di Damiano Palano
A
poche ore dagli scrutini, quasi ogni testata italiana segnala come il risultato
uscito dalle urne sia del tutto, o largamente, inaspettato. Non tanto, e non
solo, perché il Movimento 5 Stelle supera il Popolo della Libertà, diventando
il primo (o il secondo) partito a livello nazionale, collocandosi sostanzialmente
sullo stesso livello percentuale del Partito Democratico, o perché la
formazione guidata da Beppe Grillo, al suo primo test nazionale, arriva ben al
di sopra di quella soglia del 21% dei voti circa che ottenne Forza Italia al
suo battesimo elettorale, nel 1994. Ma soprattutto perché il quadro che emerge
è segnato da una sostanziale ingovernabilità. Un’ingovernabilità che la legge
elettorale ‘corregge’ alla Camera, assegnando il premio di maggioranza alla coalizione
di centro-sinistra, con neppure il 30% dei suffragi e circa 100.000 voti di
scarto rispetto al centro-destra. E che invece dilata ulteriormente al Senato,
perché l’assegnazione del premio di maggioranza su base regionale finisce col
fotografare piuttosto fedelmente la ripartizione dei voti, con il
centro-sinistra a poco più del 31% e il centro-destra a un’incollatura di circa
un punto percentuale.
Dinanzi
a questo quadro, la sorpresa è comprensibile, ma non è del tutto
giustificabile. Le grandi tendenze, che puntualmente i sondaggi preelettorali
non sono riusciti a cogliere (come nel 2006, ma forse in modo ancora più
clamoroso), erano in effetti prevedibili. E, in particolare, erano prevedibili
i due risultati principali usciti dal responso delle urne, e cioè la clamorosa sconfitta
del Partito Democratico, che tutti i sondaggi davano per largamente vittorioso
negli ultimi sei mesi e che invece si attesta su un risultato di lista e di
coalizione al di sotto delle più nere aspettative di tutti i dirigenti del
partito, e il clamoroso buco nell’acqua del centro, che non solo non riesce a insidiare
neppure lontanamente il PdL, ma che non pare neppure in grado di giocare un
ruolo rilevante nel nuovo quadro politico.
L’‘imprevedibile’
resurrezione del PdL e del suo leader non erano affatto impossibili da
prevedere. Perché a favorire questo risultato era proprio il mantenimento del ‘Porcellum’,
una legge elettorale che – a dispetto delle dichiarazioni solenni – il Partito
Democratico si è ostinatamente rifiutato di modificare, nella convinzione di
poter finalmente vincere a mani bassi su un fronte di centro-destra ormai allo
sbando. Naturalmente, il Pd era favorevole a una modifica che introducesse il
premio di maggioranza nazionale anche al Senato, perché in questo modo avrebbe
potuto ottenere una schiacciante maggioranza di seggi sia a Montecitorio, sia a
Palazzo Madama, pur potendo contare su uno striminzito 30% dei voti validamente
espressi. Ma, piuttosto comprensibilmente, non si trattava di un’ipotesi che
gli altri partiti presenti in Parlamento potevano prendere in considerazione, perché
alla vigilia delle elezioni non si può pretendere che il probabile perdente accetti
una legge che lo penalizza fortemente. Per questo, data la resistenza del Pd a
cedere (soprattutto sull’introduzione di una soglia di sbarramento per il
premio di maggioranza al 40%), il ‘Porcellum’ non è stato modificato, e la
conseguenza prevedibile era proprio il ritorno in scena di Berlusconi e la
riattivazione di quel conflitto identitario che ha portato a votare ‘turandosi
il naso’ molti elettori ormai delusi dal centro-destra, ma pervicacemente ostili
alla coalizione di centro-sinistra (oltre che al centro montiano).
Quanti
seguono questo blog, potevano leggere, per esempio, nel dicembre 2012: “il
‘Porcellum’ non fornisce soltanto un forte incentivo a formare coalizioni per
impedire che l’avversario ottenga quella manciata di voti in più sufficiente
per accaparrarsi il premio di maggioranza. Più specificamente, il sistema
elettorale vigente consegna ai due principali attori – ossia a quegli attori
che sono capaci (o che vengono percepiti come tali) di competere per la
vittoria – il potere di fissare di fissare le regole per entrare a far parte
della coalizione: concedendo ai piccoli partiti di continuare a esistere,
inducendoli ad accettare l’incorporazione, oppure costringendoli a combattere,
fuori dal perimetro della coalizione, per superare la soglia di sbarramento. È
scontato come la legge dell’oligopolio tenda oggi a favorire proprio il Pd, che,
dinanzi a un centro-destra in crisi di identità e di organizzazione, viene
accreditato come il vincitore delle prossime elezioni. Secondo gli attuali
sondaggi elettorali, il Pd potrebbe addirittura pensare di poter vincere le
elezioni, accaparrandosi il premio di maggioranza alla Camera, persino correndo
da solo, ossia rinunciando all’alleanza con Sel. Ed è perciò piuttosto scontato
che il Pd sia stato il principale avversario di una revisione del ‘Porcellum’,
nonostante si sia spesso dichiarato negli ultimi anni come ferocemente avverso
al vigente sistema elettorale. D’altronde, la percezione di questi mesi è che
il Pd si trovi dinanzi all’equivalente politico del ‘gol a porta vuota’, perché
si trova – o, meglio, si è trovato fino a questo momento – privo di avversari
credibili e accreditato dai sondaggi di circa dodici-quindici punti dal secondo
partito (che peraltro sembrerebbe essere il Movimento 5 Stelle, e non il Pdl).
Ovviamente è bene dare alle rilevazioni delle intenzioni di voto un peso relativo,
ed è opportuno non dimenticare che il Pds, nel 1994, si trovò dinanzi a una
situazione in fondo molto simile a quella odierna, e cioè a previsioni di
vittoria clamorosamente smentite dagli ultimi due mesi di campagna elettorale e
dal responso delle urne. Ma, paradossalmente, se è stata proprio la previsione
di una vittoria (tutto sommato agevole) a spingere il Pd a resistere a ogni
ipotesi di modifica della legge elettorale, potrebbe essere proprio questa
scelta a dare risultati inaspettati. Perché proprio la conservazione del
‘Porcellum’ imprime una fortissima spinta al ritorno in scena di Silvio
Berlusconi. Ma, soprattutto, perché la legge Calderoli assegna al leader del
Pdl quella posizione oligopolista che, di fatto, potrebbe impedire al centro di
conquistare una rilevanza politica. Al di là della questione delle preferenze,
a spingere il Pdl a non abbandonare la legge Calderoli è stata d’altronde
proprio la consapevolezza che il vigente sistema elettorale consegna a questo
partito (o, meglio, al suo leader) una rendita oligopolistica ancora rilevante.
Beninteso, si tratta di una rendita logorata dal tempo e dagli insuccessi, come
tendono a registrare i sondaggi. Ma si tratta ancora di una rendita importante,
che consente un vantaggio cruciale a Berlusconi. Il punto discriminante non sta
tanto nella possibilità di competere con il Pd, quanto nella distanza che
separa il Pdl dalle formazioni di centro. E, dato che questa distanza appare
tutto sommato notevole (e probabilmente incolmabile), la pressione alla logica
del ‘voto utile’ è destinata ad aumentare, favorendo proprio l’assetto del
duopolio. In altre parole, è piuttosto prevedibile che l’elettore di
centro-destra – incerto se votare al centro o a destra – tenderà a privilegiare
il contendente che ha maggiori possibilità (o, meglio, quella forza che viene
percepita come maggiormente in grado) di contrastare la coalizione di sinistra,
ossia proprio la coalizione guidata da Silvio Berlusconi. Anche perché, se in
Italia le identificazioni partitiche negli ultimi vent’anni si sono indebolite,
non si sono certo disgregate, e tendono piuttosto a ridefinirsi in termini di
fedeltà di coalizione e a essere dunque sostenute dall’ostilità verso quella
che viene percepita come la parte avversaria. […]. Che a queste logiche
sistemiche si debbano aggiungere altri elementi – dalla freddezza dell’elettore
di destra per il Presidente Monti, all’abilità di una campagna capace di
rivitalizzare le più radicate divisioni politiche – è in fondo quasi scontato.
Ma il punto è che tutti questi elementi finiscono col rendere molto forte la
spinta a una nuova ‘discesa in campo’ del fondatore di Forza Italia. Certo
questa spinta può essere ostacolata dall’intervento di altri fattori, per così
dire, extra-sistemici. Ma la sensazione – a circa due mesi dal voto – è che la
mancata modifica della legge elettorale, al di là del responso che forniranno
le urne, debba risolversi nella vittoria dei due oligopolisti della politica
italiana. Che il centro – al di là della configurazione politica che assumerà,
o del ruolo che assumerà Mario Monti – rimarrà soffocato dal duopolio” (La legge dell’oligopolio. Ovvero, perché non c’è spazio per il centro).
Dinanzi
a questo stallo prevedibile, le soluzioni sono altrettanto prevedibili, e il
balletto delle prossime settimane si giocherà attorno alle due posizioni del
ritorno immediato alle urne e della formazione di un ‘governissimo’. Ma, sotto
la pressione della ‘piazza’ e delle ‘borse’, è evidente che nessuno di questi
due scenari è praticabile, senza correre rischi enormi, quasi vitali. Probabilmente,
avrà la meglio una soluzione intermedia di un governo istituzionale ‘a tempo’,
congegnato per fare una nuova legge elettorale. Ma non è detto che questa
soluzione possa davvero modificare il quadro. Perché nessuna legge elettorale
può realmente dare stabilità a un quadro così magmatico, perché la prospettiva
di un nuovo governo di larghe intese non può certo neutralizzare la portata offensiva
del Movimento 5 Stelle, e perché la pressione esterna sull’Italia è destinata a
rendere incandescente la situazione dei prossimi mesi. In altre parole, quelle
vie di uscite che ancora esistevano alla fine del 2010, o nel novembre del
2011, oggi si sono trasformate in un vincolo cieco. Purtroppo, quello che su
cui si è ormai da tempo incamminata l’Italia sembra appare più simile a un
piano inclinato, sui cui – anche resistendo con tutte le forze – è più o meno
inevitabile scivolare lentamente verso il fondo. E la prospettiva del declino politico
ed economico– cui tutti dicono di volersi opporre – sembra per questo diventare,
di giorno in giorno, un destino inevitabile.
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