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giovedì 28 marzo 2013

La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi. Una raccolta di testi da "Maesltrom" disponibile in e-book




Da qualche giorno è disponibile in versione e-book La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi


Nella Dissolvenza democratica sono raccolti alcuni dei post apparsi su Maelstrom fra il 2011 e il 2012



Dall'introduzione


Per una serie di motivi piuttosto scontati, negli ultimi anni sono cresciute copiosamente le diagnosi che hanno riconosciuto nella ‘Seconda Repubblica’ i sintomi di una vera e propria «crisi della democrazia italiana». Secondo molte di queste letture, la «crisi» è determinata dalla concentrazione dei poteri nelle mani di un magnate della comunicazione, dal proliferare dei conflitti di interesse, dai ripetuti tentativi di piegare le leggi a interesse di parte, e in generale dal logoramento delle garanzie dello Stato di diritto. Per quanto tali interpretazioni mettano in luce fenomeni reali, la cui gravità non può essere sottaciuta o sottovalutata, spesso esse finiscono col cedere – forse inconsapevolmente – alla vecchia tentazione di ritrovare la spiegazione dei fallimenti del sistema politico, o dei tanti tradimenti delle solenni promesse di riforma, nel carattere ‘eccezionale’ del «caso italiano». Non è dunque affatto casuale che alcuni dei testi raccolti in questo volume si indirizzino polemicamente verso quelle interpretazioni che intravedono ancora oggi nel «caso italiano» soltanto l’ennesima ‘anomalia’, e che ritengono che la personalizzazione politica, la concentrazione di poteri o la proliferazione di retoriche demagogiche testimonino la gravità della «crisi» della democrazia del nostro paese. La critica di queste posizioni non significa però che i fenomeni deteriori segnalati in questi anni da molte voce autorevoli non siano reali, e non mettano dunque seriamente a rischio la dinamica democratica. Più semplicemente, gli appunti raccolti in questo volume cercano di mostrare come – per quanto ‘anomala’ – la vicenda italiana della ‘Seconda Repubblica’ si inscriva in una traiettoria generale che coinvolge tutte le democrazie occidentali. Una traiettoria che – sotto il manto di un’apparente continuità nelle forme istituzionali – procede in realtà a una sostanziale modificazione dei nostri sistemi politici e delle nostre società. E, soprattutto, una traiettoria che si inscrive – certo problematicamente – nel mutamento geo-politico che segna la fine dell’«era americana», nella trasformazione contemporanea del capitalismo, nella transizione verso Oriente dei nodi dell’economia globale, nello sgretolamento delle basi su cui il vecchio assetto democratico si è retto a partire dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
Il quadro che ci consegna un’analisi realistica del mutamento in atto non risulta per questo molto più rassicurante di quello che viene proposto da quanti ritrovano nell’Italia di oggi i sintomi della «crisi» della democrazia. Perché quella che tende a delinearsi nel crepuscolo della ‘Seconda Repubblica’ – in un’Unione Europea provata dalle turbolenze della crisi economica globale, dinanzi all’approssimarsi delle incognite dell’«era post-americana», nel pieno di una transizione geo-politica – sembra piuttosto avvicinarsi a una sorta di lenta, malinconica dissolvenza democratica. Una dissolvenza che forse non cancella la democrazia. Ma che ne rende sempre più evanescente l’immagine, sempre più inafferrabili gli ideali, sempre più sbiadite le promesse di eguaglianza e libertà.




è disponibile anche la versione cartacea del volume (al prezzo di 12.00 euro)


lunedì 25 marzo 2013

Le grandi bugie della Seconda Repubblica Intorno a «La tela di Penelope» di Simona Colarizi e Marco Gervasoni




di Damiano Palano

  Mentre si avvicina la fine della Seconda Repubblica, diventa possibile stilare un bilancio dell'ultimo ventennio. Un bilancio che certo non può essere positivo. E che ci spinge a chiederci se la Seconda Repubblica non si sia basata su alcuni grandi bugie. O quantomeno su alcuni enormi errori di valutazione.
Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica

Nell’aprile del 1993, proprio nei giorni in cui infuriava la bufera di Tangentopoli, Ernesto Galli della Loggia scrisse che la Seconda Repubblica stava «nascendo su una bugia», in modo non del tutto dissimile da quanto era avvenuto per la Prima: «Allora la bugia fu la supposta rivolta – morale prima, armata poi – di tutto il popolo contro il fascismo. […] Oggi la nuova bugia parla anch’essa di rivoluzione – non più antifascista ma antiburocratica – che […] vedrebbe protagonisti gli italiani per così dire rigenerati, fatti moralmente nuovi […]. Come si può credere ad una qualunque nuova sostanza morale di massa dietro la cosiddetta rivoluzione italiana quando non risulta che siano mutati di un ette i comportamenti ‘morali’ e ‘immorali’ di massa degli italiani?». Dalla lettura di Galli della Loggia trapelava ben più che un’ombra di pessimismo, e anche per questo risultava stridente il contrasto con gli umori dominanti, che dipingevano invece l’offensiva giudiziaria contro la classe politica del vecchio «pentapartito» come una sorta di liberazione dal giogo sopportato per tanti anni. Proprio quel pessimismo coglieva però la dimensione più oscura che si celava dietro il mito «società civile», dietro le entusiastiche celebrazioni della «gente», dietro la raffigurazione di una piazza onesta in rivolta contro la corruzione del «Palazzo». E non soltanto perché alle spalle di quelle immagini si nascondeva una grande operazione autoassolutoria. Ma soprattutto perché grazie all’illusorio rituale di quella specie di ‘nuova Resistenza’ si evitava di riconoscere il serrato legame che stringeva la società italiana (o quantomeno una sua parte significativa) al sistema politico, tanto da dimenticare persino come il benessere dei tanto celebrati (e denigrati) anni Ottanta fosse intrecciato a doppio filo con tutti i problemi che il paese si sarebbe trascinato per due decenni. 
Oggi la pesante eredità che la Prima Repubblica ha consegnato alla Seconda inizia invece a diventare sempre più chiara, e in effetti diverse ricostruzioni si spingono a rintracciare proprio negli anni Ottanta le radici più profonde del clamoroso tradimento delle speranze di rigenerazione coltivate al principio degli anni Novanta. Un contributo importante al dibattito viene in questo senso anche dal volume di Simona Colarizi e Marco Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica. 1989-2011 (Laterza, pp. 276, euro 18.00), un testo che naturalmente, pur volgendosi all’indietro, non può evitare di guardare al presente e, in special modo, al futuro di una transizione ancora indecifrabile. La tesi interpretativa dei due storici – non certo teneri nei confronti della classe politica dell’ultimo ventennio – si trova per molti versi esplicitata già nel titolo del lavoro. In primo luogo, la «tela di Penelope» evocata da Colarizi e Gervasoni – e richiamata dal verso dell’Odissea collocato in epigrafe («di giorno la gran tela tesseva / e la sfaceva di notte con le fiaccole accanto») – allude infatti all’impotenza della politica, del tutto incapace di costruire soluzioni alle necessità del paese e di mantenere le grandi promesse di riforma. In secondo luogo, il perimetro temporale, entro cui i due autori circoscrivono l’analisi, esplicita la convinzione che a segnare l’intera vicenda della Seconda Repubblica siano due eventi internazionali: il crollo dei regimi socialisti e il vertice europeo di Maastricht. Proprio questi due eventi – pur precedendo l’avvio del nuovo ciclo della politica italiana – sono infatti destinati a pesare a lungo. Per un verso, il crollo del Muro berlinese mette a dura prova l’identità del Pci, posto dinanzi al fallimento di un’esperienza a lungo considerata come un riferimento importante (se non proprio come un modello o una guida). Per l’altro, la fine della Guerra fredda priva anche la Democrazia cristiana del ruolo di baluardo anticomunista, sotto il quale è rimasta per decenni occultata la degenerazione del partito. Mentre entrambi i pilastri della Prima Repubblica risultano per questo colpiti nelle fondamenta, le tendenze alla disgregazione del sistema partitico possono finalmente svilupparsi compiutamente, conducendo rapidamente al tracollo – con il supporto dell’azione giudiziaria – un sistema di potere. Ma anche il secondo evento ricordato da Colarizi e Gervasoni – l’incontro di Maastricht – gioca un ruolo tutt’altro marginale. Negli ultimi anni della Prima Repubblica, la classe politica sposa infatti con un incondizionato entusiasmo europeista la prospettiva che condurrà all’unione monetaria, sebbene sia assai meno disposta a compiere i passi necessari per procedere realmente su questo terreno. «A parole», scrivono d’altronde i due storici, «tutti i partiti si proclamavano decisi a compiere i passi necessari, tutti sbandieravano la loro fedeltà ai principi comunitari», ma «nei fatti tutti esitavano con cura di attuare gli indirizzi della comunità europea che avrebbero comportato una brusca frenata alla spesa pubblica e al welfare su cui si poggiava l’edificio già traballante dei consensi ai governanti» (p. 17). L’ambivalenza fra un esibito europeismo e la resistenza a mettere in pratica le indicazioni dell’Ue segnerà il ventennio seguente. E, per molti versi, spingerà il paese verso un vicolo cieco.

Nella loro ricostruzione, Colarizi e Gervasoni ripercorrono naturalmente la deflagrazione di Tangentopoli, la marcia verso le elezioni del 1994, la ‘discesa in campo’ di Silvio Berlusconi, la nascita di Forza Italia, e la vittoria dei due poli che nella figura del magnate della comunicazione trovarono l’elemento di temporanea aggregazione. E, in seguito, si volgono all’altra ‘discesa in campo’ di Prodi, alle lacerazioni interne del Pds, all’eterogeneità politico-culturale dell’Ulivo, ai rapporti contrastati con Rifondazione comunista. La frammentazione della coalizione guidata da Prodi ebbe come più evidente conseguenza l’instabilità governativa, destinata a segnare l’intera legislatura iniziata nel 2006. Ciò nondimeno, proprio gli anni del primo governo Prodi furono probabilmente quelli che indirizzarono l’Italia sul binario che avrebbe percorso nel corso della Seconda Repubblica. La decisione europea di giungere a un’unione monetaria ampia (comprendente anche Italia e Spagna), la crescita economica favorita dalla parabola della new economy statunitense, le pressioni sulla riduzione del debito pubblico, le prime misure volte a flessibilizzare il mercato del lavoro per favorire l’occupazione giovanile, definirono infatti un quadro da cui l’Italia non sarebbe più uscita. Come scrivono da questo punto di vista Colarizi e Gervasoni: «la nazione rinunciava a una parte rilevante della propria sovranità senza avere però una classe dirigente in grado di assicurare ai suoi cittadini i vantaggi che derivavano dall’appartenenza a una grande comunità sovranazionale, l’area economica più ricca del mondo. Il sistema politico, rimasto instabile dopo la caduta della Prima Repubblica, sembrava condannare l’Italia a una progressiva marginalizzazione sul terreno delle decisioni che gli Stati dell’Unione Europea assumevano e avrebbero assunto in questa fase di vera e propria riorganizzazione del mondo. E il paese declinava sotto ogni profilo, economico, sociale, culturale, più accentuato si faceva i ripiegamento su se stesse delle forze politiche chiuse nei palazzi di un potere ormai ridotto e assorbite da lotte interne che le allontanavano progressivamente dall’Europa e dalla stessa società italiana» (pp. 86-87).
In effetti, benché oscurata dall’obiettivo centrato dell’ingresso nell’unione monetaria, la realtà del declino economico e politico del Paese si sarebbe progressivamente imposta, senza che nessuno dei governi succedutisi negli anni fosse minimamente in grado di alterare la sostanza di un processo all’apparenza ineluttabile. Un processo comunque assecondato dallo scenario di ingovernabilità di cui Colarizi e Gervasoni seguono le sequenze principali, dalla caduta del governo Prodi, alle parentesi degli esecutivi presieduti da Massimo D’Alema e Giuliano Amato, fino al ritorno a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi, destinato a segnare buona parte del primo decennio del XXI secolo. E, ovviamente, un processo che conduce fino ai nostri giorni, o, meglio, fino al novembre del 2011, con le dimissioni di Berlusconi e l’assegnazione al neo-senatore Mario Monti dell’incarico di formare un nuovo governo. «Se fosse la fine della Seconda Repubblica» - scrivono Colarizi e Gervasoni proprio al termine della loro ricostruzione - «resta ancora impossibile dirlo, certo calava il sipario su una stagione: That’s all, folks, intitolava ‘The Economist’ l’11 novembre 2011» (p. 232).
Se rimane ancora difficile dire se la Seconda Repubblica sia davvero giunta al capolinea, o sia destinata a trascinarsi ancora a lungo, in sede di bilancio storiografico diventa oggi fondamentale interrogarsi sui motivi che hanno determinato il fallimento delle grandi speranze nutrite negli anni Novanta. Colarizi e Gervasoni non evitano certo di affrontare questo nodo, e non esitano a riconoscere l’incapacità del sistema politico di rispondere alle sfide poste dal quadro emerso dopo la fine della Guerra fredda. In altre parole, gli attori politici sono rimasti «paralizzati» di fronte alla «società liquida» del XXI secolo, e così i grandi problemi posti dalla transizione globale – problemi analoghi a quelli cui si sono trovati dinanzi anche gli altri paesi europei – non hanno trovato alcuna risposta. «Nel centrodestra come nel centrosinistra la frammentazione interna a entrambe le coalizioni, mera somma di spezzoni di partiti ereditati dalla Prima Repubblica, è sfociata in una conflittualità permanente e paralizzante: lo scenario meno adatto a gestire un’Italia già nel 1994 in affanno sul piano delle risorse economiche, sociali e culturali» (p. X). La tela di Penelope per Colarizi e Gervasoni diventa allora il simbolo di una politica inconsistente, del tutto incapace di tessere una trama di trasformazione, e destinata ogni volta ad abbandonare i grandi disegni di riforma. «Esecutivo dopo esecutivo» - scrivono i due storici - «si è andata tessendo una tela rimasta ogni volta incompiuta, quasi a richiamare l’opera ingannevole di Penelope. Ma restare sempre fermi significa declinare irrimediabilmente, un declino che i partiti della Seconda Repubblica non sono riusciti ad arrestare, malgrado l’ingresso nell’euro e qualche breve parentesi di ripresa, soffocata dalle convulsioni economiche internazionali sommate all’impotenza dei governi» (p. X).
La lettura di Colarizi e Gervasoni è senza dubbio condivisibile quando sottolinea l’insufficienza della classe politica della Seconda Repubblica e gli effetti deleteri di un bipolarismo tanto connotato sul piano emotivo, quanto distruttivo e privo di reali basi ideologiche. Se tutti questi limiti sono talmente evidenti da non richiedere neppure l’onere della dimostrazione, è però necessario anche non perdere di vista il quadro in cui la Seconda Repubblica nasce, e in cui il bipolarismo esasperato e sterile dell’ultimo ventennio viene a collocarsi. Perché, forse, il declino che l’Italia sta sperimentando – e che non dipende solo dalla crisi globale – rappresenta soprattutto un frutto avvelenato del crepuscolo della Prima Repubblica. Anche Colarizi e Gervasoni ricordano d’altronde che, al principio degli anni Novanta, mentre la crisi politica si andava combinando con la crisi economica, la classe dirigente della Prima Repubblica divenne un facile bersaglio su cui scaricare le responsabilità di una ‘corruzione’ ben più diffusa: «Pochi cercavano di spiegare che il paese aveva in realtà vissuto per un decennio al di sopra delle sue effettive possibilità; assai più facile era trovare un capro espiatorio nei partiti che avevano rubato» (p. 29). Riconoscere che il paese aveva vissuto «al di sopra delle sue effettive possibilità» non significa però semplicemente ammettere che le complicità con il sistema partitocratico erano estremamente diffuse, o che le rendite clientelari avevano finito col fornire benefici a una fetta rilevante della società italiana. Significa soprattutto riconoscere che la ricchezza degli anni Ottanta era – in misura significativa – il risultato di quel formidabile meccanismo di appropriazione privata delle risorse pubbliche che raddoppiò il debito pubblico italiano nell’arco di un decennio. Un meccanismo che ebbe senza dubbio effetti benefici, perché consentì di uscire dalla crisi degli anni Settanta e perché consegnò al paese un nuovo effimero boom, una strabiliante crescita economica, nuovi modelli di consumo e un benessere di massa. Ma che, sul medio periodo, pose sull’intera società italiana un’ipoteca destinata a rivelarsi negli anni addirittura drammatica.
Naturalmente la crescita del debito pubblico italiano non ha una sola causa. Le sue origini vanno ricercate nelle politiche dei governi di centro-sinistra degli anni Sessanta, nelle pressioni conflittuali degli anni Settanta, nei ritardi di un sistema fiscale a lungo inadeguato, oltre che naturalmente nell’uso per fini clientelari della spesa pubblica e nelle distorsioni dovute alla vera e propria corruzione. Ma l’esplosione del debito pubblico non avviene né in una fase di ricostruzione economica, né in una stagione di marcata conflittualità sociale, e neppure in presenza di una crisi economica internazionale. L’esplosione del debito avviene piuttosto in coincidenza con il decennio ricordato per i successi del made in Italy nel mondo, per la straordinaria ‘modernizzazione’ della società italiana, per l’euforia che contagiò un intero paese e che lo trascinò ai vertici del mondo, un po’ come aveva fatto la nazionale di Bearzot ai mondiali spagnoli del 1982. Effettivamente quel periodo fu segnato da un entusiasmo contagioso, e non è dunque sorprendente che oggi, in una stagione segnata dalla disillusione, dal pessimismo, forse anche dall’angoscia, si tenda a guardare nostalgicamente all’effervescenza di quegli anni. Lo stesso Gervasoni ne ha ricostruito bene il clima emotivo nel suo Storia d’Italia degli anni Ottanta, Marsilio, Venezia, 2010), difendendone la memoria contro quanti hanno invece ritrovato in quel decennio le radici culturali del «berlusconismo». E una esemplificazione quasi paradigmatica della celebrazione postuma degli anni Ottanta è giunta da Andrea Romano, che, proprio commentando il libro di Gervasoni, ha osservato che le immagini degli anni Ottanta, immagini che ancora oggi continuano a popolare l’Italia, «non sono solo quelle della televisione commerciale o della personalizzazione della politica, come vuole la convenzione più diffusa, ma anche quelle di un vitalismo di massa che oggi si è corrotto in indignazione tribale e di una rivendicazione dei poteri dell’individuo che si è rovesciata nel particolarismo e nella fuga dalla responsabilità». Perché, agli occhi di Romano (come in parte nella lettura di Gervasoni), «gli anni Ottanta sono stati l’ultimo decennio in cui l’Italia si è immaginata all’avanguardia della modernità occidentale, prima di avviarsi su un piano inclinato di percezioni sempre più cupe dal quale non sembra capace di uscire» (A. Romano, Gli anni Ottanta delle meraviglie, in «Sole 24 Ore – Domenica», 3 ottobre 2010, p. 27). Effettivamente fu proprio così, e davvero si può riconoscere – con Gervasoni e Romano – che quel decennio completò la ‘modernizzazione’ italiana. Ma il punto è che molto del benessere degli anni Ottanta era ‘drogato’ dai rendimenti stellari dei titoli di Stato: rendimenti che – in modo del tutto trasversale rispetto alle consolidate fratture del paese, oltre che alla stessa divaricazione fra lavoratori e datori di lavoro – consentirono a piccoli risparmiatori, a lavoratori dipendenti, a pensionati, ma anche a grandi e medie aziende, di trovare finalmente nelle casse dello Stato una vera e propria gallina dalle uova d’oro, con cui sostenere la dilatazione di nuovi consumi o con cui rifinanziarsi dopo le difficoltà degli anni Settanta. Con tutte le inevitabili conseguenze sulle dimensioni del debito, che in effetti, nel periodo compreso fra 1979 e i primi anni Novanta, salì dal 57,7% fino al 125% del Pil.
In sede retrospettiva, è legittimo interpretare questa forma di erogazione di rendite come una sorta di compensazione con cui la classe politica della Prima Repubblica intendeva assicurarsi il consenso di elettori sempre più diffidenti e tendenzialmente ostili, e non è probabilmente fortuito che il ‘contratto’ fra governanti e governati vada in crisi proprio nel momento in cui – nella prospettiva di Maastricht e dell’unione monetaria – i nodi di un debito ormai mastodontico vengono al pettine. Ma, forse, è ancora più importante tornare a puntare lo sguardo su quanto avvenne nel breve arco temporale compreso fra il 1989 e il 1993. Proprio in quegli anni, in cui si consuma l’ultima stagione di una classe politica ormai avviata verso il tramonto, prese forma un’altra delle grandi bugie su cui nacque la Seconda Repubblica. Una classe politica ormai sempre più delegittimata – che in parte forse già sospettava il cataclisma che la attendeva, o che invece fu del tutto inconsapevole del peso delle proprie scelte – strinse infatti l’Italia nei vincoli fissati nel Trattato di Maastricht: vincoli che, come abbiamo scoperto in un ventennio, erano destinati a rendere quasi inevitabile il declino del paese. Per comprensibili motivi, il problema del debito accumulato negli anni Ottanta non venne allora affrontato come un problema effettivamente politico, come uno dei lasciti della Prima Repubblica, e non fu considerato da nessuna forza politica come un processo di ‘corruzione’ cui una parte consistente della società italiana aveva partecipato entusiasticamente. Affrontarlo in questi termini, e cioè ‘rinegoziare’ il debito con i cittadini creditori, avrebbe forse comportato il taglio di quel filo già estremamente sottile che ancora teneva insieme la società italiana. Senza dubbio, per una debole classe politica, messa sotto scacco da Tangentopoli, avrebbe significato alienarsi completamente ogni residuo sostegno, mentre per il nuovo ceto politico – o quantomeno per quella parte che si candidava a interpretare il «nuovo che avanza» - avrebbe comportato conflitti incalcolabili, che nessuno ebbe né la forza né il coraggio di affrontare. La soluzione al problema del debito fu così trovata nella costruzione di una mastodontica bugia: una bugia – grande almeno quanto il debito pubblico accumulato negli anni – raccontata dalla ‘vecchia’ classe politica e cui la ‘nuova’ (insieme d’altronde all’intera Europa) fece finta di credere. Il rimedio fu infatti di spostare il problema in avanti, e cioè di immaginare un piano di riduzione del debito pubblico legato alla progressiva diminuzione della spesa pubblica. Ma, oltre a questo impegno (che non sarebbe risultato vincolante, in assenza di accordi internazionali), si decise anche di impegnare il paese nella partita dell’unione monetaria europea: una partita che avrebbe privato in prospettiva l’Italia della possibilità di svalutare la propria moneta e che, soprattutto, l’avrebbe vincolata al rispetto di parametri destinati in teoria a rendere il paese più competitivo sul piano internazionale, e nei fatti a condannarlo a una crescente pressione fiscale. 
Ventuno anni fa, mentre si avvicinava la conclusione dell’ultima legislatura della Prima Repubblica, un editorialista del «Corriere della Sera» scriveva: «La strada da percorrere per soddisfare i ‘criteri di Maastricht’ è abbastanza chiara ed è stata illustrata in vari documenti governativi. Occorre ‘soltanto’ percorrerla davvero, nella misura e nei tempi che vengono dichiarati, senza le diluizioni e i rinvii che si sono avuti negli anni scorsi. Il compito sarebbe agevolato se un gruppo di persone dotate di qualche autorevolezza riuscisse a far capire meglio all'opinione pubblica quanto fondamentale è la posta in gioco e, contemporaneamente, stimolasse il governo a compiere tutte le necessarie azioni di sua competenza, incalzandolo di fronte a quella stessa opinione pubblica più consapevole. Quanto all'accettazione di alcune incisive misure di austerità, sono convinto che il vero ostacolo sia il surplace che blocca i diversi partiti nel timore dell'impopolarità; ma che gli italiani siano più pronti, di quanto la classe politica ritenga, ad accogliere quelle misure, se venissero presentate con chiarezza, a cittadini ‘adulti’, in una prospettiva convincente». Ma il rispetto dei criteri di Maastricht e le dolorose misure di austerità richieste ai cittadini italiani, se erano elementi indispensabili per poter essere inclusi nell’area della moneta unica, non erano certo obiettivi sufficienti all’Italia per far fronte alle sfide che negli anni seguenti sarebbero giunti da un mondo globale. Per questo l’editorialista del «Corriere» invitava a guardare anche oltre, e a riflettere sulle insidie economiche del futuro: «È però necessario guardare anche agli aspetti ‘reali’ dell'economia e spingere lo sguardo molto più in là nel tempo. Se non fosse per il progetto di Uem, che ci costringe almeno ad alzare lo sguardo agli ultimi anni di questo decennio, è oggi assente dalla politica economica italiana, ma è poco frequente anche tra i protagonisti della vita economica, la riflessione su ‘dove saremo’ tra dieci o venti anni. Scadenze vicine, se pensiamo ai tempi tecnici di grandi investimenti industriali, di infrastrutture pubbliche, del sistema scolastico o del sistema previdenziale. Quale sarà, tra dieci o venti anni, la posizione dell'Italia nella competizione industriale, dei servizi, della finanza, del turismo? Quanta delocalizzazione di attività produttive avrà luogo verso altri Paesi? Quanta parte delle attività produttive che si svolgeranno in Italia farà ancora capo ad aziende italiane? Quanta parte della popolazione attiva residente in Italia (locale o immigrata) troverà occupazione? Un nuovo governo dovrebbe, come è avvenuto in altri Paesi, incaricare una commissione, composta non solo da esperti, ma anche da esponenti di spicco delle diverse forze produttive, di esplorare questi temi, di darne consapevolezza al governo e all'opinione pubblica, di individuare gli interventi necessari» (M. Monti, Progetto Italia in tre punti, in «Corriere della Sera», 31 gennaio 1992). 
A dispetto degli auspici dell’editorialista, né la campagna elettorale del 1992, né il successivo esecutivo affrontarono questi nodi. E la stessa cosa fecero in fondo tutti i governi della Seconda Repubblica. Così, circa vent’anni dopo, nel novembre 2011, quando l’estensore di quelle righe, nominato da poche ore senatore a vita, fu investito dal Presidente della Repubblica dell’incarico di formare un governo ‘tecnico’, la situazione –apparentemente simile a quella del 1992 – era in realtà molto più grave. In questo caso, veniva effettivamente coinvolto in prima linea «un gruppo di persone dotate di qualche autorevolezza» per «far capire meglio all'opinione pubblica quanto fondamentale è la posta in gioco» e per superare «il surplace che blocca i diversi partiti nel timore dell'impopolarità». Ma il contesto era ormai ben diverso, perché il paese era ormai avvitato nella spirale del declino. Non soltanto, probabilmente, per l’incapacità del ceto politico, per la sua miopia intellettuale o per la radicata vocazione a perseguire fini privati, anche se, sotto questi profili, la nuova classe politica non si era dimostrata molto diversa superiore da quella che l’aveva preceduta. Ma anche perché l’«emergenza» del debito aveva continuato a pesare come un’incombente spada di Damocle su ogni singola decisione, su ogni prospettiva di lungo periodo, trasformando persino i rari intenti ‘riformatori’ in soluzioni punitive, che di fatto avevano ulteriormente aggravato la situazione (basti pensare, in questo senso, a tutti i progetti di adeguare il sistema di welfare alla realtà di un mutato mondo del lavoro, applicati solo nella ‘pars destruens’, ma neppure avviati sul versante della ‘pars costruens’). 
Gli esecutivi della Seconda Repubblica non possono non uscire del tutto sconfitti da un bilancio sul ventennio che abbiamo alle spalle, perché hanno mostrato tutti i limiti di una classe politica tanto inadeguata quanto spesso rapace nei propri appetiti, e capace di mettere rapidamente in piedi un formidabile sistema di potere. E questo fallimento non può che riaprire la discussione sul ‘caso italiano’, sulle profondissime radici di un sistema clientelare che attraversa l’intera storia unitaria. Ma, nel quadro di un bilancio storico, oggi è forse anche necessario riconoscere che l’intero edificio della Seconda Repubblica si poggiava – fin dall’origine – su fondamenta fragilissime. Al tramonto della Prima Repubblica, tutti vollero allora credere che davvero fosse possibile per l’Italia procedere stabilmente sulla strada dell’Europa (o, meglio, dell’Europa definita dai parametri di Maastricht) tenendo insieme il rigore e lo sviluppo, che fosse dunque possibile ridurre il peso del debito pubblico senza, al tempo stesso, perdere in termini di competitività sul piano internazionale. Forse non si trattava di una missione davvero impossibile. Per proseguire realmente su quella strada, oltre che di un contesto economico internazionale favorevole, ci sarebbe stato però bisogno, come minimo, di una classe politica straordinariamente lungimirante e dotata di un consenso eccezionale. Ma, come sappiamo bene, all’Italia dell’ultimo ventennio non è capitata in sorte una simile fortuna. E proprio per questo la grande bugia nascosta nel superficiale europeismo dei tardi anni Ottanta e dei primi anni Novanta diventa per noi ancora più dolorosa della bugia autoassolutoria che raffigurava una società onesta e moralmente retta in lotta contro un Palazzo irrimediabilmente corrotto. Schiacciata dal peso del debito pubblico, stretta nella camicia di nesso dei parametri di Maastricht (e in seguito dell’unione monetaria), alle prese con l’insidia della competizione internazionale e poi con la crisi globale, la classe politica chiamata a guidare l’Italia dopo Tangentopoli si è trovata dinanzi a un compito immane, forse impossibile da svolgere, senz’altro superiore alle sue forze. Così il lavoro svolto in un ventennio dal ceto politico italiano ci pare davvero come una sorta di «tela di Penelope», un disegno del tutto incompiuto, una trama disfatta ogni notte per essere rimaneggiata, e ogni volta abbandonata a metà. Ma quello che è per noi forse ancora più doloroso è il fatto che l’ossessivo lavoro di Penelope, nella casa infestata dai Proci, tende ormai ad apparirci sempre più vano. Per il semplice motivo che Ulisse rischia davvero di non tornare mai più.

Damiano Palano

domenica 24 marzo 2013

"Relazioni internazionali". Un volume curato da Emidio Diodato per ripensare gli studi internazionali

Esce in questi giorni Relazioni internazionali
Dalle tradizioni alle sfide (Carocci, pp. 360, euro 29.00), curato da Emidio Diodato. Un testo che non è solo un manuale, ma anche un contributo per ripensare gli studi internazionali, il loro metodo, le tradizioni di ricerca.
 
 

Le Relazioni internazionali sono spesso considerate un ambito disciplinare “nord-americano”. In quanto tali, appaiono troppo legate ai problemi di politica estera degli Stati Uniti, quindi incapaci di misurarsi con la complessità del sistema post-Guerra fredda. Muovendo dalla consapevolezza di questo limite, il libro suggerisce comunque di ripartire da una visione classica della disciplina per affrontare le sfide del presente. La scommessa degli autori è che nei dibattiti tradizionali si possano tuttora trovare interpretazioni utili a decifrare la politica internazionale, purché si superi una visione lineare dei processi storici e si favorisca una fusione degli elementi formalizzati nella storia della disciplina. Le principali questioni su cui il libro si sofferma sono la crisi economica, i problemi dell’insicurezza globale, il ruolo internazionale dell’Unione Europea.


Dall'Indice

Premessa

Parte prima - Le tradizioni

1. Le relazioni internazionali: logica, metodo e livelli di analisi di Emidio Diodato
Introduzione/L’affermazione della tradizione realista (1954-79)/L’evoluzione del paradigma liberale (1974-91)/Verso il rinnovamento degli approcci (1992-oggi)/Conclusioni/Riferimenti bibliografici

2. La tradizione realista. Anarchia e asimmetria nel sistema politico internazionale di Valter Coralluzzo
Introduzione/I concetti/Le teorie/Una perdurante vitalità del realismo?/
Riferimenti bibliografici

3. La tradizione liberale. I diversi sentieri di un paradigma pluralista di Sonia Lucarelli
Introduzione/I concetti/Le teorie/Le relazioni internazionali alla prova della politica internazionale: il liberalismo dopo la fine della Guerra fredda/
Riferimenti bibliografici

4. La tradizione critica. Le logiche della politica internazionale nelle teorie marxiste di Damiano Palano
Introduzione/Marx e le teorie dell’imperialismo/Il capitale monopolistico e la teoria della dipendenza/La teoria del sistema-mondo/L’età dell’impero/Conclusioni/Riferimenti bibliografici

Parte seconda - Le sfide

5. Il costruttivismo. La rivalutazione delle idee nelle relazioni internazionali di Carla Monteleone
Introduzione/Radici intellettuali ed evoluzione del costruttivismo/Elementi caratterizzanti comuni e valore aggiunto del costruttivismo/Contributi e ricerche/Successi e sfide per il costruttivismo/Riferimenti bibliografici

6. Il postmodernismo e le relazioni internazionali di Rodolfo Ragionieri
Introduzione/Le fonti intellettuali del postmoderno/Per una rilettura del realismo/Liberalismo e differenza/Conclusioni/Riferimenti bibliografici

7. International Political Economy: Stati, mercati e potenze emergenti nell’età della globalizzazione di Francesco Niccolò Moro
Introduzione/Origine dell’ipe /Le tre tradizioni/IPE e dibattito sulla globalizzazione/Equilibri e squilibri globali: egemonia americana,
potenze emergenti, crisi finanziaria e IPE/Conclusioni/Riferimenti bibliografici

8. Gli studi strategici dalla Guerra fredda all’invasione dell’Iraq di Marco Valigi
Introduzione/Le origini degli studi strategici/L’era bipolare/Il postbipolarismo/Conclusioni/Riferimenti bibliografici

9. La politica estera dell’Unione Europea: quale integrazione? di Elena Baracani
Introduzione/Quale evoluzione e quali tensioni?/Quale funzionamento?/Quali priorità geografiche?/Conclusioni/Riferimenti bibliografici

mercoledì 20 marzo 2013

Il paradosso di Grillo. Se la democrazia senza partiti ha bisogno del partito


 
di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica

Gli attacchi che Beppe Grillo rivolge al sistema dei partiti non sono certo una novità dell’ultima campagna elettorale. Per la verità, già nel primo appuntamento pubblico di quello che poi sarebbe diventato il Movimento 5 Stelle, il “V-day” bolognese del settembre 2007, Grillo – con il garbo che da allora in avanti avrebbe contrassegnato la sua retorica – dichiarò che i partiti erano “morti”. E nel corso di circa sei anni ha avuto modo di illustrare con una certa dovizia di particolari cosa intendesse. Per Grillo non si tratta infatti di sostituire i partiti presenti oggi in Parlamento, giudicati responsabili di un fallimento politico. Più radicalmente, si tratta di abbandonare del tutto la forma-partito, che, ai suoi occhi, risulta peraltro condannata dalla stessa trasformazione tecnologica. In Siamo in guerra, scritto a quattro mani con Roberto Casaleggio, afferma per esempio che la Rete determinerà la scomparsa di tutte le forme tradizionali di comunicazione, e che «svanirà gran parte delle strutture gerarchiche che regolano i vari aspetti della società e dell’economia», tra cui naturalmente anche i partiti, i quali «saranno sostituiti dai movimenti» (B. Grillo – G. Casaleggio, Siamo in guerra. La rete contro i partiti, Chiarelettere, Roma, 2011, p. 7). E più di recente, nel dialogo con Dario Fo uscito a pochi giorni dalla scadenza elettorale, torna a dichiarare, dissolvendo ogni margine di dubbio: «Noi vorremmo che i partiti scomparissero radicalmente» (Il grillo canta sempre al tramonto, Chiarelettere, Roma, 2013, p. 79).
Sebbene l’efficacia retorica di questa critica non possa sfuggire a nessuno (e diventi tanto più seducente, quanto più il potere sovrano viene percepito come distante dalla volontà popolare), è piuttosto evidente anche il paradosso in cui ogni discorso ‘antipartitico’ è destinato a imbattersi. Una testimonianza quasi paradigmatica di un simile paradosso è offerta in questi giorni scorsi dalla polemica innescata da Grillo a proposito della necessità del mandato imperativo. Attaccando nel suo blog il divieto di mandato imperativo, enunciato solennemente nella Carta costituzionale italiana, e richiedendo in seguito le dimissioni di quei senatori che hanno ‘tradito’ le direttive del gruppo, il comico ha infatti rivisitato – più o meno consapevolmente – un motivo classico del pensiero anti-partitico, ma ne ha anche portato alla luce una delle più laceranti contraddizioni.
 

Fino a buona parte dell’Ottocento, una forte avversione al riconoscimento della legittimità dei partiti proviene infatti dalla convinzione che il politico di valore non possa essere imbrigliato da alcuna ‘caserma intellettuale’, e che solo i mediocri possano accettare di sottostare alla disciplina dei partiti. L’idea che il deputato debba utilizzare tutte le proprie qualità migliori nel corso del dibattito parlamentare permea d’altronde la concezione classica della rappresentanza. Una concezione in virtù della quale il corpo elettorale non deve inviare nelle assemblee legislative i propri ‘delegati’, ma deve scegliere i ‘migliori’, i quali – senza alcun vincolo di mandato, e dunque senza tener conto degli interessi ‘particolari’ di coloro che li hanno effettivamente eletti – si adopereranno con tutte le loro forze per perseguire l’interesse dell’intera nazione. Sebbene siano spesso formazioni piuttosto fluttuanti e del tutto prive di rilevante radicamento territoriale, i partiti esistono già anche nei parlamenti ottocenteschi, quantomeno perché si delineano stabili connessioni – più o meno ‘onorevoli’ – tra i rappresentanti. E proprio dinanzi a questa realtà, sempre più difficilmente negabile, inizia a prendere forma – ma in modo molto accidentato – la problematica legittimazione del ruolo dei partiti. Al principio del XX secolo compaiono però prepotentemente sulla scena i nuovi partiti di massa. E la situazione non può che mutare completamente, perché inizia a emergere un altro tipo di vincolo, che limita fortemente l’effettiva libertà del parlamentare e che configura, secondo alcuni, una nuova forma di mandato imperativo. Non un mandato che vincola il rappresentante al mandato del collegio di provenienza o dei grandi sostenitori che hanno contribuito alla sua elezione, ma un mandato che vincola il parlamentare al partito: ossia, a quell’organizzazione che, di fatto, ha conquistato il monopolio del rapporto con i cittadini, e che può dunque decidere chi è realmente meritevole di essere eletto. In altre parole, si passa dal rapporto diretto fra elettori e deputato, a un rapporto pressoché esclusivo fra elettori e partito, col risultato che il cittadino non sceglie effettivamente i propri rappresentanti, ma solo il partito, l’ideologia di cui si fa portatore, il simbolo che incarna. Proprio al partito viene dunque interamente delegato il compito di scegliere coloro che rappresenteranno la nazione nelle aule parlamentati. E, probabilmente, il partito non sceglierà davvero i ‘migliori’, ma solo i più fedeli, coloro che offrono maggiori garanzie di obbedienza alla leadership.
Cogliendo le implicazioni di questa trasformazione, Giuseppe Maranini, già nei primissimi anni della Repubblica, iniziò a mettere polemicamente in luce come il ruolo centrale assunto dai partiti di massa andasse a sovvertire la logica della rappresentanza politica. In altre parole, come scriveva, i partiti erano ormai diventati padroni di decidere chi poteva andare a occupare gli scranni parlamentari, e questo faceva sì che il rappresentato fosse di fatto dipendente dai vertici dei partiti: “Esistono ormai solo i gruppi, col mandato imperativo delle direzioni dei partiti. La rappresentanza di interessi si sostituisce alla cosiddetta rappresentanza politica e cioè alla sintesi politica. E nella forma peggiore: non le oneste rappresentanze di interessi di categoria, interessi chiaramente dichiarati e tuttavia subordinati allo stato; ma equivoche rappresentanze di interessi non identificati, camuffate di maschere ideologiche, e padrone dello stato” (G. Maranini, Miti e realtà della democrazia, Comunità, Milano, 1958, p. 121).
La polemica di Maranini era ispirata da una visione probabilmente un po’ romantica della stagione liberale della rappresentanza, oltre che da una mai sopita aspirazione a una rappresentanza corporativa. E la sua instancabile battaglia contro la «partitocrazia» e contro la nuova forma di mandato imperativo – una polemica destinata a durare per un ventennio, fino al momento della scomparsa di Maranini, nel 1969 – doveva per questo apparire come ‘conservatrice’, se non addirittura come ‘reazionaria’, dinanzi a un quadro in cui i “moderni principi” erano celebrati come pilastri del regime democratico. In realtà, una posizione come quella di Maranini non ha però un’unica colorazione politica. E, a ben vedere, non è affatto sorprendente che la difesa della libertà del parlamentare contro ogni vincolo partitico sia stata inalberata dai più diversi schieramenti politici, e sia stata piegata nel corso degli anni agli utilizzi più differenti. In un paese a marcata vocazione trasformistica come l’Italia, il divieto di mandato imperativo enunciato solennemente dalla Costituzione è stato infatti invocato per protestare contro l’assenza di democrazia interna ai partiti, o per sostenere la decisione di alcuni parlamentari di non sostenere un governo ormai percepito come lontano dai propri principi, oppure – come è pressoché scontato – per giustificare le più bieche e utilitaristiche operazioni di cambio di casacca. E, puntualmente, ogni volta che qualcosa di simile è accaduto – basti pensare ai casi opposti, ma in fondo speculari, dell’uscita di Franco Turigliatto e Fernando Rossi dalla maggioranza che sosteneva il governo Prodi nel febbraio 2007, o alla fuoriuscita di Gianfranco Fini dalla coalizione di centro-destra nel 2010 – si sono levate grida di scandalo. Grida che ogni volta – senza differenze di condotta rilevanti tra un partito di più o meno sbiadita matrice leninista e un partito di sbandierata tradizione liberale – hanno indirizzato la loro protesta contro il ‘tradimento’ del mandato degli elettori.
 

In realtà, la tensione fra le due diverse posizioni – che sono effettivamente opposte – è per molti versi insanabile. A meno di non modificare la norma che vieta il mandato imperativo, il deputato, una volta eletto, è infatti del tutto libero di cambiare legittimamente bandiera. L’unico modo per limitare questa possibilità consiste nella costruzione di partiti solidi. In altre parole, la formazione di una gerarchia interna e di meccanismi di controllo che vincolino effettivamente il parlamentare al rispetto della disciplina di partito rimane il solo modo (relativamente efficace) per evitare che i gruppi parlamentari si trasformino in consorterie del tutto fluide e in perenne mutamento, alla ricerca di posti di governo e sottogoverno in cambio di sostegno politico. O, per dirla ancora più brutalmente, che la libertà di pensiero del deputato finisca col trovare la sua unica – e certo non lusinghiera – rappresentazione nel più retrivo ‘scilipotismo’.
Anche per questo, nonostante la polemica antipartitica sia un elemento costitutivo del Movimento 5 Stelle, il destino paradossale – ma probabilmente inevitabile – di questa formazione è così di tramutarsi in un partito. Sebbene Grillo non perda occasione di tuonare contro i partiti e di inneggiare alla democrazia diretta della Rete, l’unico modo di cui dispone per poter conservare un controllo sui parlamentari eletti è proprio quello di costruire un’armatura partitica che protegga dalle tensioni centrifughe che nel corso del tempo emergeranno. Il modello del ‘partito in franchising’ – in cui il controllo del ‘marchio’ e della comunicazione nazionale è gestito dal vertice dell’organizzazione, e in cui ai diversi ‘concessionari’ è assegnato solo un ruolo di mobilitazione a livello locale – non può infatti resistere dinanzi all’esistenza di una rappresentanza parlamentare. Perché Grillo non può più avere un monopolio assoluto della comunicazione nazionale del M5S, perché i parlamentari sono sottoposti a un pressoché costante assedio giornalistico, e perché è molto probabile che – presto o tardi – l’ingenuità, il narcisismo o la legittima rivendicazione della propria libertà spinga qualcuno dei senatori e dei deputati pentastellati a deviare dalla linea ufficiale. E, d’altro canto, sono stati sufficienti i primi due giorni della legislatura per far affiorare le prime lacerazioni, a proposito della condotta da tenere in occasione dell’elezione del Presidente del Senato.
Dato che è piuttosto plausibile che la tentazione ‘trasformista’ contagi anche qualcuno dei nuovi parlamentari del M5S, e che si faccia più insistente con il passare del tempo, è altrettanto probabile che la necessità di trasformarsi un partito diventi sempre più impellente per la nuova formazione. Naturalmente è difficile immaginare come – e quando – questa trasformazione possa effettivamente compiersi. Ma le diverse opzioni possibili non sono prive di implicazioni per la fisionomia futura del M5S. In effetti, non è sufficiente darsi un’organizzazione strutturata, perché l’organizzazione deve essere a sua volta tenuta insieme da qualche elemento non puramente formale. E, in linea molto generale, i partiti hanno finora trovato le basi per garantire la coerenza interna solo in tre elementi, fra loro piuttosto differenti: l’ideologia, le rendite politiche, la leadership. In altre parole, alcuni partiti (e soprattutto i vecchi partiti di massa) sono tenuti insieme da una forte componente ideologica, da un solido tessuto identitario, magari da una tensione utopica; altri partiti – quasi tutti i ‘partiti di cartello’ contemporanei – sono resi relativamente compatti dall’attesa che i vari leader hanno di ottenere cariche e risorse pubbliche, da redistribuire fra i propri seguaci; e altri ancora sono aggregati dalla personalità carismatica del leader, che – anche senza un’ideologia strutturata – è capace di tenere sotto controllo le rivalità interne e conservare l’eterogenea combinazione dei seguaci.
Ovviamente questa classificazione non ha nulla di scientifico, e non è inoltre da escludere che una formazione politica possa attingere contemporaneamente a tutti i tre tipi di risorse. Ma il punto è che il M5S si trova dinanzi a una scelta pressoché obbligata. Evidentemente, almeno non in tempi stretti, non può infatti optare per la strada delle rendite politiche, e cioè per la redistribuzione di cariche e finanziamenti pubblici (diretti o indiretti, leciti o illeciti), se non altro perché in questo modo rischierebbe di violare palesemente i principi su cui è nato e grazie ai quali ha ottenuto il proprio successo elettorale. Il Movimento potrebbe invece dotarsi di un’ideologia più strutturata, di un repertorio identitario, di rituali capaci di rafforzare la coesione e in grado, soprattutto, di consolidare una rete di militanti a livello territoriale. Una simile strada non è però priva di ostacoli e di incognite, sia perché edificare dal nulla un patrimonio identitario richiede tempi piuttosto lunghi e non garantisce risultati certi (è sufficiente pensare all’iconografia ‘celtica’ elaborata dalla Lega Nord negli ultimi quindici anni), sia perché in questo caso rimarrebbe del tutto in questione il ruolo di Grillo, oltre che del suo alter ego Casaleggio. È allora molto probabile che la risorsa cui finirà con l’attingere Grillo per dare coerenza al M5S e alla sua pattuglia parlamentare sarà il proprio carisma: una risorsa straordinariamente efficace nel mantenere la coesione di un movimento, e soprattutto di un movimento che punta a rivoluzionare completamente il mondo politico. Anche se, ovviamente, non si tratta di una risorsa immune da qualche rischio.
Oltre a essere un formidabile fattore di coesione, il carisma del leader – come diceva Weber – è infatti una risorsa fragilissima: una risorsa sempre sul punto di esaurirsi, e che deve essere dunque costantemente alimentata dall’entusiasmo dei seguaci e da nuove sfide. Da questo punto di vista, non è allora sorprendente che Grillo punti a nuove elezioni a breve. Nonostante – come ha dichiarato – abbia il terrore di dover governare, e benché sia molto probabile che tema un nuovo successo elettorale del M5S, l’unica opzione che ha di fronte è una nuova battaglia elettorale: una nuova battaglia in cui possa rilanciare l’offensiva contro il ‘vecchio’, contro i partiti, contro il fallimento della Seconda Repubblica. Solo tenendo alta la temperatura dello scontro, può riuscire infatti a mantenere la coesione interna ai gruppi parlamentari pentastellati e porre un argine alle tentazioni trasformistiche o di appoggio esterno a ‘esecutivi autorevoli’. E – vale la pena ricordarlo – solo in questo modo Grillo può continuare ad attirare l’attenzione dei media nazionali, che altrimenti tenderebbero a raccogliere le voci degli esponenti parlamentari del M5S, e a non ascoltare l’eco tonante del ‘megafono’ del Movimento.
Chiedendosi cosa veramente muova Grillo, Pierluigi Bersani ha avanzato il sospetto – ma forse è qualcosa di più – che l’ex comico ricerchi solo il ‘potere’. Naturalmente, raccogliendo la provocazione di Bersani, ci si potrebbe chiedere cosa spinga gli altri leader politici, perché appare davvero poco credibile che a guidarli siano davvero – come amano sovente ripetere – soltanto nobili intenti come l’amore per il loro paese, la passione per il bene comune, la volontà di perseguire l’interesse nazionale. Ma, se è probabilmente è opportuno affidare simili domande allo studio della ‘psicopatologia’ della leadership, rimane invece più che doveroso chiedersi a cosa punti realmente Grillo. Forse solo la storia potrà fornirci una risposta. Ma non è affatto da escludere che Grillo non abbia in realtà nessun obiettivo, o che quantomeno non abbia obiettivi di medio-lungo periodo. Probabilmente, il fondatore del Movimento 5 Stelle si è soltanto innamorato del suo ruolo di leader ‘rivoluzionario’, e si è convinto di rappresentare la causa di una trasformazione radicale.  Nonostante non abbia forse ben chiaro dove possa condurre questo mutamento, né quali passi ciò imponga concretamente dal punto di vista politico, come ogni leader rivoluzionario sa bene che la ‘rivoluzione’ non ammette compromessi o gradualità, perché una rivoluzione che si è arresta a metà è sempre una rivoluzione sconfitta.
Così – benché sia quasi impossibile fare previsioni su ciò che accadrà in Italia, in Europa e nel mondo nei prossimi mesi – è facile immaginare che Grillo continuerà a tener fede al proprio personaggio. Che, dunque, non si accontenterà della ‘rivoluzione di febbraio’, ma che – come una sorta di Lenin redivivo, e un po’ caricaturale – punterà tutto su una nuova ‘rivoluzione d’ottobre’. E che la ‘guerra’ che si combatte in Europa rischierà di rendere persino credibile ciò che solo alcuni mesi fa appariva solo come un incubo fantapolitico.

Damiano Palano

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giovedì 14 marzo 2013

La dissolvenza democratica. Un florilegio da "Maelstrom" in e-book





Per gli appassionati lettori di Maelstrom è da qualche giorno disponibile in versione e-book La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi.

Nella Dissolvenza democratica sono raccolti alcuni degli interventi apparsi Maelstrom fra il 2011 e il 2012.

lunedì 11 marzo 2013

L’amico del giaguaro. Leggendo "Bersani", una biografia di Ettore Maria Colombo



 

di Damiano Palano
 
Capita qualche volta che un destino ingeneroso inchiodi un leader politico a un episodio infelice, a una frase poco azzeccata, o anche solo a un piccolo vezzo. Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Partito Comunista Italiano, l’artefice della ‘svolta della Bolognina’, come di altre clamorose scelte, rimarrà per sempre quello della “gioiosa macchina da guerra”: la coalizione elettorale dei “Progressisti” che, proiettata verso una facile vittoria elettorale, si scontrò, nel marzo del 1994, con il ciclone della ‘discesa in campo’ berlusconiana. L’ormai sbiadito ricordo di Fausto Bertinotti – un leader per molti discutibile, ma dotato di un certo carisma, e soprattutto capace di trasformare Rifondazione comunista da una riserva indiana di nostalgici del Comintern a un partito in grado di giocare un ruolo ‘quasi’ da protagonista nella politica italiana – resterà invece indelebilmente legato a qualche vecchio maglioncino di cachemire, oltre che all’insana passione per i salotti romani. Mentre della personalità politica di Walter Veltroni – l’immaginifico primo segretario del Partito Democratico, l’ideatore della Festa del Cinema di Roma, il direttore dell’«Unità», il braccio destro di Romano Prodi alla guida dell’Ulivo – oggi non si ricorda più nient’altro che il già proverbiale “ma anche”, riflesso linguistico di una sorta di complesso di Peter Pan, di un infantilismo politico elevato a programma di governo.
Forse, ma è ancora presto per dirlo, potrebbe accadere qualcosa di simile anche di Pier Luigi Bersani. Perché è piuttosto probabile che i prossimi mesi, comunque vadano le cose, facciano calare il sipario su un leader che, in fondo, è sempre rimasto uno sconosciuto per l’opinione pubblica. Bersani è infatti in larga parte estraneo a quel piccolo circolo di vecchi esponenti della Federazione giovanile comunista di Roma all’interno del quale si sono consumate le principali lotte di potere nella lunga stagione che ha condotto da Pci al Pds, e poi dai Ds al Pd. E, anche dopo aver conquistato un ruolo sulla scena politica nazionale, Bersani ha accuratamente preservato la propria privacy. Un modo proficuo per accostarsi a questo sfortunato leader politico è Bersani, una biografia scritta da Ettore Maria Colombo per gli Editori Internazionali Riuniti (pp. 323, euro 18.00) e uscita proprio a ridosso della scadenza elettorale. Probabilmente, l’autore e l’editore si attendevano che dalle urne, la sera del 25 febbraio, uscisse un risultato diverso. Nel caso avessero avuto ragione i sondaggisti, molti avrebbero potuto cercare nel libro di Colombo il ritratto non solo di un nuovo Presidente del Consiglio, ma anche di un leader incaricato dell’impresa – non certo agevole – di guidare l’Italia fuori dal guado di una crisi sociale ed economica con pochi precedenti. Invece le cose sono andate diversamente. E allora è inevitabile che i lettori – forse meno numerosi – si accosteranno al libro di Colombo un po’ come ci si avvicina a un libro giallo. Non tanto per cogliere la profondità dei personaggi, o la geometria dell’intreccio, quanto per scoprire il colpevole. E, cioè, per tentare di decifrare almeno alcune delle ragioni che hanno determinato la clamorosa sconfitta elettorale (o la sconfitta a metà) della coalizione di centro-sinistra.
Da questo punto di vista, il libro di Colombo offre senza dubbio più di qualche contributo. Non certo perché lo sguardo con cui viene ricostruito l’itinerario biografico e politico del leader del Pd sia malevolo, o anche solo parzialmente critico. Al contrario, dalle pagine di Colombo affiora una simpatia che va ben oltre quel ‘moderato’ sostegno che l’autore confessa garbatamente ai suoi lettori. Ma perché Bersani – con qualche pennellata di folklore e quel poco di gossip che il soggetto consente – riesce a suggerire, forse persino senza volerlo, una chiave di lettura ben precisa.  Ciò che Colombo punta a sottolineare con forza della personalità politica di Bersani sono infatti le origini indiscutibilmente ‘periferiche’. Bersani è d’altronde un rappresentante della ‘periferia’ per almeno tre motivi. Innanzitutto, perché, nella storia che conduce dal Pci al Pd, è il primo segretario nazionale che viene dall’Emilia (ad eccezione di Franceschini, che proviene però da tutt’altra storia), ossia da quella ‘zona rossa’ che è stata sempre la roccaforte identitaria del vecchio Partito comunista, oltre che un modello di ‘buona amministrazione’ da opporre al ‘malgoverno’ del resto del Paese. In secondo luogo, perché Bersani viene da un’area come la provincia di Piacenza che in realtà è ‘periferica’ rispetto al resto dell’Emilia-Romagna, e che è persino estranea alla colorazione politica dell’intera regione. Infine, perché l’ambiente familiare e l’humus politico-culturale da cui il segretario del Pd proviene sono ‘bianchi’ e ben poco ‘rossi’. E proprio questi tratti finiscono col delineare un quadro in cui spiccano la concretezza amministrativa e un certo modo di guardare alla politica e ai rapporti sociali, largamente influenzato dalla prospettiva del ‘modello emiliano’: un modello centrato sull’egemonia del Pci, sul pieno controllo del governo locale, su un capillare radicamento territoriale, ma anche sulla capacità di far convivere le istanze del lavoro e dell’impresa, e dunque sul costante dialogo con il mondo imprenditoriale.
 
Nella biografia di Colombo non mancano certo gli episodi poco conosciuti, come la militanza trotzkysta in Avanaguardia Operaia nei primissimi anni Settanta, la laurea in Filosofia a Bologna, con una tesi su Grazia e autonomia nella prospettiva ecclesiologica di San Gregorio Magno, la grande passione per la musica, che per esempio ci fa scoprire un Bersani cultore del melodramma, ma anche imprevedibile ammiratore degli AC/DC. L’attenzione è però inevitabilmente rivolta a quella lenta scalata politica che conduce il futuro leader democratico dalla Comunità montana di Bobbio alla Giunta regionale emiliana, nel 1980, alla guida della Regione, nel 1993, e infine al governo nazionale, nel 1996, con il primo esecutivo presieduto da Romano Prodi. E, soprattutto, a quel profilo di ‘pragmatismo’ – un po’ indigesto per lo stesso Bersani – che Colombo rimarca esplicitamente: «Pier Luigi Bersani si dimostra, dunque, nel suo rapido e silenzioso cursus honorum tutto interno al Pci piacentino prima, ed emiliano poi, un figlio perfetto del Pci emiliano romagnolo. È una scalata praticamente perfetta e insieme molto provinciale, nel senso migliore del termine e nell’understatement dell’uomo. Il che parla, ovviamente, anche dell’arcinoto e famoso pragmatismo del Pci locale» (p. 75).
Il pragmatismo emiliano è soprattutto la cifra che caratterizza la segreteria di Bersani, dal momento in cui – dopo tante esitazioni, e dopo tanti rinvii – il politico piacentino riesce finalmente ad afferrare il timone della nave democratica, virando immediatamente rispetto alla stagione veltroniana del ‘partito liquido’. E arrivando, non senza passare dal confronto col ‘rottamatore’ Matteo Renzi, alla campagna elettorale del 2013. «Non sappiamo, mentre scriviamo», nota Colombo a un certo punto, «come andranno le elezioni politiche del 2013 e chi, a partire dalla fine di febbraio, governerà il paese, né con quali schieramenti e alleanze. Sappiamo solo chi, all’interno del campo del centrosinistra, è il candidato premier. Per l’appunto Pier Luigi Bersani, vincitore delle primarie del 25 novembre 2012» (p. 217).
Anche oggi non sappiamo chi governerà il paese nei prossimi anni (o solo nei prossimi mesi), e a dire la verità non sappiamo neppure se qualcuno lo governerà. Ma conosciamo bene l’esito delle elezioni, e soprattutto sappiamo che Bersani – pur non avendo perso il confronto in termini numerici – è il leader di una coalizione politicamente sconfitta. Perché le cose sono andate molto peggio rispetto a quanto potesse sospettare il più pessimista dirigente del Pd. Inevitabilmente, sulla graticola è finito così proprio Bersani, accusato di una campagna poco efficace, di scarso mordente comunicativo, di una sostanziale passività. E sul banco degli imputati è arrivato – prevedibilmente – persino il «bersanese», quel linguaggio ricco di metafore, proverbi, modi di dire popolari, che ormai è legato in modo indissolubile al segretario del Pd, forse soprattutto per l’amplificazione umoristica fattane da Maurizio Crozza.
Non è la prima volta che il «bersanese» – cui meritoriamente Colombo dedica la giusta attenzione, compilando anche un gustoso glossario conclusivo – viene messo sotto accusa. Già nel 2009, Miguel Gotor – che qualche anno più tardi diventerà una sorta di pasdaran di Bersani, oltre che un suo ascoltato consigliere – ne analizzò impietosamente struttura e limiti sul «Sole – 24 Ore», proponendo una lettura che rimane ancora oggi ricca di spunti interessanti. La ricca messe di metafore, tratte dall’antica sapienza del mondo contadino e dei vecchi mestieri, non sarebbe casuale, ma nascerebbe dalla studiata volontà di adottare un sermo humilis, capace di raggiungere chiunque, e soprattutto quei ceti popolari che, negli ultimi due decenni, sembrano diventati sempre più distanti dal linguaggio e dagli stili della sinistra. In questo senso, scriveva Gotor, «il lessico di Bersani è la spia di un programma politico che punta a un target preciso, ma al tempo stesso liquido ed emotivo, e all’idealizzazione di un’età primigenia, da lui evocata a ogni comizio, quella in cui cattolici e socialisti non sedevano ancora in Parlamento, ma erano radicati nella società» (p. 290). Per quanto motivato da obiettivi seri e più che ragionevoli, il registro del «bersanese» ha però più di qualche implicazione problematica. «Infatti», proseguiva Gotor, «cosa dice Bersani è chiaro, come lo dice no: il contenuto è sacrificato sull’altare della concretezza mediatica e si assiste al trionfo, avrebbe scritto Pasolini, del fine comunicativo su quello espressivo […]. Il problema vero è che oggi gli italiani non parlano più in questo modo e i luoghi e i mestieri richiamati da Bersani sono quasi materialmente scomparsi insieme con i macrocosmi sociali di riferimenti: la bocciofila, la cascina, l’osteria, la bottega sartoriale, l’officina. E dunque ne scaturisce un risultato paradossale perché la realtà non corrisponde al linguaggio e il linguaggio quindi non riesce a descriverla compiutamente, ad afferrarla in un progetto. Il candidato alla segreteria del Pd sembra rivolgersi a una platea di cattolici e socialisti dell’Ottocento, ma il pubblico che lo ascolta si sente come estraniato, quasi fosse in un museo davanti a un quadro di Pellizza da Volpedo» (p. 291).
Anche se la campagna elettorale del Pd non è stata probabilmente molto efficace, è però evidente che l’esito uscito dalle urne non è solo il risultato delle performance televisive di Bersani, o una conseguenza di una scelta linguistica distante da quel mondo che in teoria si intendeva raggiungere. Nel bailamme delle polemiche post-elettorali, gli attacchi al leader del Pd – cui stiamo già in parte assistendo, ma che nelle prossime settimane cresceranno probabilmente d’intensità (soprattutto se dovesse naufragare, com’è immaginabile, la trattativa intavolata col M5S) – sono infatti soltanto un modo per evitare di riconoscere che la mancata vittoria non dipende da una questione di comunicazione inefficace, o scarsamente incisiva, o che quantomeno non dipende soltanto da quella. Scaricando le responsabilità sul segretario, si riesce a sorvolare sulle contraddizioni ormai sempre più evidenti del Pd, e dinanzi alle quali la segreteria di Bersani – un leader politico di cui peraltro nessuno ha mai messo in dubbio l’onestà – poteva ben poco. Forse, per comprendere meglio la fisionomia e le antinomie del Pd odierno bisognerebbe infatti rileggere alcune delle pagine della nostra storia recente, e in particolare gli anni della tormentata transizione fra Prima e Seconda Repubblica e delle grandi ‘privatizzazioni’, anni cruciali duranti i quali prende forma un nuovo assetto di potere e si delinea una nuova ‘costituzione materiale’. Solo in questo modo, si potrebbe riconoscere che alcuni casi giudiziari – l’ultimo dei quali è naturalmente la voragine di Mps – non sono affatto circostanze fortuite, o il semplice frutto di macchinazioni giornalistiche, ma la conseguenza di relazioni consolidate. E forse si finirebbe anche per ammettere che il famoso ‘modello emiliano’ – mitizzato, non senza ragioni, negli anni Sessanta e Settanta – non esiste più. O, almeno, che non esiste più nei termini in cui se ne parla ancora oggi. E, d’altro canto, non è probabilmente casuale che l’ascesa del Movimento 5 Stelle sia cominciata proprio lì, nel cuore della ‘zona rossa’, e che nelle elezioni di febbraio la formazione capeggiata da Beppe Grillo abbia raggiunto in quell’area percentuali tali da insidiare persino l’egemonia del Pd.
Osservata da questa prospettiva, l’avventura politica di Bersani sembra allora segnata fin dalle origini da un vizio genetico. Perché il ‘pragmatismo’, la visione dei rapporti sociali capace di tenere insieme le istanze del lavoro e dell’impresa, la volontà di conservare un dialogo con tutte le forze sociali, ossia, in breve, tutte quelle componenti che hanno segnato in positivo il ‘modello’ politico dell’“Emilia rossa”, sono giunte al livello nazionale fuori tempo massimo. Quando quel modello è in via di dissolvenza persino nel suo luogo d’origine, indebolito dallo sgretolamento identitario e dalla metamorfosi della stessa rete di rapporti di cui il partito e le istituzioni erano – e in parte sono ancora – il perno fondamentale. E, soprattutto, quando una sua ‘esportazione’ all’intero paese risulta impraticabile per la soppressione di qualsiasi margine di ‘riformismo’ che contrassegna oggi i paesi meridionali dell’Unione Europea.
Proprio per questo, anche il «bersanese» cessa di essere un vezzo, o uno stile comunicativo più o meno efficace, per diventare il simbolo di un fallimento politico. Tutte le ormai famose, e spesso spassose, metafore utilizzate da Bersani - «La raccolta non la fai quando semini», «la lama si affila sul sasso», «far girar la ruota», «giovane e vecchio non valgon un bottone», «ci hanno levato la briscola», «siamo rimasti col due in mano», «non possiamo portare vino annacquato», «qui rischiam la canottiera», e molte altre – assumono infatti un più o meno implicito e ricercato valore nostalgico, finalizzato forse anche a ‘tranquilizzare’, come il Giovanni XXIII evocato in più occasioni da Bersani. Ma il problema di quel linguaggio non è solo il fatto di adottare un registro incomprensibile per l’italiano medio, travolto dalla pasoliniana «mutazione antropologica», abitatore di un mondo senza più ‘lucciole’, e abissalmente distante dall’antica sapienza contadina di cui Bersani si fa erede, con i suoi modi da curato di campagna, a metà tra il Don Camillo di Fernandel e il comunista di Maurizio Ferrini. Il problema è, piuttosto, che quel linguaggio allude a un cosmo di relazioni sociali, di rapporti produttivi, di identità politiche e di pratiche amministrative che qualificano il vecchio ‘modello emiliano’, ma che gli ultimi trent’anni hanno modificato in profondità, e cui probabilmente la crisi economica che stiamo vivendo darà un colpo ulteriore.
 
 
Forse, dell’intero lessico di Bersani alla fine rimarrà così solo quella specie di infelice slogan che prefigurava l’imminente possibilità «smacchiare il giaguaro». Uno slogan a dire la verità piuttosto enigmatico, che – secondo la genealogia ricostruita da Colombo con passione filologica – rimanda, a quanto pare, al gioco di specchi che, a un certo punto, si stabilisce fra Bersani e il suo alter ego comico Crozza. Come si sa, è infatti proprio lo show-man genovese che coglie i risvolti umoristici del «bersanese» in una famosa imitazione, ma lo stesso Bersani – afferrando i vantaggi che l’operazione può offrire in termini di comunicazione – tende a giocare di rimando, tanto che talvolta dà persino la sensazione di imitare il suo imitatore. Nel giugno 2011, nel corso di una conferenza nazionale del Pd, Bersani si rivolge per esempio alla platea dei militanti proprio facendo il verso al «bersanese» caricaturale di Crozza: «Ci chiedono: qual è il progetto? È una domanda che fanno solo a noi, eh?, ma io son contento… Qual è il progetto? Io dico: stiamo lavorando… ma, appunto, ‘non è che siam qui a pettinare le bambole’ o.. aspetta, aspetta ché qui a Genova diciamo ad asciugare gli scogli» (p. 294). E di lì a poco il segretario democratico accetta addirittura di partecipare a una gara di metafore con lo stesso Crozza, negli studi di La7, in cui il giochino si dilata fino al surreale: «siam mica qui a fare la permanente ai cocker», «siam mica qui a metter il perizoma al toro da monta», «non è che a Lampedusa montiamo le tende per metterci le tedesche», fino al «siam mica qui a smacchiare i giaguari!». «Ormai» - chiosa Colombo - «Crozza è Bersani, ma anche Bersani è Crozza. Il percorso di palingenesi del bersanese e, soprattutto, la sua capacità di penetrare nelle case di tutti gli italiani si è definitivamente compiuto» (p. 300). Così, nel giugno 2011, ai militanti che lo ascoltano in piazza del Pantheon per festeggiare la vittoria alle amministrative è del tutto chiaro il rimando al bersanese riletto in chiave crozziana, quando Bersani esordisce con il fatidico: «Ragassi…, abbiamo smacchiato il giaguaro!», destinato poi a diventare una sorta di slogan elettorale.
A ben vedere, non era difficile riconoscere che in quella frase qualcosa non tornava. In effetti, il «siam mica qui a smacchiare i giaguari!» di Crozza non era altro che l’ennesimo calco del bersaniano «non è che siam qui a pettinare le bambole», che naturalmente equivale a dire «non siamo qui a perdere tempo», o «non ci stiamo smarrendo in progetti impossibili». Ma, più o meno consapevolmente, Bersani, quando trasforma la formula, parlando del progetto di ‘smacchiare il giaguaro’, inverte il senso della metafora. E così, per ironia della sorte, oggi è facile riconoscere in quella trovata dello «smacchiare il giaguaro», diventata per molti versi l’autentico lo slogan della campagna elettorale del Pd, il simbolo di una sconfitta politica, e forse persino culturale. Perché è davvero forte la tentazione di riconoscere in quel giaguaro che Bersani voleva smacchiare, la metafora dell’Italia. Un po’ perché il giaguaro è molto simile al vecchio gattopardo di Tomasi di Lampedusa, felino misterioso in cui siamo ormai abituati a ravvisare i vizi di un trasformismo connaturato all’identità italiana, e anche il simbolo di un fatalismo che rende diffidenti verso ogni progetto di trasformazione, verso ogni retorica di riforma, verso ogni – più o meno credibile – rivoluzione. Ma un po’ anche perché le macchie indelebili di quel giaguaro, macchie resistenti a tutti gli apprendisti ‘smacchiatori’, diventano la metafora di un paese in fondo immodificabile. E perché la balzana idea di «smacchiare il giaguaro» finisce col rilevarsi – con il famigerato senno di poi – solo il simbolo di un progetto inutile, irrealizzabile, velleitario, proprio come quello di raddrizzare le gambe ai cani, di pettinare le bambole o di asciugare gli scogli.
Come sappiamo, il giaguaro alla fine non solo non è stato smacchiato, ma ­– come ogni buon felino – è sgusciato tra le mani ai suoi cacciatori. E le principale responsabilità di questo inatteso risultato vengono oggi addossate proprio a Bersani, la cui carriera di segretario è così molto vicino al capolinea. Giusto o ingiusto che sia, si tratta di un meccanismo inevitabile, in special modo in un’area politica che, negli ultimi vent’anni, ha masticato e digerito almeno una mezza dozzina di leader. Ma il punto è che, per come sono andate le cose, di un articolato progetto politico, senza dubbio piuttosto serio (in ogni caso molto più solido e coerente di quello veltroniano), e di un’intera esperienza di amministratore pubblico, rischia così di rimanere davvero molto poco. Tanto che il ricordo Bersani – come è avvenuto per Occhetto, Bertinotti e Veltroni – è probabilmente destinato a rimanere inchiodato soltanto all’infelice metafora, diventata quasi per caso il principale slogan elettorale del Partito Democratico.
Fra qualche anno infatti, quando l’immagine del segretario del Pd sarà ormai sempre più sbiadita, e quando il suo volto si confonderà nella nostra labile memoria fra quelli dei tanti leader sconfitti della Seconda Repubblica, forse non ci rammenteremo nemmeno se Bersani quelle elezioni le aveva vinte o perse, e come erano andate le cose. Ma sicuramente, per uno scherzo del destino, ci ricorderemo – anche solo vagamente – del simpatico, burbero, brontolone «amico del giaguaro», come dell’ennesimo protagonista di una storia che non fu mai scritta e di un cambiamento rimasto sulla carta. Anche se poi – perché si sa come vanno le cose – neppure ci ricorderemo esattamente chi fosse il giaguaro. E soprattutto che cosa Bersani ci volesse poi fare, con quel famoso giaguaro.
 
Damiano Palano