martedì 26 febbraio 2013

Il piano inclinato. La prevedibile ingovernabilità italiana (dopo il 25 febbraio)


 
di Damiano Palano
A poche ore dagli scrutini, quasi ogni testata italiana segnala come il risultato uscito dalle urne sia del tutto, o largamente, inaspettato. Non tanto, e non solo, perché il Movimento 5 Stelle supera il Popolo della Libertà, diventando il primo (o il secondo) partito a livello nazionale, collocandosi sostanzialmente sullo stesso livello percentuale del Partito Democratico, o perché la formazione guidata da Beppe Grillo, al suo primo test nazionale, arriva ben al di sopra di quella soglia del 21% dei voti circa che ottenne Forza Italia al suo battesimo elettorale, nel 1994. Ma soprattutto perché il quadro che emerge è segnato da una sostanziale ingovernabilità. Un’ingovernabilità che la legge elettorale ‘corregge’ alla Camera, assegnando il premio di maggioranza alla coalizione di centro-sinistra, con neppure il 30% dei suffragi e circa 100.000 voti di scarto rispetto al centro-destra. E che invece dilata ulteriormente al Senato, perché l’assegnazione del premio di maggioranza su base regionale finisce col fotografare piuttosto fedelmente la ripartizione dei voti, con il centro-sinistra a poco più del 31% e il centro-destra a un’incollatura di circa un punto percentuale.
Dinanzi a questo quadro, la sorpresa è comprensibile, ma non è del tutto giustificabile. Le grandi tendenze, che puntualmente i sondaggi preelettorali non sono riusciti a cogliere (come nel 2006, ma forse in modo ancora più clamoroso), erano in effetti prevedibili. E, in particolare, erano prevedibili i due risultati principali usciti dal responso delle urne, e cioè la clamorosa sconfitta del Partito Democratico, che tutti i sondaggi davano per largamente vittorioso negli ultimi sei mesi e che invece si attesta su un risultato di lista e di coalizione al di sotto delle più nere aspettative di tutti i dirigenti del partito, e il clamoroso buco nell’acqua del centro, che non solo non riesce a insidiare neppure lontanamente il PdL, ma che non pare neppure in grado di giocare un ruolo rilevante nel nuovo quadro politico.
L’‘imprevedibile’ resurrezione del PdL e del suo leader non erano affatto impossibili da prevedere. Perché a favorire questo risultato era proprio il mantenimento del ‘Porcellum’, una legge elettorale che – a dispetto delle dichiarazioni solenni – il Partito Democratico si è ostinatamente rifiutato di modificare, nella convinzione di poter finalmente vincere a mani bassi su un fronte di centro-destra ormai allo sbando. Naturalmente, il Pd era favorevole a una modifica che introducesse il premio di maggioranza nazionale anche al Senato, perché in questo modo avrebbe potuto ottenere una schiacciante maggioranza di seggi sia a Montecitorio, sia a Palazzo Madama, pur potendo contare su uno striminzito 30% dei voti validamente espressi. Ma, piuttosto comprensibilmente, non si trattava di un’ipotesi che gli altri partiti presenti in Parlamento potevano prendere in considerazione, perché alla vigilia delle elezioni non si può pretendere che il probabile perdente accetti una legge che lo penalizza fortemente. Per questo, data la resistenza del Pd a cedere (soprattutto sull’introduzione di una soglia di sbarramento per il premio di maggioranza al 40%), il ‘Porcellum’ non è stato modificato, e la conseguenza prevedibile era proprio il ritorno in scena di Berlusconi e la riattivazione di quel conflitto identitario che ha portato a votare ‘turandosi il naso’ molti elettori ormai delusi dal centro-destra, ma pervicacemente ostili alla coalizione di centro-sinistra (oltre che al centro montiano).
Quanti seguono questo blog, potevano leggere, per esempio, nel dicembre 2012: “il ‘Porcellum’ non fornisce soltanto un forte incentivo a formare coalizioni per impedire che l’avversario ottenga quella manciata di voti in più sufficiente per accaparrarsi il premio di maggioranza. Più specificamente, il sistema elettorale vigente consegna ai due principali attori – ossia a quegli attori che sono capaci (o che vengono percepiti come tali) di competere per la vittoria – il potere di fissare di fissare le regole per entrare a far parte della coalizione: concedendo ai piccoli partiti di continuare a esistere, inducendoli ad accettare l’incorporazione, oppure costringendoli a combattere, fuori dal perimetro della coalizione, per superare la soglia di sbarramento. È scontato come la legge dell’oligopolio tenda oggi a favorire proprio il Pd, che, dinanzi a un centro-destra in crisi di identità e di organizzazione, viene accreditato come il vincitore delle prossime elezioni. Secondo gli attuali sondaggi elettorali, il Pd potrebbe addirittura pensare di poter vincere le elezioni, accaparrandosi il premio di maggioranza alla Camera, persino correndo da solo, ossia rinunciando all’alleanza con Sel. Ed è perciò piuttosto scontato che il Pd sia stato il principale avversario di una revisione del ‘Porcellum’, nonostante si sia spesso dichiarato negli ultimi anni come ferocemente avverso al vigente sistema elettorale. D’altronde, la percezione di questi mesi è che il Pd si trovi dinanzi all’equivalente politico del ‘gol a porta vuota’, perché si trova – o, meglio, si è trovato fino a questo momento – privo di avversari credibili e accreditato dai sondaggi di circa dodici-quindici punti dal secondo partito (che peraltro sembrerebbe essere il Movimento 5 Stelle, e non il Pdl). Ovviamente è bene dare alle rilevazioni delle intenzioni di voto un peso relativo, ed è opportuno non dimenticare che il Pds, nel 1994, si trovò dinanzi a una situazione in fondo molto simile a quella odierna, e cioè a previsioni di vittoria clamorosamente smentite dagli ultimi due mesi di campagna elettorale e dal responso delle urne. Ma, paradossalmente, se è stata proprio la previsione di una vittoria (tutto sommato agevole) a spingere il Pd a resistere a ogni ipotesi di modifica della legge elettorale, potrebbe essere proprio questa scelta a dare risultati inaspettati. Perché proprio la conservazione del ‘Porcellum’ imprime una fortissima spinta al ritorno in scena di Silvio Berlusconi. Ma, soprattutto, perché la legge Calderoli assegna al leader del Pdl quella posizione oligopolista che, di fatto, potrebbe impedire al centro di conquistare una rilevanza politica. Al di là della questione delle preferenze, a spingere il Pdl a non abbandonare la legge Calderoli è stata d’altronde proprio la consapevolezza che il vigente sistema elettorale consegna a questo partito (o, meglio, al suo leader) una rendita oligopolistica ancora rilevante. Beninteso, si tratta di una rendita logorata dal tempo e dagli insuccessi, come tendono a registrare i sondaggi. Ma si tratta ancora di una rendita importante, che consente un vantaggio cruciale a Berlusconi. Il punto discriminante non sta tanto nella possibilità di competere con il Pd, quanto nella distanza che separa il Pdl dalle formazioni di centro. E, dato che questa distanza appare tutto sommato notevole (e probabilmente incolmabile), la pressione alla logica del ‘voto utile’ è destinata ad aumentare, favorendo proprio l’assetto del duopolio. In altre parole, è piuttosto prevedibile che l’elettore di centro-destra – incerto se votare al centro o a destra – tenderà a privilegiare il contendente che ha maggiori possibilità (o, meglio, quella forza che viene percepita come maggiormente in grado) di contrastare la coalizione di sinistra, ossia proprio la coalizione guidata da Silvio Berlusconi. Anche perché, se in Italia le identificazioni partitiche negli ultimi vent’anni si sono indebolite, non si sono certo disgregate, e tendono piuttosto a ridefinirsi in termini di fedeltà di coalizione e a essere dunque sostenute dall’ostilità verso quella che viene percepita come la parte avversaria. […]. Che a queste logiche sistemiche si debbano aggiungere altri elementi – dalla freddezza dell’elettore di destra per il Presidente Monti, all’abilità di una campagna capace di rivitalizzare le più radicate divisioni politiche – è in fondo quasi scontato. Ma il punto è che tutti questi elementi finiscono col rendere molto forte la spinta a una nuova ‘discesa in campo’ del fondatore di Forza Italia. Certo questa spinta può essere ostacolata dall’intervento di altri fattori, per così dire, extra-sistemici. Ma la sensazione – a circa due mesi dal voto – è che la mancata modifica della legge elettorale, al di là del responso che forniranno le urne, debba risolversi nella vittoria dei due oligopolisti della politica italiana. Che il centro – al di là della configurazione politica che assumerà, o del ruolo che assumerà Mario Monti – rimarrà soffocato dal duopolio” (La legge dell’oligopolio. Ovvero, perché non c’è spazio per il centro).
Dinanzi a questo stallo prevedibile, le soluzioni sono altrettanto prevedibili, e il balletto delle prossime settimane si giocherà attorno alle due posizioni del ritorno immediato alle urne e della formazione di un ‘governissimo’. Ma, sotto la pressione della ‘piazza’ e delle ‘borse’, è evidente che nessuno di questi due scenari è praticabile, senza correre rischi enormi, quasi vitali. Probabilmente, avrà la meglio una soluzione intermedia di un governo istituzionale ‘a tempo’, congegnato per fare una nuova legge elettorale. Ma non è detto che questa soluzione possa davvero modificare il quadro. Perché nessuna legge elettorale può realmente dare stabilità a un quadro così magmatico, perché la prospettiva di un nuovo governo di larghe intese non può certo neutralizzare la portata offensiva del Movimento 5 Stelle, e perché la pressione esterna sull’Italia è destinata a rendere incandescente la situazione dei prossimi mesi. In altre parole, quelle vie di uscite che ancora esistevano alla fine del 2010, o nel novembre del 2011, oggi si sono trasformate in un vincolo cieco. Purtroppo, quello che su cui si è ormai da tempo incamminata l’Italia sembra appare più simile a un piano inclinato, sui cui – anche resistendo con tutte le forze – è più o meno inevitabile scivolare lentamente verso il fondo. E la prospettiva del declino politico ed economico– cui tutti dicono di volersi opporre – sembra per questo diventare, di giorno in giorno, un destino inevitabile.

 
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giovedì 21 febbraio 2013

Il pendolo e il pozzo. L’uguaglianza tradita dal mercato nel nuovo saggio di Vittorio Emanuele Parsi


di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica

«Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, / le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere, / i miserabili rifiuti delle vostre coste brulicanti. / Mandatemi loro, i senza casa, gli scossi dalle tempeste a me, / e io solleverà la mia fiaccola accanto alla porta dorata». I versi di The New Colossus, il sonetto scritto da Emma Lazarus per sostenere la sottoscrizione pubblica finalizzata all’edificazione della Statua della Libertà, riescono ancora oggi a restituire la declinazione che il Nuovo mondo diede della grande promessa delle rivoluzioni di fine Settecento. Progettata da Frédéric-Auguste Bartholdi e Gustave Eiffel, probabilmente sul modello della scultura dedicata da Pio Fedi alla Libertà della Poesia, l’imponente costruzione della Libertà che illumina il mondo doveva infatti rinsaldare il legame ideale e il rapporto di fratellanza fra la nazione francese e quella statunitense un secolo dopo l’indipendenza delle colonie americane dalla madrepatria inglese. Benché la rivoluzione americana e la rivoluzione francese si fossero alimentate all’immaginario illuminista della seconda metà del Settecento, la rivolta dei coloni contro Londra aveva declinato l’idea di libertà in una direzione piuttosto differente da quella cui avevano guardato i protagonisti dell’Ottantanove, e, soprattutto, aveva concepito l’«uguaglianza» in termini molto lontani da quelli che avevano contrassegnato la riflessione dei cultori giacobini del pensiero di Jean-Jacques Rousseau. I versi di Emma Lazarus facevano affiorare in modo evidente proprio questa distanza. E, in particolare, mostravano come, nell’immaginario del Nuovo Mondo, la libertà e l’uguaglianza andassero a condensarsi nella grande promessa dell’american dream. Una promessa in cui – agli occhi delle «masse infreddolite desiderose di respirare libere» e dei «miserabili rifiuti» delle brulicanti coste europee – libertà e uguaglianza si trovavano affiancate in modo pressoché inestricabile, perché la condizione dell’uguaglianza posta alla base della Dichiarazione di Indipendenza – «Tutti gli uomini sono stati creati uguali» – diventava una sorta di programma da realizzare proprio mediante una libertà da intendersi sia come libertà di pensiero e come libertà religiosa, sia come libertà di intrapresa.

Sull’onda della grande crisi che stiamo vivendo, l’american dream appare oggi quantomeno offuscato, e sembra aver perso gran parte del fascino che ancora esercitava solo pochi anni fa. Ma, insieme al sogno americano, sembra affievolirsi anche quella promessa di uguaglianza – coniugata con la libertà e il mercato – di cui si è alimentato l’immaginario democratico a partire quantomeno dalla seconda metà del Novecento. Ed è proprio a questo processo che si volge Vittorio Emanuele Parsi nel suo La fine dell’uguaglianza. Come la crisi economica sta distruggendo il primo valore della nostra democrazia (Mondadori, Milano, 2012, pp. 226, euro 17.50). La «fine dell’uguaglianza» cui allude il titolo del volume non è infatti l’esaurimento dell’egualitarismo, ma è piuttosto l’esaurimento di quella tensione che, a partire dalle grandi Rivoluzioni della fine del XVIII secolo, stringe fra loro i due poli – potenzialmente antitetici – della democrazia e del mercato. Se in quella stagione il mercato è utilizzato come strumento per svellere i privilegi dell’Antico Regime, la democrazia è il mezzo con cui rendere l’uguaglianza non solo una «premessa» ma anche una «promessa». Come scrive Parsi, esplicitando il presupposto che sta al fondo del suo ragionamento: «La sostanza della promessa democratica consisteva – e ancora consiste – nel far sì che i vecchi privilegi, abbattuti grazie all’azione congiunta di democrazia e mercato, non venissero sostituiti da nuovi privilegi questa volta costruiti proprio dall’azione economica mercatistica. La società dell’uguaglianza non avrebbe mai dovuto cedere il passo al ritorno della società dei privilegi. Il che evidentemente implica due conseguenze: che la relazione tra mercato e democrazia è di necessità ‘dialettica’, comporta cioè tensioni e riavvicinamenti e che nel corso della storia breve e accidentata il pendolo abbia oscillato talvolta inclinandosi a favore dell’azione egalitaria della democrazia, talatra a vantaggio di quella creativa del mercato» (p. 7). 
Per Parsi, l’«originaria alleanza» fra democrazia e mercato è la cifra caratterizzante del «canone occidentale», oltre che lo strumento formidabile che ha consentito all’Occidente di fronteggiare vittoriosamente i propri avversari, rappresentati di volta in volta dalla grande crisi degli anni Trenta, dalle potenze dell’Asse nella Seconda guerra mondiale, dalla minaccia sovietica nel corso della lunga Guerra fredda. Da qualche anno, quell’alleanza si è però allentata, e democrazia e mercato sembrano procedere in direzioni nettamente diverse. «In particolare», scrive Parsi, «ciò che si è verificato negli ultimi tre decenni, e in maniera più accentuata dal 1989, è la progressiva riduzione del campo di oscillazione del pendolo: una riduzione sbilanciata, in cui il movimento nella direzione dell’uguaglianza è sempre minore» (pp. 7-8). Nella lettura del politologo, ciò non comporta soltanto la contrazione dei ceti medi e la diffusione di nuovi fenomeni di povertà. Questo processo incide soprattutto, e ancor più in profondità, sulle istituzioni democratiche, oltre che, probabilmente, sull’immaginario che ha contrassegnato la democrazia novecentesca. Perché per Parsi la democrazia di massa del XX secolo è connessa in modo strutturale con l’ascesa della nuova classe media, con la costruzione di un mercato di beni di consumo di massa e con quell’americanizzazione che estende al Vecchio mondo, dopo il 1945, l’«american way of life». In altre parole, la democrazia contemporanea – così diversa dalle democrazie del passato, ma anche dai regimi rappresentativi ottocenteschi – è in larga parte un prodotto dell’«era americana», ossia dell’ascesa degli Stati Uniti come potenza egemone. Quella democrazia – «la democrazia del ceto medio» – esce però profondamente intaccata dalla trasformazione delle società occidentali che la crisi odierna rende ancora più evidente, non soltanto per i riflessi strettamente sociali, ma per le conseguenze propriamente politiche, per la corrosione della base sociale sui cui le democrazie occidentali hanno costruito le loro fortune: «I dati che ci parlano della continua flessione dei consumi, dell’erosione del ceto medio, della polarizzazione dei redditi e della crescita della diseguaglianza dovrebbero quindi inquietarci innanzitutto dal punto di vista politico. Se non ci sarà più ceto medio, allora non sarà possibile nessuna middle class democracy e una nuova società dei privilegi prenderà il posto della società degli uguali la cui bandiera è stata innalzata dalle Rivoluzioni settecentesche» (p. 9).
Anche se Parsi non lesina le critiche ai sacerdoti della religione del mercato, la sua analisi non può essere scambiata neppure per un attimo per una denuncia anti-capitalista, magari venata da un latente ‘anti-americanismo’ o da una più o meno conclamata fobia per la tecnica e il progresso. Dalle pagine di Parsi affiora anzi un ‘americanismo’ quasi sbandierato, che non si risolve certo in un atteggiamento di maniera, ma che nasce piuttosto dalla convinzione che proprio il modello americano abbia nel corso della sua storia trasformato l’antitesi potenzialmente distruttiva fra democrazia e mercato in un formidabile strumento di estensione dell’uguaglianza sociale e in un altrettanto eccezionale meccanismo capace di salvaguardare l’uguaglianza politica. Ma questa convinzione non si traduce in un’acritica celebrazione del mercato e dei suoi attori, e non è certo casuale, sotto questo profilo, che Parsi individui un momento di snodo nella storia del Novecento proprio nella stagione di F.D. Roosevelt, una stagione capace di dare di nuovo sostanza alla promessa di uguaglianza della democrazia statunitense: «Il New Deal, semplicemente» – scrive Parsi – «rimise in rotta l’America riguardo alla sua stella polare originaria: il riconoscimento che tutti gli uomini nascono uguali e la promessa che la via del perseguimento della felicità debba essere garantita a ognuno. Comunità e individuo, dunque. Non la comunità contrapposta alla società né comunità e società insieme ostili all’individuo, come oggi recita uno stanco conservatorismo venato di nostalgie per un mondo pre-moderno immaginato a proprio uso e consumo» (p. 57).
Alla base del mutamento che ha condotto alla rottura dell’equilibrio dinamico fra democrazia e mercato stanno naturalmente molti aspetti, ma Parsi si sofferma con particolare attenzione sull’impatto costituito dalla dissoluzione dell’Urss. Non tanto perché la vecchia Unione Sovietica rappresenti per Parsi un modello di uguaglianza, quanto perché la sconfitta del socialismo reale ha avuto due fondamentali implicazioni: sul versante strettamente culturale, ha comportato sia la dissoluzione di quei filoni teorici che si richiamavano più o meno direttamente al marxismo, sia, soprattutto, la disgregazione della stessa tradizione politica socialista, che ha finito col coinvolgere anche l’idea di uguaglianza; sul versante politico, il venir meno della minaccia sovietica ha invece allentato quella tensione che – per tutta la Guerra fredda – aveva in qualche modo richiesto l’adozione di misure atte a garantire la coesione sociale e a impedire che il conflitto sociale interno a ogni società potesse tramutarsi in una ‘guerra civile mondiale’: «Una volta sconfitto il nemico e integrata nuova forza lavoro e nuovi capitali, il sistema ha deciso di ridurre progressivamente quella vera e propria tassa per la coesione sociale rappresentata dai meccanismi di welfare nelle sue diverse forme e declinazioni» (p. 90). In questo modo, l’Ottantanove e la sconfitta del nemico sovietico hanno davvero dato l’avvio alla fase più travolgente della ‘globalizzazione’, consistente nella ‘liberazione’ delle forze del mercato, fino a quel momento costrette dai vincoli della Guerra fredda. Il risultato – scrive Parsi – non è comunque consistito nella riscoperta del pensiero liberale, bensì in un progressivo impoverimento della lezione liberale: «A mano a mano che ci allontanavamo dalla guerra fredda si è così consentito che ci allontanassimo anche da un semplice assunto della dottrina liberale correttamente intesa: ovvero che lo Stato serve innanzitutto a proteggere i diritti dei cittadini. Il Leviatano trova la sua legittimazione in questo e non nella tutela dei privilegiati. […] La libertà del mercato è diventata presto la dittatura del mercato, dove gli unici che sperimentano una crescente libertà – dalle regole, dalle responsabilità e, alla fine, persino dal corretto funzionamento di un’economia di mercato – sono i grandi operatori: quelli finanziari ancor più di quelli economici» (p. 92). Nella storia dei tormentati rapporti fra democrazia e mercato, Parsi individua in particolare uno snodo cruciale nell’ascesa di Reagan e Thatcher, a proposito della cui eredità osserva: «Il legittimo intento di liberare il mercato dall’eccesso di vincoli in cui era stato costretto e quasi soffocato nei decenni precedenti finiva in realtà col trasformarsi nella produzione di veri e propri volani degli animal spirits del capitalismo. Accadeva così che il naturale oscillare del pendolo legislativo tra il laissez-faire e la regolazione statale venisse a essere modificato con l’infissione di una serie di paletti che impedivano l’alternanza delle due posizioni. Sempre di più, il punto di vista più liberista diventava il benchmark, il punto di riferimento, mentre quello anche solo moderatamente regolativo veniva a collocarsi oltre il politicamente plausibile. Quella che soprattutto in Europa poteva ben definirsi una riaffermazione (anche necessaria, dopo anni di eccessivo interventismo statale) del libero mercato finiva con il divenire uno strumento attraverso il quale la forza della ricchezza e la forza del numero si venivano a congiungere a tutto vantaggio delle prima e a crescente svantaggio del secondo. Ma come è stato possibile piegare la forza del numero alla forza della ricchezza? La risposta è: rimuovendo progressivamente dal centro del dibattito politico la questione degli interessi e dei loro inevitabili conflitti, sostituendoli con i valori. Insistendo cioè sul fatto che le istanze culturali ed etiche siano trasversali alle differenze economiche e maggiormente rilevanti» (p. 81).
Se la riflessione di Parsi si spinge all’indietro, il suo sguardo è rivolto naturalmente al presente della crisi economica, sociale e politica che stiamo vivendo. Senza limitarsi a un rimpianto nostalgico del passato, Parsi si interroga così sul possibile futuro di quello che è stato, ai suoi occhi, il «canone occidentale», capace non solo di tenere insieme democrazia e mercato, ma anche di fare del precario equilibrio fra questi due poli una leva di sviluppo economico e di estensione dell’uguaglianza. E, da questo di vista, non cede neppure al pessimismo, perché ritiene che sia necessario «riaffermare con forza la fede nel progresso, nella capacità umana di inventare un destino comune, anche grazie alla straordinaria risorsa costituita dalla politica» (p. 167). Nella conclusione del volume, indica così nella tassazione delle transazioni internazionali dei capitali una misura a partire dalla quale si può forse tornare a pensare al futuro in termini di ‘progresso’. Ma, soprattutto, ritrova nella ridefinizione di quell’instabile e dinamico equilibrio fra democrazia e mercato l’unico modo con cui l’Occidente può affrontare davvero la sfida dei prossimi decenni, e in special modo la sfida proveniente da una combinazione di sviluppo capitalistico e autoritarismo che non caratterizza soltanto il gigante cinese. «La compresenza tra istituzioni democratiche e mercato, di per se sola» – osserva Parsi – «non garantisce un’armonia naturale tra forze che rispondono a principi opposti: la diseguaglianza per il mercato, perché solo attraverso la creazione di diseguaglianza e lo sfruttamento delle diseguali competenze e opportunità si creano quegli incentivi a innovare, organizzare le attività produttive e spostare il denaro dove il suo rendimento è più efficiente; l’uguaglianza per la democrazia, perché solo se i cittadini percepiscono di essere ugualmente tutelati e intitolati di uguali diritti effettivi, allora possono non forzare il campo delle regole democratiche per cercare di far saltare quei meccanismi di controllo sul mercato che apparentemente sono d’ostacolo all’uguaglianza» (p. 173). È proprio «nella diversità dei privilegi di fondo cui rispondono – diseguaglianza verso uguaglianza – che sta la forza dell’accoppiata tra democrazia e mercato» (p. 174). E, dunque, come conclude Parsi, «la capacità di mantenere in equilibrio le ragioni del mercato e quelle della democrazia – così rafforzando la rule of law – resta il modo migliore per difendere il nostro modello di sviluppo, mantenere attrattivi i nostri mercati per i capitali internazionali e, quello che più conta, continuare a lottare per cercare di garantire alle generazioni che ci seguiranno un futuro migliore di quello che gli stiamo riservando» (pp. 178-179).
Un critico eccessivamente severo dice che il liberalismo sta alla libertà come la pornografia all’amore, perché – proprio come la pornografia – il liberalismo fornisce una rappresentazione abnorme, dilatata, di un aspetto della vita normale, e allestisce uno spettacolo deforme di cui rimaniamo sempre solo tristi e solitari spettatori. Naturalmente, il liberalismo non corrisponde davvero a questa feroce caricatura, ma certo negli ultimi decenni abbiamo assistito a una deriva intellettuale che ha impoverito culturalmente la tradizione liberale, trasformata in una noiosa sequela di moniti liberisti contro lo statalismo, spesso finalizzati solo a giustificare privilegi e rendite di posizione. Contro questa versione impoverita del liberalismo Parsi non risparmia la propria vis polemica, benché non si possa minimamente dubitare delle strenue convinzioni liberali che sostengono l’analisi svolta nella Fine dell’uguaglianza. Se il libro di Parsi costituisce così una sorta di boccata d’ossigeno, che riscopre la profonda nervatura democratica e persino ‘ugualitaria’ della migliore tradizione liberale, uno degli aspetti più importanti del libro è proprio la riabilitazione del New Deal, spesso dipinto negli ultimi tre decenni come un esperimento maldestro, messo in piedi da economisti improvvisati e destinato a prolungare una crisi che altrimenti si sarebbe molto più rapidamente. Come puntualmente osserva Parsi, il New Deal – se certo fu un grande esperimento, che comportò anche numerosi errori – fu infatti una straordinaria avventura politica e intellettuale, che, oltre a salvare probabilmente il capitalismo americano dall’implosione, modificò davvero il volto della società statunitense e il profilo dell’immaginario democratico. Tanto che non è affatto provocatorio sostenere che la nostra democrazia – quella forma di regime che chiamiamo con un nome antico, ma che è ben più recente – nasca, o rinasca, proprio negli anni della Presidenza di F.D. Roosevelt. Oggi la fisionomia della democrazia sorta in quella stagione è ormai quasi in pezzi, o quantomeno logorata in alcuni dei suoi tasselli di base. E, dinanzi a una crisi così simile (per portata e conseguenze sociali) a quella degli anni Trenta, diventa per noi cruciale chiederci se sia possibile – e a quali condizioni – un altro New Deal, un nuovo corso che sia in grado di rivitalizzare le economie occidentali e le istituzioni democratiche. La risposta naturalmente non può venire soltanto dalla riflessione intellettuale, ma quello che la riflessione intellettuale può cercare di fare è individuare, nelle pieghe di una società disgregata e sempre meno ‘uguale’, le tracce di un assetto – magari informe – su cui impiantare un nuovo ‘compromesso democratico’. Ed è però proprio su questo punto che i segnali risultano estremamente deboli, e non soltanto perché i soggetti che davano forma al vecchio ‘compromesso democratico’ si sono ormai dissolti, perché rappresentano quote marginali della società, e perché le basi da cui traevano il loro potere non esistono più. La trasformazione delle nostre società e delle nostre economie non ha infatti dato forma – neppure in modo labile – a nuovi soggetti organizzati a partire dai quali immaginare nuovi equilibri. I ‘frammenti’ appaiono fra loro davvero sempre più distante da ipotesi e prospettive di ricomposizione, anche perché le logiche finanziarie hanno penetrato in profondità gli stessi reticoli produttivi e le vite individuali, affondando i denti ben dentro quello che un tempo si poteva ancora considerare come l’«economia reale», oggi a ben vedere sempre meno distinguibile dall’economia finanziaria. Non è così affatto sorprendente che – come ha dichiarato recentemente Mario Draghi –anche le decisione della Banca Centrale Europea sui tassi di interesse non abbiano più alcuna conseguenza reale sul comportamento degli istituti di credito. E non è neppure sorprendente che, all’interno di un panorama in cui le relazioni di lavoro sono sempre più ‘individualizzate’ (e regolate da una molteplicità di contratti diversi), gli stessi margini di una politica dei redditi di tipo keynesiano si siano quasi completamente erosi. Ma è proprio in queste condizioni che – per quanto sia un’impresa estremamente problematica – diventa oggi necessario immaginare il New Deal del XXI secolo, e al tempo stesso reinventare quell’equilibrio virtuoso fra democrazia e mercato che ha segnato la storia del Novecento.
La frase con cui John Maynard Keynes invitava a diffidare del lungo periodo, in cui saremo tutti morti, è diventata nel tempo una battuta quasi triviale. Spesso si dimentica però che quell’ammonimento sintetizzava davvero la condizione in cui l’Occidente si trovava negli anni della Grande Depressione. Perché sul lungo periodo – se non si fosse il corso il rischio del New Deal, se non si fosse compiuto l’azzardo di una completa ridiscussione dei dogmi dell’economia neo-classica, se non si fosse davvero preso atto della situazione drammatica in cui il ’29 aveva precipitato le economie del Nuovo e del Vecchio Mondo – a morire sarebbe stato proprio l’Occidente, stretto nella morsa della rivoluzione comunista e dell’avanzata dei regimi autoritari. Oggi, quelle minacce non esistono più. Ma, forse, anche per noi ragionare sul lungo periodo – rinviando a un domani ben al di là da venire le soluzioni radicali, replicando le formule rituali dell’ortodossia, continuando a operare come se in fondo nulla fosse accaduto, e sperando che prima o poi tutto torni com’era – rischia di diventare soltanto il terribile viatico alla rassegnazione a un destino di declino economico, politico, culturale. Perché il pendolo che oscilla fra democrazia e mercato – via via più sbilanciato sul versante del mercato – assomiglia sempre di più al pendolo del claustrofobico racconto di Poe. Tanto da farci sospettare che il prossimo colpo del pendolo sia destinato a sorprenderci nelle profondità di un pozzo dal quale non siamo più in grado di riemergere. E dal quale non riusciamo neppure più a intravedere – o persino soltanto a immaginare – un futuro migliore.  

Damiano Palano

sabato 9 febbraio 2013

Occidente in liquidazione. Un saggio di Niall Ferguson




di Damiano Palano

Questa recensione di Niall Ferguson, Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà, Mondadori, pp. 425, euro 22.00, è apparsa su "Avvenire" del 2 febbraio 2013.

Nel clima infuocato del primo dopoguerra, Oswald Spengler fissò nel Tramonto dell’Occidente (1918-1922) la convinzione che la civiltà occidentale fosse ormai prossima al declino. Molti altri storici e filosofi, nel corso del Novecento, condivisero però lo stesso timore, forse anche perché nella stessa etimologia di «Occidente» - la terra del tramonto – si nasconde l’oscuro presentimento che la civiltà occidentale sia destinata a percorrere la medesima sequenza di ogni giornata. E che, all’alba e al momento di massimo fulgore, debba dunque seguire un inevitabile crepuscolo. A questo classico nodo si accosta anche lo storico britannico Niall Ferguson, docente all’Università di Harvard ed editorialista del «New York Times». Ma con Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà, Ferguson riesce soprattutto a combinare perfettamente la perizia dello storico economico con la grande abilità del divulgatore. Un’abilità che gli estimatori dello studioso britannico hanno d’altronde già avuto modo di apprezzare in alcuni dei suoi lavori più fortunati, come Impero, Colossus, XX secolo, l’età della violenza. E che rende Occidente una lettura senza dubbio appassionate, anche se probabilmente destinata a sollevare più di qualche obiezione.
Con il grande affresco di Occidente, Ferguson si colloca sul sentiero già percorso da studiosi come Arnold Toynbee, Pitrim Sorokin e Paul Kennedy. Anche per lo storico britannico il destino di ogni civiltà (e di ogni grande potenza) assume la forma di un ciclo di nascita, crescita e morte. L’obiettivo principale è dunque comprendere quali siano i motivi che consentono l’ascesa globale dell’Occidente a partire dal XV secolo, ossia nel momento in cui la civiltà occidentale – definita come “un complesso di norme, comportamenti e istituzioni dai confini estremamente confusi” – comincia la propria espansione. E lo storico ritrova la spiegazione del successo nel consolidamento di nuove istituzioni, idee e comportamenti: la competizione fra gli Stati, lo sviluppo della scienza, l’affermazione dei diritti di proprietà, i progressi delle conoscenze in campo medico, la diffusione della società dei consumi e di una nuova etica del lavoro (combinata con una cultura del risparmio). Lo sguardo di Ferguson è però soprattutto indirizzato dalla convinzione che il declino della civiltà occidentale sia in fondo inevitabile, se non proprio imminente. Non senza inquietudine, sospetta infatti che il collasso non sarà lento e graduale, bensì improvviso ed estremamente rapido. Dopo tutto, osserva lo storico britannico, anche se la disgregazione del vecchio impero di Roma aveva radici profonde, la sua decomposizione fu piuttosto rapida. In soli cinquant’anni la popolazione dell’Urbe si ridusse di tre quarti, mentre il crollo si realizzò nel giro di una sola generazione. E qualcosa di simile potrebbe accadere anche all’Occidente moderno. 
Quando sottolinea il rischio che il collasso ci sorprenda “come un ladro nella notte”, Ferguson guarda ovviamente all’ascesa della potenza cinese e allo spostamento del baricentro dell’economia mondiale verso Oriente. Ma pensa soprattutto alla crisi finanziaria esplosa nell’estate del 2007. Una crisi che giunge nel quadro di una prolungata accumulazione del debito e in un sistema segnato dunque da un’estrema fragilità. Ferguson non intende però ritagliare per se stesso il ruolo di nuova Cassandra. Il suo intento è piuttosto richiamare l’attenzione sui rischi che il mondo occidentale sta correndo. E anche per questo Ferguson indica il problema principale nella dissoluzione della nostra conoscenza storica. Una dissoluzione che certo è il riflesso di un impoverimento culturale, ma che comporta soprattutto un indebolimento della nostra capacità di leggere la realtà. “Il passato”, scrive infatti Ferguson, è “l’unica fonte affidabile per comprendere il nostro effimero presente e i molteplici futuri che ci stanno davanti”. Forse la minaccia più insidiosa non proviene allora dall’Asia, ma da un appiattimento di ogni profondità storica, che ci fa dimenticare il passato e che ci rende miopi verso le insidie del futuro.

Damiano Palano