lunedì 4 marzo 2013

Dove siederà Grillo? Il Movimento 5 Stelle fra sinistra e destra, nella crisi europea




di Damiano Palano

Nei prossimi giorni, quando gli eletti del Movimento 5 Stelle varcheranno la soglia del Parlamento, si inizierà a capire un po’ di più della collocazione che il nuovo soggetto politico andrà ad avere nello scacchiere politico nazionale. Se i parlamentari della lista promossa da Grillo si siederanno alla sinistra dei due emicicli di Camera e Senato, si verificherà infatti una novità significativa nella configurazione dello spazio politico-elettorale italiano, perché, in quel caso, il Partito Democratico si troverebbe alle prese, per la prima volta, con un’agguerrita e nutrita opposizione di sinistra, molto diversa dalla vecchia sinistra radicale. E questo inevitabilmente sposterebbe il baricentro del partito guidato da Bersani sempre più verso il centro. Ma anche qualora i deputati e i senatori dell’M5S decidessero di collocarsi sul versante di destra, oppure proprio in mezzo alle due principali coalizioni, si delineerebbe una situazione del tutto inedita.
Se le prossime settimane scioglieranno l’arcano, ci vorrà invece più tempo per comprendere quali conseguenze avrà davvero l’ingresso del Movimento 5 Stelle sulla tradizionale distinzione fra destra e sinistra. Rispetto a questa dicotomia, il movimento guidato da Grillo rappresenta in effetti un’anomalia difficilmente decifrabile, non solo perché si tratta di un fenomeno recente, ma per le stesse caratteristiche della sua proposta politica e della sua struttura organizzativa. D’altra parte, il M5S è anomalo rispetto ai partiti tradizionali anche per molti altri motivi. La sua simbologia è piuttosto evanescente, il nome non certo accattivante (e difficile anche da ridurre a una sigla, tanto che probabilmente la formula ‘grillino’ accompagnerà a lungo i suoi esponenti), la connotazione cromatica è sostanzialmente assente, dopo le ormai lontane esperienze del “popolo viola” (un colore che Grillo, da uomo di spettacolo, forse non ama). Ma la configurazione ideologica del M5S, e la sua collocazione rispetto alla dicotomia destra-sinistra, rimane senza alcun dubbio uno degli aspetti più enigmatici.


Negli ultimi mesi, soprattutto dopo la vittoria alle elezioni amministrative di Parma, gli studi su Grillo e il suo movimento si sono moltiplicati, e anche nelle librerie sono comparsi parecchi saggi che – in modo più o meno serio, e con accenti più o meno celebrativi (o talvolta esplicitamente ostili) – ricostruiscono la genesi di un esperimento riuscito, la personalità di un leader non privo di ambiguità, un’organizzazione segnata da forti contraddizioni. Proprio osservando alcuni di questi elementi, è forse possibile fornire una risposta provvisoria all’interrogativo sulla posizione che il M5S ha oggi – e verrà ad avere nel prossimo futuro – rispetto alla dicotomia destra-sinistra. A questo proposito, è naturalmente necessario tenere ben distinte due domande molto diverse, seppur collegate. In primo luogo, ci si deve chiedere infatti da dove vengono gli elettori del M5S, ossia da quale direzione vengono i flussi di voto che hanno premiato il partito di Grillo in termini così sbalorditivi. In secondo luogo, si deve invece cercare di comprendere quale sia la connotazione ideologica e identitaria della proposta politica che emerge da questo nuovo soggetto, perché solo in questo modo si può forse decifrare un po’ meglio la natura di quello che, agli occhi degli studiosi, appare senza alcun dubbio come una sorta di ornitorinco politico.
Nel loro recente Politica a 5 stelle. Idee, storia e strategie del movimento di Grillo (Feltrinelli, Milano, 2013), Roberto Biorcio e Paolo Natale cercano per esempio di ricostruire il profilo degli elettori che si sono rivolti alla formazione di Grillo. L’identikit che emerge è tutt’altro che uniforme, anche perché subisce ben più di qualche trasformazione dai tempi delle prime liste civiche fino alla svolta del maggio 2012 e della regionali siciliane. Fino ai primi mesi del 2012, l’elettorato ‘grillino’ era concentrato infatti nel Nord-Ovest e nelle regioni rosse (Emilia e Marche), abitava soprattutto in grandi città, spiccava per una scolarità piuttosto elevata e risultava collocato in special modo nella fascia d’età tra i 25 e i 45 anni. Dal punto di vista politico, gli elettori risultavano invece composti da “cittadini che, se proprio erano costretti a scegliere, simpatizzavano per il centrosinistra o per la sinistra più radicale”, ma anche “da oltre un quarto di cittadini che non si collocava politicamente, con una presenza residuale di elettori vicini al centro o alla destra” (p. 56). In questo senso, il profilo originario era piuttosto netto, seppur limitato a una nicchia tutto sommato residuale del mercato elettorale. “Si trattava”, scrivono Biorcio e Natale, di “elettori impegnati, con livelli, socio-culturali marcatamente superiori alla media che, avendo sperimentato una decisa disillusione nei confronti dei partiti politici, avevano optato per una forza di movimento, dove la delega era bandita a favore di una chiara responsabilizzazione individuale, senza mediazioni. Ed erano, ovviamente, innamorati della rete, da cui traevano la maggioranza delle loro informazioni e che era divenuto il luogo privilegiato per lo scambio e l’interazione sia con gli amici sia con i nemici” (p. 56). 
A partire dal maggio 2012, si registra però un cambiamento consistente, d’altronde parallelo alla svolta organizzativa che consente al M5S di diventare una forza politica nazionale. Così, l’elettorato ‘grillino’ incomincia a essere sempre più simile all’intera popolazione elettorale. La connotazione generazionale tende ad attenuarsi, la provenienza geografica diventa sempre meno significativa, il livello di scolarizzazione diminuisce lievemente. Più in particolare, Biorcio e Natale classificano dunque gli elettori del M5S in quattro categorie diverse: a) i “militanti”, stimati attorno al 25% degli attuali votanti, caratterizzati da elevata fiducia nel movimento e nel leader, senza precedenti forti affiliazioni politiche; b) i “gauchisti”, che in precedenza erano vicini ai partiti di sinistra, che vedono nell’M5S una soluzione organizzativa temporanea per rispondere all’incapacità dei partiti tradizionali di incidere, e che continuano a collocarsi a sinistra (in questo caso si tratta di un segmento pari a circa il 20% dell’elettorato grillino); c) i “razionalisti”, valutati attorno al 30% dei votanti dell’M5S, i quali considerano invece la loro scelta come un modo per condizionare il quadro politico nazionale, sebbene non mostrino particolare fiducia nel leader; d) i “menopeggio”, infine, stimati attorno al 25%, che, come i precedenti, hanno un’adesione recente, “derivata da un’alterità generalizzata contro tutto e tutti, con l’indicativa eccezione delle forze dell’ordine, polizia, carabinieri e forze armate”. 


La provenienza dall’area di sinistra dell’elettorato ‘grillino’ è piuttosto evidente soprattutto nei due gruppi dei “militanti” e dei “gauchisti”, ma la rilevanza di queste componenti si è senza dubbio indebolita nel corso dell’ultimo anno, contestualmente al crescere del bacino di potenziali votanti per le cinque stelle. Tanto che Biorcio e Natale, scrivendo proprio nelle settimane precedenti la consultazione elettorale del 24-25 febbraio, rilevano un potenziale per il M5S paragonabile a quello dei due principali partiti della ‘Seconda Repubblica’: “L’attuale composizione delle adesioni (potenziali, a livello nazionale) al movimento ci parla di una provenienza elettorale e di area politica abbastanza variegata: per circa la metà della sinistra, per un quarto dalla destra o dal centro e per il restante quarto da ex astensionisti o neoelettori. Una fascinazione così trasversale è ovviamente il viatico per ottenere un successo importante, evitando di rimanere ancorati a percentuali di adesioni inferiori alla doppia cifra, tipico delle forze politiche che non possono nutrirsi di fedeltà durature e, pertanto, vengono scelte unicamente da elettori di nicchia, all’interno della propria area politica di riferimento. La crescita del M5S giunge dunque al punto in cui la possibile adesione al movimento (il cosiddetto elettorato potenziale) supera l’importante quota di un terzo della popolazione; una numerosità di possibili adepti che, negli anni della Seconda repubblica, soltanto i due partiti maggiori (Pd e Pdl) sono riusciti a raggiungere e superare, nei loro momenti di maggiore successo” (p. 133).
Il profilo delineato da Biorcio e Natale dovrebbe essere probabilmente aggiornato dopo il risultato dei giorni scorsi, ma certo non si può dire che la loro analisi non si rispecchi fedelmente nei dati usciti dalle urne. Probabilmente, la performance del Partito Democratico – il vero sconfitto della consultazione, insieme al centro di Mario Monti e al leader di Sinistra Ecologia Libertà – può essere davvero spiegata come il risultato di una rilevante emorragia verso il M5S, anche se i flussi di cui ha beneficiato il partito di Grillo provengono anche da altre aree, compresi settori del centro-destra. D’altronde, all’origine del successo del M5S sta proprio il fatto che non è percepito né come una formazione di sinistra, né come un movimento di destra. In altri termini, nell’insieme di parole d’ordine propalate dal ‘megafono’ Beppe Grillo, ciascuno può riconoscere i messaggi che preferisce. Il settore più vicino alla sinistra (e alla sua componente radicale) può ritrovare nella rivendicazione del reddito di cittadinanza, nei programmi in senso lato ‘ecologisti’, o anche nell’ambizione di una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro una serie di punti familiari. Un elettore più vicino al centro-destra, e in particolare all’area leghista, può invece ritrovare alcuni richiami efficaci negli attacchi a Equitalia o in proposte come l’abolizione dell’Irpef, che peraltro sono comparse nella propaganda di Grillo solo negli ultimi mesi. Ma, soprattutto, può risultare sensibile – così come gli elettori scarsamente identificati (o persino tendenzialmente ‘alienati’) – al più classico ed efficace ‘tutti a casa!’, oltre che, in generale, agli attacchi contro la ‘casta’.
Non è però solo per la capacità di rivolgersi a un bacino così ampio e trasversale che il M5S è difficilmente collocabile rispetto alla dicotomia destra/sinistra. Probabilmente, infatti, questo movimento – al di là della sua più o meno effimera fortuna – è destinato a modificare radicalmente il nostro modo di intendere la distinzione fra destra e sinistra, e lo stesso contenuto di ciò che siamo abituati a conoscere come ‘destra’ e ‘sinistra’. Un primo nodo riguarda, a questo proposito, l’organizzazione interna e la paradossale convivenza di istanze di democrazia diretta con la realtà di un forte accentramento (quantomeno sotto il profilo comunicativo) e, per molti versi, di una strabiliante opacità per quanto riguarda i meccanismi decisionali del vertice. Ma, probabilmente, c’è anche un altro elemento di ambiguità che rende così enigmatico il M5S. Un elemento che deve essere ritrovato nelle proposte – o forse, più genericamente, nell’atteggiamento – di Grillo in campo economico.
Forse, anche se è molto presto per poter formulare un giudizio serio, c’è infatti qualcosa di più che un semplice motivo polemico nell’accusa di ‘populismo’ che viene indirizzata a Grillo. Naturalmente, il comico genovese può essere considerato populista perché si richiama direttamente al ‘popolo’, perché si scaglia – nel solco della migliore tradizione qualunquista – contro i professionisti della politica, o perché lancia promesse irrealizzabili, come ogni buon demagogo. Ma – l’obiezione è facile – Grillo non è certo l’unico a utilizzare questi strumenti retorici. La Seconda Repubblica ha offerto da questo punto di vista un catalogo di varianti affollato, se non proprio sterminato, e – a dire la verità – la tendenza alla demagogia, come segnalava qualcuno più o meno duemila e cinquecento anni fa, è in larga parte connaturata con la stessa dinamica della democrazia. 
Grillo e il M5S possono essere però considerati come ‘populisti’ anche in un senso diverso, che si richiama piuttosto alla tradizione dei populismi latinoamericani. Una tradizione che, a partire da Perón, riesce a unire temi tradizionalmente di sinistra (la difesa delle classi lavoratrici e l’estensione dei diritti sociali) con una marcata connotazione nazionalista. In America Latina il ‘nazionalismo’ ha naturalmente una forte impronta di contrasto all’egemonia statunitense, oltre che un risvolto economico che consiste nella nazionalizzazione di imprese cruciali, e dunque non è assimilabile alle tradizioni ‘nazionaliste’ europee, se non in casi piuttosto eccezionali. Inoltre, a partire dagli anni Quaranta del Novecento, il populismo latinoamericano ha conosciuto molte varianti, di cui il peronismo è forse la più nota e influente (oltre che estremamente mutevole), seppur non certo l’unica. Ma uno dei punti caratterizzanti di questa visione – da Perón fino a Chavez – è comunque la presenza di una connessione fra la rivendicazione dei diritti sociali delle classi subalterne e un’istanza di indipendenza economica (oltre che politica) dall’influenza delle imprese e dei governi stranieri.
Il ‘populismo’ latinoamericano è stato sempre piuttosto sospetto agli occhi della sinistra europea, non solo per i richiami di Perón al corporativismo fascista, ma soprattutto per toni talvolta troppo vicini a quelli dei regimi autoritari di destra degli anni Venti e Trenta. Queste componenti potevano essere giustificate solo all’interno di un quadro in cui la dimensione ‘nazionale’ veniva a fondersi con la lotta contro l’imperialismo americano. Ma, evidentemente, un simile schema poteva risultare valido solo nelle aree del ‘sottosviluppo’ e della ‘dipendenza’, mentre doveva apparire del tutto inadeguato – se non addirittura dannoso – nei paesi europei e delle economie avanzate, in cui il contrasto con l’influenza delle multinazionali straniere o di forze ‘imperialiste’ acquistava legittimità solo all’interno di una prospettiva internazionalista. 
Il punto è invece che nella fisionomia del M5S – per quello che si può capire dalle parole di Grillo e dalla sua ‘agenda programmatica’ in campo (un’agenda peraltro del tutto frammentaria) – pare davvero affiorare una tendenza ‘populista’ più vicina alla tradizione latinoamericana, e cioè capace di declinare alcuni temi propri della sinistra (radicale) in una chiave di nazionalismo economico. Questo nazionalismo economico non si riflette soltanto nella polemica contro le multinazionali, ma emerge soprattutto nelle tentazioni ‘protezioniste’ cui sembra alludere talvolta Grillo, oltre che nella sbandierata volontà di riconquistare la sovranità perduta in seguito all’introduzione dell’euro. 
Per la verità, la piattaforma elaborata da Grillo in vista delle elezioni non contiene indicazioni generali in materia economica, e dunque appare per molti versi improprio parlare di un programma economico per quanto attiene il M5S. I documenti che, su questo tema, sono ospitati sul blog di Grillo contemplano piuttosto solo una serie di misure che, prive di un organico collegamento, hanno più o meno dirette implicazioni economiche. Tra queste, le principali sono soprattutto la proposta di introdurre un “sussidio di disoccupazione garantito” (ribattezzato negli ultimi comizi con il termine di “reddito di cittadinanza”, col quale si intende di solito qualcosa di diverso) e la richiesta di indire un referendum sulla permanenza dell’Italia nell’euro. Una proposta, quest’ultima, che richiederebbe una modifica della Costituzione, e che peraltro non è più neppure esplicitamente accompagnata dalla volontà di Grillo e del Movimento 5 Stelle di uscire dalla moneta unica.
È piuttosto evidente che, con proposte di questo genere, il discorso di Grillo viene incontro a un sentimento diffuso e alla percezione – ormai quasi dominante – che l’introduzione della moneta unica abbia causato il declino economico dell’Italia e il crescente peggioramento delle condizioni di larghe fasce della popolazione. Per quanto una simile lettura sia del tutto parziale (perché le radici del declino affondano ben più in profondità), è piuttosto difficile contrastare l’idea che davvero l’introduzione dell’euro abbia peggiorato la situazione, se non altro perché i vantaggi che offriva la moneta unica non sono stati colti, mentre si sono dolorosamente pagati tutti gli svantaggi. Inoltre,  l’ipotesi di una revisione del quadro monetario europeo, e persino il progetto di introdurre un euro ‘a due velocità’, non possono essere considerati soltanto come provocazioni prive di fondamento, o come semplici farneticazioni demagogiche. Perché, a ben vedere, si tratta di ipotesi credibili, di cui d’altro canto si discute da due decenni, che negli ultimi due anni sono tornate al centro della discussione, e che con ogni probabilità – dato il decorso della crisi – dovranno essere riconsiderate seriamente nei prossimi anni.
Il punto non sta perciò tanto nel fatto che Grillo porti l’attenzione su questi temi. Il punto è invece che la fisionomia del M5S, la frammentarietà del suo programma economico, l’assenza di qualsiasi collegamento con altre formazioni politiche europee, oltre che la strutturale estraneità alle tradizioni ideologiche delle formazioni presenti in Europa rischiano di rafforzare proprio la componente ‘nazionalista’ del movimento ‘grillino’. In altre parole, in assenza di un progetto alternativo di unione monetaria, oltre che di una differente visione dell’Unione Europea, la protesta contro l’euro o l’ipotesi di rinegoziare il debito pubblico rischiano di trasformare la protesta del M5S sempre più in una protesta dalle connotazioni ‘nazionaliste’, in fondo non molto diversa da quella che viene portata avanti da altre formazioni neo-populiste ‘euroscettiche’ e sovraniste, che in Europa si collocano prevalentemente sul versante della destra radicale e xenofoba.
Ciò non significa naturalmente che il M5S debba diventare rapidamente xenofobo, o che debba tramutarsi in qualcosa di simile al Fronte Nazionale di Le Pen. La risposta sulla fisionomia reale del M5S la daranno infatti i prossimi mesi e i prossimi anni, e non è detto che le connotazioni ideologiche e organizzative che abbiamo conosciuto finora non debbano cambiare sensibilmente. L’aspetto che forse non dobbiamo trascurare è però che il M5S non è solo il risultato della crisi della Seconda Repubblica e un riflesso macroscopico della critica indirizzata ai partiti e al sistema partitico nel suo complesso. Più in generale, il successo del M5S è un risultato della crisi politica dell’Unione europea e delle conseguenze impreviste (ma forse prevedibili) della moneta unica. In altre parole, si tratta di un fenomeno ancora più rilevante di quanto si riconosca in questi giorni, quando ci si limita a prendere atto del grado di sfiducia dei cittadini nei confronti dei principali protagonisti della Seconda Repubblica. Il successo del partito di Grillo è infatti una conseguenza dell’incapacità di costruire forze politiche realmente ‘europee’, dell’incapacità degli attori politici (ma anche sindacali) di andare oltre i confini nazionali, ma soprattutto della totale inadeguatezza delle forze di sinistra a rispondere al mutamento reale della politica e dell’economia del Vecchio continente. In questo processo, la reazione ‘nazionalista’ e ‘sovranista’ è una conseguenza pressoché inevitabile, e in questo quadro il ‘populismo’ nella sua accezione latinoamericana – sempre così difficilmente traducibile nelle categorie politiche europee – può andare davvero a travolgere il significato più consolidato della dicotomia destra-sinistra. Per questo, non è dunque affatto da escludersi la possibilità che il M5S – a prescindere da chi lo ha votato, dal profilo identitario dei suoi militanti (e dei suoi stessi dirigenti), e dal suo stesso destino futuro – configuri solo una prima esemplificazione della fortuna che avrà nei prossimi anni un nuovo nazionalismo economico, capace di indirizzarsi contro le istituzioni dell’Ue e contro la stessa unità politico-economica del continente. E, soprattutto, non si può sottovalutare l’eventualità che l’ascesa del M5S possa diventare solo il primo segnale di una deriva nazionalista destinata a riaccendere nel Vecchio continente tensioni che solo alcuni anni fa pensavamo ormai definitivamente sopite. Ma che potrebbero porre in discussione – insieme alla moneta unica – l’intero processo di integrazione. 

Damiano Palano

Nessun commento:

Posta un commento