di Damiano Palano
Capita qualche volta che un
destino ingeneroso inchiodi un leader politico a un episodio infelice, a una
frase poco azzeccata, o anche solo a un piccolo vezzo. Achille Occhetto,
l’ultimo segretario del Partito Comunista Italiano, l’artefice della ‘svolta
della Bolognina’, come di altre clamorose scelte, rimarrà per sempre quello
della “gioiosa macchina da guerra”: la coalizione elettorale dei “Progressisti”
che, proiettata verso una facile vittoria elettorale, si scontrò, nel marzo del
1994, con il ciclone della ‘discesa in campo’ berlusconiana. L’ormai sbiadito
ricordo di Fausto Bertinotti – un leader per molti discutibile, ma dotato di un
certo carisma, e soprattutto capace di trasformare Rifondazione comunista da
una riserva indiana di nostalgici del Comintern a un partito in grado di
giocare un ruolo ‘quasi’ da protagonista nella politica italiana – resterà
invece indelebilmente legato a qualche vecchio maglioncino di cachemire, oltre
che all’insana passione per i salotti romani. Mentre della personalità politica
di Walter Veltroni – l’immaginifico primo segretario del Partito Democratico,
l’ideatore della Festa del Cinema di Roma, il direttore dell’«Unità», il
braccio destro di Romano Prodi alla guida dell’Ulivo – oggi non si ricorda più
nient’altro che il già proverbiale “ma anche”, riflesso linguistico di una
sorta di complesso di Peter Pan, di un infantilismo politico elevato a
programma di governo.
Forse,
ma è ancora presto per dirlo, potrebbe accadere qualcosa di simile anche di
Pier Luigi Bersani. Perché è piuttosto probabile che i prossimi mesi, comunque
vadano le cose, facciano calare il sipario su un leader che, in fondo, è sempre
rimasto uno sconosciuto per l’opinione pubblica. Bersani è infatti in larga
parte estraneo a quel piccolo circolo di vecchi esponenti della Federazione
giovanile comunista di Roma all’interno del quale si sono consumate le principali
lotte di potere nella lunga stagione che ha condotto da Pci al Pds, e poi dai
Ds al Pd. E, anche dopo aver conquistato un ruolo sulla scena politica
nazionale, Bersani ha accuratamente preservato la propria privacy. Un modo proficuo
per accostarsi a questo sfortunato leader politico è Bersani, una biografia scritta da Ettore Maria Colombo per gli
Editori Internazionali Riuniti (pp. 323, euro 18.00) e uscita proprio a ridosso
della scadenza elettorale. Probabilmente, l’autore e l’editore si attendevano che
dalle urne, la sera del 25 febbraio, uscisse un risultato diverso. Nel caso
avessero avuto ragione i sondaggisti, molti avrebbero potuto cercare nel libro
di Colombo il ritratto non solo di un nuovo Presidente del Consiglio, ma anche
di un leader incaricato dell’impresa – non certo agevole – di guidare l’Italia
fuori dal guado di una crisi sociale ed economica con pochi precedenti. Invece
le cose sono andate diversamente. E allora è inevitabile che i lettori – forse
meno numerosi – si accosteranno al libro di Colombo un po’ come ci si avvicina
a un libro giallo. Non tanto per cogliere la profondità dei personaggi, o la
geometria dell’intreccio, quanto per scoprire il colpevole. E, cioè, per
tentare di decifrare almeno alcune delle ragioni che hanno determinato la
clamorosa sconfitta elettorale (o la sconfitta a metà) della coalizione di
centro-sinistra.
Da
questo punto di vista, il libro di Colombo offre senza dubbio più di qualche
contributo. Non certo perché lo sguardo con cui viene ricostruito l’itinerario biografico
e politico del leader del Pd sia malevolo, o anche solo parzialmente critico.
Al contrario, dalle pagine di Colombo affiora una simpatia che va ben oltre
quel ‘moderato’ sostegno che l’autore confessa garbatamente ai suoi lettori. Ma
perché Bersani – con qualche
pennellata di folklore e quel poco di gossip
che il soggetto consente – riesce a suggerire, forse persino senza volerlo, una
chiave di lettura ben precisa. Ciò che
Colombo punta a sottolineare con forza della personalità politica di Bersani
sono infatti le origini indiscutibilmente ‘periferiche’. Bersani è d’altronde
un rappresentante della ‘periferia’ per almeno tre motivi. Innanzitutto,
perché, nella storia che conduce dal Pci al Pd, è il primo segretario nazionale
che viene dall’Emilia (ad eccezione di Franceschini, che proviene però da tutt’altra
storia), ossia da quella ‘zona rossa’ che è stata sempre la roccaforte
identitaria del vecchio Partito comunista, oltre che un modello di ‘buona
amministrazione’ da opporre al ‘malgoverno’ del resto del Paese. In secondo
luogo, perché Bersani viene da un’area come la provincia di Piacenza che in
realtà è ‘periferica’ rispetto al resto dell’Emilia-Romagna, e che è persino
estranea alla colorazione politica dell’intera regione. Infine, perché
l’ambiente familiare e l’humus politico-culturale da cui il segretario del Pd
proviene sono ‘bianchi’ e ben poco ‘rossi’. E proprio questi tratti finiscono
col delineare un quadro in cui spiccano la concretezza amministrativa e un
certo modo di guardare alla politica e ai rapporti sociali, largamente
influenzato dalla prospettiva del ‘modello emiliano’: un modello centrato
sull’egemonia del Pci, sul pieno controllo del governo locale, su un capillare
radicamento territoriale, ma anche sulla capacità di far convivere le istanze
del lavoro e dell’impresa, e dunque sul costante dialogo con il mondo
imprenditoriale.
Nella
biografia di Colombo non mancano certo gli episodi poco conosciuti, come la
militanza trotzkysta in Avanaguardia Operaia nei primissimi anni Settanta, la
laurea in Filosofia a Bologna, con una tesi su Grazia e autonomia nella prospettiva ecclesiologica di San Gregorio
Magno, la grande passione per la musica, che per esempio ci fa scoprire un
Bersani cultore del melodramma, ma anche imprevedibile ammiratore degli AC/DC. L’attenzione
è però inevitabilmente rivolta a quella lenta scalata politica che conduce il
futuro leader democratico dalla Comunità montana di Bobbio alla Giunta
regionale emiliana, nel 1980, alla guida della Regione, nel 1993, e infine al
governo nazionale, nel 1996, con il primo esecutivo presieduto da Romano Prodi.
E, soprattutto, a quel profilo di ‘pragmatismo’ – un po’ indigesto per lo
stesso Bersani – che Colombo rimarca esplicitamente: «Pier Luigi Bersani si
dimostra, dunque, nel suo rapido e silenzioso cursus honorum tutto interno al Pci piacentino prima, ed emiliano
poi, un figlio perfetto del Pci emiliano romagnolo. È una scalata praticamente
perfetta e insieme molto provinciale, nel senso migliore del termine e nell’understatement dell’uomo. Il che parla,
ovviamente, anche dell’arcinoto e famoso pragmatismo del Pci locale» (p. 75).
Il
pragmatismo emiliano è soprattutto la cifra che caratterizza la segreteria di
Bersani, dal momento in cui – dopo tante esitazioni, e dopo tanti rinvii – il
politico piacentino riesce finalmente ad afferrare il timone della nave democratica,
virando immediatamente rispetto alla stagione veltroniana del ‘partito
liquido’. E arrivando, non senza passare dal confronto col ‘rottamatore’ Matteo
Renzi, alla campagna elettorale del 2013. «Non sappiamo, mentre scriviamo»,
nota Colombo a un certo punto, «come andranno le elezioni politiche del 2013 e
chi, a partire dalla fine di febbraio, governerà il paese, né con quali
schieramenti e alleanze. Sappiamo solo chi, all’interno del campo del
centrosinistra, è il candidato premier. Per l’appunto Pier Luigi Bersani,
vincitore delle primarie del 25 novembre 2012» (p. 217).
Anche
oggi non sappiamo chi governerà il paese nei prossimi anni (o solo nei prossimi
mesi), e a dire la verità non sappiamo neppure se qualcuno lo governerà. Ma
conosciamo bene l’esito delle elezioni, e soprattutto sappiamo che Bersani –
pur non avendo perso il confronto in termini numerici – è il leader di una
coalizione politicamente sconfitta. Perché le cose sono andate molto peggio
rispetto a quanto potesse sospettare il più pessimista dirigente del Pd.
Inevitabilmente, sulla graticola è finito così proprio Bersani, accusato di una
campagna poco efficace, di scarso mordente comunicativo, di una sostanziale
passività. E sul banco degli imputati è arrivato – prevedibilmente – persino il
«bersanese», quel linguaggio ricco di metafore, proverbi, modi di dire popolari,
che ormai è legato in modo indissolubile al segretario del Pd, forse
soprattutto per l’amplificazione umoristica fattane da Maurizio Crozza.
Non
è la prima volta che il «bersanese» – cui meritoriamente Colombo dedica la
giusta attenzione, compilando anche un gustoso glossario conclusivo – viene
messo sotto accusa. Già nel 2009, Miguel Gotor – che qualche anno più tardi
diventerà una sorta di pasdaran di
Bersani, oltre che un suo ascoltato consigliere – ne analizzò impietosamente
struttura e limiti sul «Sole – 24 Ore», proponendo una lettura che rimane
ancora oggi ricca di spunti interessanti. La ricca messe di metafore, tratte
dall’antica sapienza del mondo contadino e dei vecchi mestieri, non sarebbe casuale,
ma nascerebbe dalla studiata volontà di adottare un sermo humilis, capace di raggiungere chiunque, e soprattutto quei
ceti popolari che, negli ultimi due decenni, sembrano diventati sempre più
distanti dal linguaggio e dagli stili della sinistra. In questo senso, scriveva
Gotor, «il lessico di Bersani è la spia di un programma politico che punta a un
target preciso, ma al tempo stesso
liquido ed emotivo, e all’idealizzazione di un’età primigenia, da lui evocata a
ogni comizio, quella in cui cattolici e socialisti non sedevano ancora in
Parlamento, ma erano radicati nella società» (p. 290). Per quanto motivato da
obiettivi seri e più che ragionevoli, il registro del «bersanese» ha però più
di qualche implicazione problematica. «Infatti», proseguiva Gotor, «cosa dice
Bersani è chiaro, come lo dice no: il contenuto è sacrificato sull’altare della
concretezza mediatica e si assiste al trionfo, avrebbe scritto Pasolini, del
fine comunicativo su quello espressivo […]. Il problema vero è che oggi gli
italiani non parlano più in questo modo e i luoghi e i mestieri richiamati da
Bersani sono quasi materialmente scomparsi insieme con i macrocosmi sociali di
riferimenti: la bocciofila, la cascina, l’osteria, la bottega sartoriale,
l’officina. E dunque ne scaturisce un risultato paradossale perché la realtà
non corrisponde al linguaggio e il linguaggio quindi non riesce a descriverla
compiutamente, ad afferrarla in un progetto. Il candidato alla segreteria del
Pd sembra rivolgersi a una platea di cattolici e socialisti dell’Ottocento, ma
il pubblico che lo ascolta si sente come estraniato, quasi fosse in un museo
davanti a un quadro di Pellizza da Volpedo» (p. 291).
Anche
se la campagna elettorale del Pd non è stata probabilmente molto efficace, è
però evidente che l’esito uscito dalle urne non è solo il risultato delle
performance televisive di Bersani, o una conseguenza di una scelta linguistica
distante da quel mondo che in teoria si intendeva raggiungere. Nel bailamme
delle polemiche post-elettorali, gli attacchi al leader del Pd – cui stiamo già
in parte assistendo, ma che nelle prossime settimane cresceranno probabilmente
d’intensità (soprattutto se dovesse naufragare, com’è immaginabile, la
trattativa intavolata col M5S) – sono infatti soltanto un modo per evitare di
riconoscere che la mancata vittoria non dipende da una questione di
comunicazione inefficace, o scarsamente incisiva, o che quantomeno non dipende
soltanto da quella. Scaricando le responsabilità sul segretario, si riesce a
sorvolare sulle contraddizioni ormai sempre più evidenti del Pd, e dinanzi alle
quali la segreteria di Bersani – un leader politico di cui peraltro nessuno ha
mai messo in dubbio l’onestà – poteva ben poco. Forse, per comprendere meglio
la fisionomia e le antinomie del Pd odierno bisognerebbe infatti rileggere
alcune delle pagine della nostra storia recente, e in particolare gli anni
della tormentata transizione fra Prima e Seconda Repubblica e delle grandi ‘privatizzazioni’,
anni cruciali duranti i quali prende forma un nuovo assetto di potere e si
delinea una nuova ‘costituzione materiale’. Solo in questo modo, si potrebbe
riconoscere che alcuni casi giudiziari – l’ultimo dei quali è naturalmente la
voragine di Mps – non sono affatto circostanze fortuite, o il semplice frutto
di macchinazioni giornalistiche, ma la conseguenza di relazioni consolidate. E
forse si finirebbe anche per ammettere che il famoso ‘modello emiliano’ –
mitizzato, non senza ragioni, negli anni Sessanta e Settanta – non esiste più.
O, almeno, che non esiste più nei termini in cui se ne parla ancora oggi. E, d’altro
canto, non è probabilmente casuale che l’ascesa del Movimento 5 Stelle sia
cominciata proprio lì, nel cuore della ‘zona rossa’, e che nelle elezioni di
febbraio la formazione capeggiata da Beppe Grillo abbia raggiunto in quell’area
percentuali tali da insidiare persino l’egemonia del Pd.
Osservata
da questa prospettiva, l’avventura politica di Bersani sembra allora segnata
fin dalle origini da un vizio genetico. Perché il ‘pragmatismo’, la visione dei
rapporti sociali capace di tenere insieme le istanze del lavoro e dell’impresa,
la volontà di conservare un dialogo con tutte le forze sociali, ossia, in
breve, tutte quelle componenti che hanno segnato in positivo il ‘modello’ politico
dell’“Emilia rossa”, sono giunte al livello nazionale fuori tempo massimo.
Quando quel modello è in via di dissolvenza persino nel suo luogo d’origine,
indebolito dallo sgretolamento identitario e dalla metamorfosi della stessa
rete di rapporti di cui il partito e le istituzioni erano – e in parte sono
ancora – il perno fondamentale. E, soprattutto, quando una sua ‘esportazione’
all’intero paese risulta impraticabile per la soppressione di qualsiasi margine
di ‘riformismo’ che contrassegna oggi i paesi meridionali dell’Unione Europea.
Proprio
per questo, anche il «bersanese» cessa di essere un vezzo, o uno stile
comunicativo più o meno efficace, per diventare il simbolo di un fallimento
politico. Tutte le ormai famose, e spesso spassose, metafore utilizzate da
Bersani - «La raccolta non la fai quando semini», «la lama si affila sul
sasso», «far girar la ruota», «giovane e vecchio non valgon un bottone», «ci
hanno levato la briscola», «siamo rimasti col due in mano», «non possiamo
portare vino annacquato», «qui rischiam la canottiera», e molte altre –
assumono infatti un più o meno implicito e ricercato valore nostalgico,
finalizzato forse anche a ‘tranquilizzare’, come il Giovanni XXIII evocato in
più occasioni da Bersani. Ma il problema di quel linguaggio non è solo il fatto
di adottare un registro incomprensibile per l’italiano medio, travolto dalla
pasoliniana «mutazione antropologica», abitatore di un mondo senza più
‘lucciole’, e abissalmente distante dall’antica sapienza contadina di cui
Bersani si fa erede, con i suoi modi da curato di campagna, a metà tra il Don
Camillo di Fernandel e il comunista di Maurizio Ferrini. Il problema è,
piuttosto, che quel linguaggio allude a un cosmo di relazioni sociali, di
rapporti produttivi, di identità politiche e di pratiche amministrative che
qualificano il vecchio ‘modello emiliano’, ma che gli ultimi trent’anni hanno
modificato in profondità, e cui probabilmente la crisi economica che stiamo
vivendo darà un colpo ulteriore.
Forse,
dell’intero lessico di Bersani alla fine rimarrà così solo quella specie di
infelice slogan che prefigurava l’imminente possibilità «smacchiare il
giaguaro». Uno slogan a dire la verità piuttosto enigmatico, che – secondo la genealogia
ricostruita da Colombo con passione filologica – rimanda, a quanto pare, al
gioco di specchi che, a un certo punto, si stabilisce fra Bersani e il suo alter ego comico Crozza. Come si sa, è
infatti proprio lo show-man genovese che coglie i risvolti umoristici del
«bersanese» in una famosa imitazione, ma lo stesso Bersani – afferrando i
vantaggi che l’operazione può offrire in termini di comunicazione – tende a
giocare di rimando, tanto che talvolta dà persino la sensazione di imitare il
suo imitatore. Nel giugno 2011, nel corso di una conferenza nazionale del Pd,
Bersani si rivolge per esempio alla platea dei militanti proprio facendo il
verso al «bersanese» caricaturale di Crozza: «Ci chiedono: qual è il progetto?
È una domanda che fanno solo a noi, eh?, ma io son contento… Qual è il
progetto? Io dico: stiamo lavorando… ma, appunto, ‘non è che siam qui a pettinare
le bambole’ o.. aspetta, aspetta ché qui a Genova diciamo ad asciugare gli
scogli» (p. 294). E di lì a poco il segretario democratico accetta addirittura
di partecipare a una gara di metafore con lo stesso Crozza, negli studi di La7,
in cui il giochino si dilata fino al surreale: «siam mica qui a fare la
permanente ai cocker», «siam mica qui a metter il perizoma al toro da monta»,
«non è che a Lampedusa montiamo le tende per metterci le tedesche», fino al
«siam mica qui a smacchiare i giaguari!». «Ormai» - chiosa Colombo - «Crozza è
Bersani, ma anche Bersani è Crozza. Il percorso di palingenesi del bersanese e,
soprattutto, la sua capacità di penetrare nelle case di tutti gli italiani si è
definitivamente compiuto» (p. 300). Così, nel giugno 2011, ai militanti che lo
ascoltano in piazza del Pantheon per festeggiare la vittoria alle
amministrative è del tutto chiaro il rimando al bersanese riletto in chiave
crozziana, quando Bersani esordisce con il fatidico: «Ragassi…, abbiamo
smacchiato il giaguaro!», destinato poi a diventare una sorta di slogan
elettorale.
A
ben vedere, non era difficile riconoscere che in quella frase qualcosa non
tornava. In effetti, il «siam mica qui a smacchiare i giaguari!» di Crozza non
era altro che l’ennesimo calco del bersaniano «non è che siam qui a pettinare
le bambole», che naturalmente equivale a dire «non siamo qui a perdere tempo»,
o «non ci stiamo smarrendo in progetti impossibili». Ma, più o meno
consapevolmente, Bersani, quando trasforma la formula, parlando del progetto di
‘smacchiare il giaguaro’, inverte il senso della metafora. E così, per ironia
della sorte, oggi è facile riconoscere in quella trovata dello «smacchiare il
giaguaro», diventata per molti versi l’autentico lo slogan della campagna
elettorale del Pd, il simbolo di una sconfitta politica, e forse persino
culturale. Perché è davvero forte la tentazione di riconoscere in quel giaguaro
che Bersani voleva smacchiare, la metafora dell’Italia. Un po’ perché il
giaguaro è molto simile al vecchio gattopardo di Tomasi di Lampedusa, felino
misterioso in cui siamo ormai abituati a ravvisare i vizi di un trasformismo
connaturato all’identità italiana, e anche il simbolo di un fatalismo che rende
diffidenti verso ogni progetto di trasformazione, verso ogni retorica di
riforma, verso ogni – più o meno credibile – rivoluzione. Ma un po’ anche
perché le macchie indelebili di quel giaguaro, macchie resistenti a tutti gli
apprendisti ‘smacchiatori’, diventano la metafora di un paese in fondo immodificabile.
E perché la balzana idea di «smacchiare il giaguaro» finisce col rilevarsi –
con il famigerato senno di poi – solo il simbolo di un progetto inutile,
irrealizzabile, velleitario, proprio come quello di raddrizzare le gambe ai
cani, di pettinare le bambole o di asciugare gli scogli.
Come
sappiamo, il giaguaro alla fine non solo non è stato smacchiato, ma – come
ogni buon felino – è sgusciato tra le mani ai suoi cacciatori. E le principale
responsabilità di questo inatteso risultato vengono oggi addossate proprio a
Bersani, la cui carriera di segretario è così molto vicino al capolinea. Giusto
o ingiusto che sia, si tratta di un meccanismo inevitabile, in special modo in
un’area politica che, negli ultimi vent’anni, ha masticato e digerito almeno
una mezza dozzina di leader. Ma il punto è che, per come sono andate le cose, di
un articolato progetto politico, senza dubbio piuttosto serio (in ogni caso
molto più solido e coerente di quello veltroniano), e di un’intera esperienza
di amministratore pubblico, rischia così di rimanere davvero molto poco. Tanto
che il ricordo Bersani – come è avvenuto per Occhetto, Bertinotti e Veltroni –
è probabilmente destinato a rimanere inchiodato soltanto all’infelice metafora,
diventata quasi per caso il principale slogan elettorale del Partito
Democratico.
Fra
qualche anno infatti, quando l’immagine del segretario del Pd sarà ormai sempre
più sbiadita, e quando il suo volto si confonderà nella nostra labile memoria fra
quelli dei tanti leader sconfitti della Seconda Repubblica, forse non ci
rammenteremo nemmeno se Bersani quelle elezioni le aveva vinte o perse, e come
erano andate le cose. Ma sicuramente, per uno scherzo del destino, ci ricorderemo
– anche solo vagamente – del simpatico, burbero, brontolone «amico del
giaguaro», come dell’ennesimo protagonista di una storia che non fu mai scritta
e di un cambiamento rimasto sulla carta. Anche se poi – perché si sa come vanno
le cose – neppure ci ricorderemo esattamente chi fosse il giaguaro. E
soprattutto che cosa Bersani ci volesse poi fare, con quel famoso giaguaro.
Damiano Palano