di Damiano Palano
Questa recensione di Niall Ferguson, Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà, Mondadori, pp. 425, euro 22.00, è apparsa su "Avvenire" del 2 febbraio 2013.
Nel clima infuocato del primo dopoguerra, Oswald Spengler fissò nel Tramonto dell’Occidente (1918-1922) la convinzione che la civiltà occidentale fosse ormai prossima al declino. Molti altri storici e filosofi, nel corso del Novecento, condivisero però lo stesso timore, forse anche perché nella stessa etimologia di «Occidente» - la terra del tramonto – si nasconde l’oscuro presentimento che la civiltà occidentale sia destinata a percorrere la medesima sequenza di ogni giornata. E che, all’alba e al momento di massimo fulgore, debba dunque seguire un inevitabile crepuscolo. A questo classico nodo si accosta anche lo storico britannico Niall Ferguson, docente all’Università di Harvard ed editorialista del «New York Times». Ma con Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà, Ferguson riesce soprattutto a combinare perfettamente la perizia dello storico economico con la grande abilità del divulgatore. Un’abilità che gli estimatori dello studioso britannico hanno d’altronde già avuto modo di apprezzare in alcuni dei suoi lavori più fortunati, come Impero, Colossus, XX secolo, l’età della violenza. E che rende Occidente una lettura senza dubbio appassionate, anche se probabilmente destinata a sollevare più di qualche obiezione.
Con il grande affresco di Occidente, Ferguson si colloca sul sentiero già percorso da studiosi come Arnold Toynbee, Pitrim Sorokin e Paul Kennedy. Anche per lo storico britannico il destino di ogni civiltà (e di ogni grande potenza) assume la forma di un ciclo di nascita, crescita e morte. L’obiettivo principale è dunque comprendere quali siano i motivi che consentono l’ascesa globale dell’Occidente a partire dal XV secolo, ossia nel momento in cui la civiltà occidentale – definita come “un complesso di norme, comportamenti e istituzioni dai confini estremamente confusi” – comincia la propria espansione. E lo storico ritrova la spiegazione del successo nel consolidamento di nuove istituzioni, idee e comportamenti: la competizione fra gli Stati, lo sviluppo della scienza, l’affermazione dei diritti di proprietà, i progressi delle conoscenze in campo medico, la diffusione della società dei consumi e di una nuova etica del lavoro (combinata con una cultura del risparmio). Lo sguardo di Ferguson è però soprattutto indirizzato dalla convinzione che il declino della civiltà occidentale sia in fondo inevitabile, se non proprio imminente. Non senza inquietudine, sospetta infatti che il collasso non sarà lento e graduale, bensì improvviso ed estremamente rapido. Dopo tutto, osserva lo storico britannico, anche se la disgregazione del vecchio impero di Roma aveva radici profonde, la sua decomposizione fu piuttosto rapida. In soli cinquant’anni la popolazione dell’Urbe si ridusse di tre quarti, mentre il crollo si realizzò nel giro di una sola generazione. E qualcosa di simile potrebbe accadere anche all’Occidente moderno.
Quando sottolinea il rischio che il collasso ci sorprenda “come un ladro nella notte”, Ferguson guarda ovviamente all’ascesa della potenza cinese e allo spostamento del baricentro dell’economia mondiale verso Oriente. Ma pensa soprattutto alla crisi finanziaria esplosa nell’estate del 2007. Una crisi che giunge nel quadro di una prolungata accumulazione del debito e in un sistema segnato dunque da un’estrema fragilità. Ferguson non intende però ritagliare per se stesso il ruolo di nuova Cassandra. Il suo intento è piuttosto richiamare l’attenzione sui rischi che il mondo occidentale sta correndo. E anche per questo Ferguson indica il problema principale nella dissoluzione della nostra conoscenza storica. Una dissoluzione che certo è il riflesso di un impoverimento culturale, ma che comporta soprattutto un indebolimento della nostra capacità di leggere la realtà. “Il passato”, scrive infatti Ferguson, è “l’unica fonte affidabile per comprendere il nostro effimero presente e i molteplici futuri che ci stanno davanti”. Forse la minaccia più insidiosa non proviene allora dall’Asia, ma da un appiattimento di ogni profondità storica, che ci fa dimenticare il passato e che ci rende miopi verso le insidie del futuro.
Damiano Palano
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