliano Amato, fino al ritorno a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi, destinato a segnare buona parte del primo decennio del XXI secolo. E, ovviamente, un processo che conduce fino ai nostri giorni, o, meglio, fino al novembre del 2011, con le dimissioni di Berlusconi e l’assegnazione al neo-senatore Mario Monti dell’incarico di formare un nuovo governo. «Se fosse la fine della Seconda Repubblica» - scrivono Colarizi e Gervasoni proprio al termine della loro ricostruzione - «resta ancora impossibile dirlo, certo calava il sipario su una stagione: That’s all, folks, intitolava ‘The Economist’ l’11 novembre 2011» (p. 232).
Se rimane ancora difficile dire se la Seconda Repubblica sia davvero giunta al capolinea, o sia destinata a trascinarsi ancora a lungo, in sede di bilancio storiografico diventa oggi fondamentale interrogarsi sui motivi che hanno determinato il fallimento delle grandi speranze nutrite negli anni Novanta. Colarizi e Gervasoni non evitano certo di affrontare questo nodo, e non esitano a riconoscere l’incapacità del sistema politico di rispondere alle sfide poste dal quadro emerso dopo la fine della Guerra fredda. In altre parole, gli attori politici sono rimasti «paralizzati» di fronte alla «società liquida» del XXI secolo, e così i grandi problemi posti dalla transizione globale – problemi analoghi a quelli cui si sono trovati dinanzi anche gli altri paesi europei – non hanno trovato alcuna risposta. «Nel centrodestra come nel centrosinistra la frammentazione interna a entrambe le coalizioni, mera somma di spezzoni di partiti ereditati dalla Prima Repubblica, è sfociata in una conflittualità permanente e paralizzante: lo scenario meno adatto a gestire un’Italia già nel 1994 in affanno sul piano delle risorse economiche, sociali e culturali» (p. X). La tela di Penelope per Colarizi e Gervasoni diventa allora il simbolo di una politica inconsistente, del tutto incapace di tessere una trama di trasformazione, e destinata ogni volta ad abbandonare i grandi disegni di riforma. «Esecutivo dopo esecutivo» - scrivono i due storici - «si è andata tessendo una tela rimasta ogni volta incompiuta, quasi a richiamare l’opera ingannevole di Penelope. Ma restare sempre fermi significa declinare irrimediabilmente, un declino che i partiti della Seconda Repubblica non sono riusciti ad arrestare, malgrado l’ingresso nell’euro e qualche breve parentesi di ripresa, soffocata dalle convulsioni economiche internazionali sommate all’impotenza dei governi» (p. X).
La lettura di Colarizi e Gervasoni è senza dubbio condivisibile quando sottolinea l’insufficienza della classe politica della Seconda Repubblica e gli effetti deleteri di un bipolarismo tanto connotato sul piano emotivo, quanto distruttivo e privo di reali basi ideologiche. Se tutti questi limiti sono talmente evidenti da non richiedere neppure l’onere della dimostrazione, è però necessario anche non perdere di vista il quadro in cui la Seconda Repubblica nasce, e in cui il bipolarismo esasperato e sterile dell’ultimo ventennio viene a collocarsi. Perché, forse, il declino che l’Italia sta sperimentando – e che non dipende solo dalla crisi globale – rappresenta soprattutto un frutto avvelenato del crepuscolo della Prima Repubblica. Anche Colarizi e Gervasoni ricordano d’altronde che, al principio degli anni Novanta, mentre la crisi politica si andava combinando con la crisi economica, la classe dirigente della Prima Repubblica divenne un facile bersaglio su cui scaricare le responsabilità di una ‘corruzione’ ben più diffusa: «Pochi cercavano di spiegare che il paese aveva in realtà vissuto per un decennio al di sopra delle sue effettive possibilità; assai più facile era trovare un capro espiatorio nei partiti che avevano rubato» (p. 29). Riconoscere che il paese aveva vissuto «al di sopra delle sue effettive possibilità» non significa però semplicemente ammettere che le complicità con il sistema partitocratico erano estremamente diffuse, o che le rendite clientelari avevano finito col fornire benefici a una fetta rilevante della società italiana. Significa soprattutto riconoscere che la ricchezza degli anni Ottanta era – in misura significativa – il risultato di quel formidabile meccanismo di appropriazione privata delle risorse pubbliche che raddoppiò il debito pubblico italiano nell’arco di un decennio. Un meccanismo che ebbe senza dubbio effetti benefici, perché consentì di uscire dalla crisi degli anni Settanta e perché consegnò al paese un nuovo effimero boom, una strabiliante crescita economica, nuovi modelli di consumo e un benessere di massa. Ma che, sul medio periodo, pose sull’intera società italiana un’ipoteca destinata a rivelarsi negli anni addirittura drammatica.
Naturalmente la crescita del debito pubblico italiano non ha una sola causa. Le sue origini vanno ricercate nelle politiche dei governi di centro-sinistra degli anni Sessanta, nelle pressioni conflittuali degli anni Settanta, nei ritardi di un sistema fiscale a lungo inadeguato, oltre che naturalmente nell’uso per fini clientelari della spesa pubblica e nelle distorsioni dovute alla vera e propria corruzione. Ma l’esplosione del debito pubblico non avviene né in una fase di ricostruzione economica, né in una stagione di marcata conflittualità sociale, e neppure in presenza di una crisi economica internazionale. L’esplosione del debito avviene piuttosto in coincidenza con il decennio ricordato per i successi del made in Italy nel mondo, per la straordinaria ‘modernizzazione’ della società italiana, per l’euforia che contagiò un intero paese e che lo trascinò ai vertici del mondo, un po’ come aveva fatto la nazionale di Bearzot ai mondiali spagnoli del 1982. Effettivamente quel periodo fu segnato da un entusiasmo contagioso, e non è dunque sorprendente che oggi, in una stagione segnata dalla disillusione, dal pessimismo, forse anche dall’angoscia, si tenda a guardare nostalgicamente all’effervescenza di quegli anni. Lo stesso Gervasoni ne ha ricostruito bene il clima emotivo nel suo Storia d’Italia degli anni Ottanta, Marsilio, Venezia, 2010), difendendone la memoria contro quanti hanno invece ritrovato in quel decennio le radici culturali del «berlusconismo». E una esemplificazione quasi paradigmatica della celebrazione postuma degli anni Ottanta è giunta da Andrea Romano, che, proprio commentando il libro di Gervasoni, ha osservato che le immagini degli anni Ottanta, immagini che ancora oggi continuano a popolare l’Italia, «non sono solo quelle della televisione commerciale o della personalizzazione della politica, come vuole la convenzione più diffusa, ma anche quelle di un vitalismo di massa che oggi si è corrotto in indignazione tribale e di una rivendicazione dei poteri dell’individuo che si è rovesciata nel particolarismo e nella fuga dalla responsabilità». Perché, agli occhi di Romano (come in parte nella lettura di Gervasoni), «gli anni Ottanta sono stati l’ultimo decennio in cui l’Italia si è immaginata all’avanguardia della modernità occidentale, prima di avviarsi su un piano inclinato di percezioni sempre più cupe dal quale non sembra capace di uscire» (A. Romano, Gli anni Ottanta delle meraviglie, in «Sole 24 Ore – Domenica», 3 ottobre 2010, p. 27). Effettivamente fu proprio così, e davvero si può riconoscere – con Gervasoni e Romano – che quel decennio completò la ‘modernizzazione’ italiana. Ma il punto è che molto del benessere degli anni Ottanta era ‘drogato’ dai rendimenti stellari dei titoli di Stato: rendimenti che – in modo del tutto trasversale rispetto alle consolidate fratture del paese, oltre che alla stessa divaricazione fra lavoratori e datori di lavoro – consentirono a piccoli risparmiatori, a lavoratori dipendenti, a pensionati, ma anche a grandi e medie aziende, di trovare finalmente nelle casse dello Stato una vera e propria gallina dalle uova d’oro, con cui sostenere la dilatazione di nuovi consumi o con cui rifinanziarsi dopo le difficoltà degli anni Settanta. Con tutte le inevitabili conseguenze sulle dimensioni del debito, che in effetti, nel periodo compreso fra 1979 e i primi anni Novanta, salì dal 57,7% fino al 125% del Pil.
In sede retrospettiva, è legittimo interpretare questa forma di erogazione di rendite come una sorta di compensazione con cui la classe politica della Prima Repubblica intendeva assicurarsi il consenso di elettori sempre più diffidenti e tendenzialmente ostili, e non è probabilmente fortuito che il ‘contratto’ fra governanti e governati vada in crisi proprio nel momento in cui – nella prospettiva di Maastricht e dell’unione monetaria – i nodi di un debito ormai mastodontico vengono al pettine. Ma, forse, è ancora più importante tornare a puntare lo sguardo su quanto avvenne nel breve arco temporale compreso fra il 1989 e il 1993. Proprio in quegli anni, in cui si consuma l’ultima stagione di una classe politica ormai avviata verso il tramonto, prese forma un’altra delle grandi bugie su cui nacque la Seconda Repubblica. Una classe politica ormai sempre più delegittimata – che in parte forse già sospettava il cataclisma che la attendeva, o che invece fu del tutto inconsapevole del peso delle proprie scelte – strinse infatti l’Italia nei vincoli fissati nel Trattato di Maastricht: vincoli che, come abbiamo scoperto in un ventennio, erano destinati a rendere quasi inevitabile il declino del paese. Per comprensibili motivi, il problema del debito accumulato negli anni Ottanta non venne allora affrontato come un problema effettivamente politico, come uno dei lasciti della Prima Repubblica, e non fu considerato da nessuna forza politica come un processo di ‘corruzione’ cui una parte consistente della società italiana aveva partecipato entusiasticamente. Affrontarlo in questi termini, e cioè ‘rinegoziare’ il debito con i cittadini creditori, avrebbe forse comportato il taglio di quel filo già estremamente sottile che ancora teneva insieme la società italiana. Senza dubbio, per una debole classe politica, messa sotto scacco da Tangentopoli, avrebbe significato alienarsi completamente ogni residuo sostegno, mentre per il nuovo ceto politico – o quantomeno per quella parte che si candidava a interpretare il «nuovo che avanza» - avrebbe comportato conflitti incalcolabili, che nessuno ebbe né la forza né il coraggio di affrontare. La soluzione al problema del debito fu così trovata nella costruzione di una mastodontica bugia: una bugia – grande almeno quanto il debito pubblico accumulato negli anni – raccontata dalla ‘vecchia’ classe politica e cui la ‘nuova’ (insieme d’altronde all’intera Europa) fece finta di credere. Il rimedio fu infatti di spostare il problema in avanti, e cioè di immaginare un piano di riduzione del debito pubblico legato alla progressiva diminuzione della spesa pubblica. Ma, oltre a questo impegno (che non sarebbe risultato vincolante, in assenza di accordi internazionali), si decise anche di impegnare il paese nella partita dell’unione monetaria europea: una partita che avrebbe privato in prospettiva l’Italia della possibilità di svalutare la propria moneta e che, soprattutto, l’avrebbe vincolata al rispetto di parametri destinati in teoria a rendere il paese più competitivo sul piano internazionale, e nei fatti a condannarlo a una crescente pressione fiscale. 
Ventuno anni fa, mentre si avvicinava la conclusione dell’ultima legislatura della Prima Repubblica, un editorialista del «Corriere della Sera» scriveva: «La strada da percorrere per soddisfare i ‘criteri di Maastricht’ è abbastanza chiara ed è stata illustrata in vari documenti governativi. Occorre ‘soltanto’ percorrerla davvero, nella misura e nei tempi che vengono dichiarati, senza le diluizioni e i rinvii che si sono avuti negli anni scorsi. Il compito sarebbe agevolato se un gruppo di persone dotate di qualche autorevolezza riuscisse a far capire meglio all'opinione pubblica quanto fondamentale è la posta in gioco e, contemporaneamente, stimolasse il governo a compiere tutte le necessarie azioni di sua competenza, incalzandolo di fronte a quella stessa opinione pubblica più consapevole. Quanto all'accettazione di alcune incisive misure di austerità, sono convinto che il vero ostacolo sia il surplace che blocca i diversi partiti nel timore dell'impopolarità; ma che gli italiani siano più pronti, di quanto la classe politica ritenga, ad accogliere quelle misure, se venissero presentate con chiarezza, a cittadini ‘adulti’, in una prospettiva convincente». Ma il rispetto dei criteri di Maastricht e le dolorose misure di austerità richieste ai cittadini italiani, se erano elementi indispensabili per poter essere inclusi nell’area della moneta unica, non erano certo obiettivi sufficienti all’Italia per far fronte alle sfide che negli anni seguenti sarebbero giunti da un mondo globale. Per questo l’editorialista del «Corriere» invitava a guardare anche oltre, e a riflettere sulle insidie economiche del futuro: «È però necessario guardare anche agli aspetti ‘reali’ dell'economia e spingere lo sguardo molto più in là nel tempo. Se non fosse per il progetto di Uem, che ci costringe almeno ad alzare lo sguardo agli ultimi anni di questo decennio, è oggi assente dalla politica economica italiana, ma è poco frequente anche tra i protagonisti della vita economica, la riflessione su ‘dove saremo’ tra dieci o venti anni. Scadenze vicine, se pensiamo ai tempi tecnici di grandi investimenti industriali, di infrastrutture pubbliche, del sistema scolastico o del sistema previdenziale. Quale sarà, tra dieci o venti anni, la posizione dell'Italia nella competizione industriale, dei servizi, della finanza, del turismo? Quanta delocalizzazione di attività produttive avrà luogo verso altri Paesi? Quanta parte delle attività produttive che si svolgeranno in Italia farà ancora capo ad aziende italiane? Quanta parte della popolazione attiva residente in Italia (locale o immigrata) troverà occupazione? Un nuovo governo dovrebbe, come è avvenuto in altri Paesi, incaricare una commissione, composta non solo da esperti, ma anche da esponenti di spicco delle diverse forze produttive, di esplorare questi temi, di darne consapevolezza al governo e all'opinione pubblica, di individuare gli interventi necessari» (M. Monti, Progetto Italia in tre punti, in «Corriere della Sera», 31 gennaio 1992). 
A dispetto degli auspici dell’editorialista, né la campagna elettorale del 1992, né il successivo esecutivo affrontarono questi nodi. E la stessa cosa fecero in fondo tutti i governi della Seconda Repubblica. Così, circa vent’anni dopo, nel novembre 2011, quando l’estensore di quelle righe, nominato da poche ore senatore a vita, fu investito dal Presidente della Repubblica dell’incarico di formare un governo ‘tecnico’, la situazione –apparentemente simile a quella del 1992 – era in realtà molto più grave. In questo caso, veniva effettivamente coinvolto in prima linea «un gruppo di persone dotate di qualche autorevolezza» per «far capire meglio all'opinione pubblica quanto fondamentale è la posta in gioco» e per superare «il surplace che blocca i diversi partiti nel timore dell'impopolarità». Ma il contesto era ormai ben diverso, perché il paese era ormai avvitato nella spirale del declino. Non soltanto, probabilmente, per l’incapacità del ceto politico, per la sua miopia intellettuale o per la radicata vocazione a perseguire fini privati, anche se, sotto questi profili, la nuova classe politica non si era dimostrata molto diversa superiore da quella che l’aveva preceduta. Ma anche perché l’«emergenza» del debito aveva continuato a pesare come un’incombente spada di Damocle su ogni singola decisione, su ogni prospettiva di lungo periodo, trasformando persino i rari intenti ‘riformatori’ in soluzioni punitive, che di fatto avevano ulteriormente aggravato la situazione (basti pensare, in questo senso, a tutti i progetti di adeguare il sistema di welfare alla realtà di un mutato mondo del lavoro, applicati solo nella ‘pars destruens’, ma neppure avviati sul versante della ‘pars costruens’). 
Gli esecutivi della Seconda Repubblica non possono non uscire del tutto sconfitti da un bilancio sul ventennio che abbiamo alle spalle, perché hanno mostrato tutti i limiti di una classe politica tanto inadeguata quanto spesso rapace nei propri appetiti, e capace di mettere rapidamente in piedi un formidabile sistema di potere. E questo fallimento non può che riaprire la discussione sul ‘caso italiano’, sulle profondissime radici di un sistema clientelare che attraversa l’intera storia unitaria. Ma, nel quadro di un bilancio storico, oggi è forse anche necessario riconoscere che l’intero edificio della Seconda Repubblica si poggiava – fin dall’origine – su fondamenta fragilissime. Al tramonto della Prima Repubblica, tutti vollero allora credere che davvero fosse possibile per l’Italia procedere stabilmente sulla strada dell’Europa (o, meglio, dell’Europa definita dai parametri di Maastricht) tenendo insieme il rigore e lo sviluppo, che fosse dunque possibile ridurre il peso del debito pubblico senza, al tempo stesso, perdere in termini di competitività sul piano internazionale. Forse non si trattava di una missione davvero impossibile. Per proseguire realmente su quella strada, oltre che di un contesto economico internazionale favorevole, ci sarebbe stato però bisogno, come minimo, di una classe politica straordinariamente lungimirante e dotata di un consenso eccezionale. Ma, come sappiamo bene, all’Italia dell’ultimo ventennio non è capitata in sorte una simile fortuna. E proprio per questo la grande bugia nascosta nel superficiale europeismo dei tardi anni Ottanta e dei primi anni Novanta diventa per noi ancora più dolorosa della bugia autoassolutoria che raffigurava una società onesta e moralmente retta in lotta contro un Palazzo irrimediabilmente corrotto. Schiacciata dal peso del debito pubblico, stretta nella camicia di nesso dei parametri di Maastricht (e in seguito dell’unione monetaria), alle prese con l’insidia della competizione internazionale e poi con la crisi globale, la classe politica chiamata a guidare l’Italia dopo Tangentopoli si è trovata dinanzi a un compito immane, forse impossibile da svolgere, senz’altro superiore alle sue forze. Così il lavoro svolto in un ventennio dal ceto politico italiano ci pare davvero come una sorta di «tela di Penelope», un disegno del tutto incompiuto, una trama disfatta ogni notte per essere rimaneggiata, e ogni volta abbandonata a metà. Ma quello che è per noi forse ancora più doloroso è il fatto che l’ossessivo lavoro di Penelope, nella casa infestata dai Proci, tende ormai ad apparirci sempre più vano. Per il semplice motivo che Ulisse rischia davvero di non tornare mai più.

Damiano Palano

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