di Damiano Palano
Questo articolo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica
Ritardato solo di poche ore, l’avvio dello “tsunami tour” di Beppe Grillo è destinato a riaprire il dibattito sulle effettive possibilità del Movimento 5 Stelle di incidere sul sistema politico italiano e sui contorni di un fenomeno che sfugge a tutte le più consolidate classificazioni politologiche. Da quando Grillo ha cominciato ad affacciarsi sulla scena, la sua proposta è stata etichettata infatti come l’ennesima testimonianza di “antipolitica”, di “populismo”, di “qualunquismo”. E le immagini dell’evento fondativo del Movimento 5 Stelle, il “V-day” bolognese dell’estate 2007, dovevano lasciare davvero l’impressione di una sguaiata protesta, a metà fra la goliardia, il cattivo gusto e una sorta di ‘squadrismo’ postmoderno. Il linguaggio di Grillo è d’altronde la lingua di un comico che si è scoperto tribuno, e non è sempre così facile capire se l’uso del turpiloquio e di formule ai limiti del vilipendio siano farina del sacco dell’uomo di spettacolo oppure efficaci trovate comunicative del leader politico. Ciò nonostante è almeno in parte improprio liquidare il sostegno accordato al M5S soltanto come un’espressione di ‘antipolitica’. Certo il grande successo ottenuto da questa formazione nelle elezioni amministrative della primavera del 2012 e nelle successive consultazioni siciliane è dovuto proprio a classici motivi ‘antipolitici’, come la protesta contro la “casta”, l’obiettivo sbandierato di mandare ‘a casa’ l’intera classe politica, o addirittura l’intento di sottoporla a processi politici. Ma se l’accusa di coltivare l’“antipolitica” – come critica sistematica alla politica, alle sue regole, ai suoi protagonisti – è quantomeno meritata per lo stile di Grillo, la questione è quantomeno più complessa per quanto riguarda il movimento che attorno alla sua figura si è coagulato, e che – nonostante tutte le polemiche degli ultimi mesi – sembra essersi solo parzialmente indebolito. Innanzitutto, le radici del movimento non sono affatto superficiali, e non possono essere ridotte alla semplice dimensione della protesta antipolitica. Non si può infatti dimenticare come negli ultimi cinque anni il M5S si sia radicato, nelle regioni del Centro-Nord, coagulandosi attorno a proposte specifiche, relative in particolare allo smaltimento dei rifiuti e alle energie alternative. In altre parole, dunque, il ceto politico locale del M5S non è semplicemente una creazione di Grillo, ma, piuttosto, ha trovato nel comico un megafono capace di dare forza e coerenza a energie frammentate. Inoltre, le proposte di Grillo sul versante della politica nazionale, per quanto si possano considerare ‘populiste’, ‘demagogiche’ o ‘fallimentari’, possono contare in Europa su un certo sostegno anche presso altre formazioni radicali.
Il punto non sta allora, probabilmente, nel carattere più o meno ‘antipolitico’ del M5S, o nel profilo più o meno ‘populista’ delle sue parole d’ordine, anche perché il movimento guidato da Grillo difficilmente sarà chiamato a responsabilità di governo. Il vero nodo, per comprendere la consistenza del Movimento 5 Stelle, sta piuttosto nelle sue effettive possibilità di durare nel tempo. E, da questo punto di vista, i problemi riguardano la capacità di ottenere davvero quei risultati elettorali che i sondaggi prevedono (o prevedevano fino a qualche settimana fa), dalla resistenza del M5S alla routine della campagna permanente (che, come si è visto negli ultimi tre mesi, può essere tutt’altro che indolore), e dall’abilità che mostrerà Grillo nel padroneggiare – per di più dall’esterno – la pattuglia che sbarcherà in Parlamento, grande o piccola che essa sia.
Dal punto di vista dei risultati elettorali, dopo il 2012 non è più possibile sottovalutare le potenzialità del M5S. Se le regionali del 2010 avevano mostrato una notevole vivacità del movimento (per esempio in Piemonte e in Emilia-Romagna), le amministrative del maggio scorso – con il clamoroso risultato di Parma – hanno confermato la consistenza del fenomeno, mentre le regionali siciliane, in cui il Movimento è diventato il primo partito dell’isola, hanno ribadito in modo inequivocabile il fatto che non si tratta di un fenomeno effimero. Sull’esito delle prossime elezioni politiche pesa però un’incognita rilevante, che rischia di rendere poco attendibili i sondaggi di questi ultimi mesi. Sebbene sia del tutto plausibile un incremento dell’astensione anche alle politiche del 2013, è però improbabile che il valore cali molto al di sotto dell’80%, la soglia sotto cui fino ad ora non si è mai scesi nella storia repubblicana. E questo significa che le stime dei sondaggi dell’ultimo anno devono essere considerate quantomeno con una certa cautela. Non vanno infatti trascurati il peso del sistema elettorale e, in particolare, la logica del ‘voto utile’ (‘utile’ soprattutto in chiave difensiva, ossia per evitare la vittoria di una coalizione radicalmente avversata): una logica che tende a diventare pressante, anche per l’elettore ‘distratto’, ‘alienato’ e ‘ostile’ al sistema dei partiti, soprattutto nel caso delle elezioni politiche nazionali. È infatti opportuno ricordare che già in altre occasioni gli italiani hanno premiato le forze ‘anti-casta’ in elezioni percepite meno rilevanti, per poi orientarsi in modo molto diverso in occasione delle consultazioni politiche (basti pensare, da questo punto di vista, al successo della Lista Bonino alle europee del 1999). Non è detto che questo effetto non si faccia sentire anche nelle elezioni di febbraio, anche se certo il M5S parte con una dote molto consistente, che può consentire di far fronte persino a una più o meno lieve emorragia di voti determinata dal ritorno di alcuni ‘ex-delusi’ alle rispettive case di appartenenza. In altre parole, nonostante i sondaggi continuino ad assegnare alla formazione guidata dal Grillo un risultato superiore al 12%, non è affatto da escludere che gli elettori italiani siano almeno in parte richiamati all’ordine dalle rispettive fedeltà partitiche (certo attenuate rispetto al passato, ma non dissolte), come di solito avviene in occasione delle consultazioni politiche nazionali. E certo il ritorno in scena di Silvio Berlusconi è destinato a rafforzare la logica del ‘voto utile’, a destra e a sinistra, insidiando dunque il M5S.
Un secondo rischio che il futuro riserva a Grillo non riguarda invece il risultato delle elezioni, ma il quadro post-elettorale. Comunque vadano le cose a fine febbraio, una pattuglia più o meno consistente di parlamentari del M5S approderà infatti in Parlamento, e allora sarà davvero difficile per Grillo mantenere un controllo sul loro operato, perché il modello organizzativo costruito negli ultimi anni sarà messo a dura prova dalla presenza di un gruppo parlamentare. Ovviamente, in gioco in questo caso non sarà tanto la democrazia interna, quanto il monopolio sul ruolo di portavoce del movimento. I partiti di massa non erano molto democratici, ma i partiti personali non lo sono molto di più, e – come abbiamo scoperto in questi mesi – anche il M5S, partito personale sui generis, non sfugge alla regola. Il fatto che il Movimento 5 Stelle sia un ‘partito’ (o, meglio, un ‘non partito’) fondato da un comico di grande impatto, che il simbolo sia di sua proprietà, che a lui (e alla società di Casaleggio) siano riservate decisioni rilevanti riguardo all’ammissione e alla gestione della comunicazione, alimenta più di qualche sospetto. Ma proprio questa struttura è probabilmente all’origine del successo ottenuto negli ultimi anni dal movimento. La formula del ‘partito in franchising’ ha consentito infatti a Grillo di conservare il monopolio sul ‘marchio’, ossia sulla comunicazione nazionale, sulla definizione del profilo pubblico del nuovo soggetto. Ma, al tempo stesso, la concessione dell’utilizzo del marchio a livello locale – con un significativo margine di autonomia anche sulle scelte adottate – ha garantito al movimento la possibilità di dotarsi di un certo radicamento territoriale. Questo meccanismo è però destinato a entrare in crisi con l’ingresso in Parlamento di una rappresentanza che, in quel momento, otterrà una visibilità nazionale del tutto incontrollabile da parte di Grillo (e del tutto incontrollabile anche da parte degli stessi deputati e senatori del M5S). Così, gli stessi presupposti del partito in franchising verranno meno, perché Grillo non sarà più ‘tecnicamente’ in grado di controllare l’utilizzo del ‘marchio’ e di definire i contenuti della comunicazione.
Nei mesi scorsi abbiamo assistito alle prime espulsioni dal M5S e a episodi che hanno notevolmente appannato l’idea di “democrazia liquida” che Grillo e Casaleggio hanno costruito attorno loro movimento. Ma questi episodi non sono destinati a rimanere isolati, perché sono in qualche misura una conseguenza della struttura stessa del ‘partito in franchising’. E per questo problema – che è ‘strutturale’, e dunque non legato alle personalità di Grillo e Casaleggio – sono possibili solo due soluzioni.
In primo luogo, Grillo può decidere di trasformare il M5S in un partito fortemente strutturato e disciplinato, oltre che di assumere direttamente il ruolo di leader del partito. Ma anche in questo caso i risultati non sono assicurati, perché ovviamente il divieto di mandato imperativo consente anche ai deputati e ai senatori del M5S di fondare un nuovo gruppo, del tutto indipendente da Grillo e libero dai suoi condizionamenti. La seconda soluzione è forse ancora più probabile e semplice da realizzare, ma non prevede un ruolo da protagonista di Grillo. In questa seconda ipotesi, i parlamentari del M5S possono per esempio decidere di creare – da soli o con altre forze, espresse per esempio dalle liste arancioni di Ingroia – un “quarto polo” di opposizione. Grillo e Casaleggio sono ben consapevoli di questo rischio, ed è molto probabile che nella costruzione delle liste elettorali ne abbiano tenuto conto e abbiano anche cercato di costruire argini a questa potenziale – ma tutt’altro che improbabile – fuoriuscita degli eletti dal recinto del movimento. D’altronde, alcuni mesi fa, rispondendo a Gian Antonio Stella che gli chiedeva fino a che punto si spingesse la democrazia interna del movimento, e se gli attivisti del M5S fossero liberi anche di scegliersi un nuovo leader, Grillo rispondeva: «Liberi di fondare un altro movimento». E i prossimi mesi ci diranno se il comico genovese diventerà a tutti gli effetti un nuovo protagonista della politica italiana, o se, improvvisamente, verrà degradato al ruolo di ‘cavallo di Troia’, uscendo così dall’arena politica.
Ciò non significa però che non debbano essere tenute nel debito conto le istanze di cui il comico genovese si è fatto collettore, o che il successo di Grillo non debba essere preso sul serio, e liquidato solo come una provocazione destinata a non lasciare traccia. Molti osservatori si sono interrogati sull’effettiva novità del fenomeno, e qualcuno ha ritrovato un’anticipazione del ‘grillismo’ nella provocazione lanciata in Francia nel 1981 dal comico Coluche, presentatosi alle elezioni presidenziali poi vinte da Mitterand, in Guglielmo Giannini, il «commediografo» che fondò «L’Uomo Qualunque» e che nel 1946 riuscì a portare alla Costituente trenta deputati, o nella prima Lega Nord di Umberto Bossi. Tutti questi paragoni colgono alcuni tratti del ‘fenomeno Grillo’, ma – com’è inevitabile –rischiano di smarrire qualcosa. Nel caso di Coluche si trattava per esempio solo di una provocazione, quasi di uno scherzo diventato inaspettatamente serio, perché il comico – al di là dell’intento di una energica critica alla classe politica transalpina – non fondò mai un partito e, di fatto, non entrò neppure nell’arena politica, perché uscì dalla campagna appena i sondaggi iniziarono ad accreditargli percentuali significative. Inoltre, anche se l’Uomo Qualunque anticipava molti di quegli elementi che avrebbero contrassegnato la successiva «antipolitica», il sorprendente successo di Giannini andava soprattutto interpretato come un riflesso della transizione di regime, come la testimonianza di una società ancora diffidente nei confronti dei nuovi partiti, oltre che, probabilmente, della stessa democrazia. Per quanto riguarda infine gli esordi della Lega Nord, al di là di alcuni vicinanze ‘retoriche’ e della condivisione della critica al sistema partitocratico, la distanza, oltre che sotto il profilo dei referenti sociali, appare notevole sul terreno dei riferimenti ‘ideologici’. Se la Lega degli inizi riportava alla ribalta un’Italia in qualche misura ‘arcaica’, l’Italia dei dialetti, dei campanili, delle ‘piccole patrie’, il linguaggio di Grillo – e l’estetica con cui ha costruito l’immagine del M5S – è basata invece sull’aspirazione di interpretare la battaglia del ‘nuovo’ contro il ‘vecchio’: una politica nuova negli obiettivi ma soprattutto nelle forme organizzative. E non è dunque affatto incidentale che il M5S abbia rivendicato esplicitamente la volontà di dar forma un’organizzazione ‘liquida’, orizzontale, abissalmente distante da tutti i vecchi partiti.
Il ‘fenomeno Grillo’ presenta caratteristiche in parte differenti rispetto a tutti questi precedenti. Ed è forse per questo che un paragone va fatto anche con Gabriele d’Annunzio. Non certo, beninteso, col poliedrico artista, col prosatore raffinato, o – a quanto è dato sapere – con l’instancabile esploratore dell’immaginario erotico. Ma, piuttosto, con il d’Annunzio politico, che per qualche anno – soprattutto nel clima infuocato dell’immediato primo dopoguerra – riuscì a mettere insieme forze fra loro estremamente eterogenee, che trovarono un punto di coagulo nella spedizione fiumana. È scontato che fra i legionari fiumani e il M5S vi siano enormi differenze, ed è inoltre fin troppo chiaro che il profilo dei due leader non appare minimamente paragonabile (neppure per quanti trovino in d’Annunzio solo un esteta sopravvalutato e un formidabile propagandista di se stesso). Il punto è però che questi due politici anomali hanno in comune tre caratteristiche cruciali. In primo luogo, si tratta di leader che – anche per la loro provenienza ‘professionale’ – riescono effettivamente a cogliere le potenzialità offerte dalle trasformazioni comunicative per lanciare l’attacco con il ‘vecchio’ sistema politico. In secondo luogo, si tratta di capi per molti versi ‘improvvisati’, che, da un certo punto di vista, non credono neppure alla possibilità di trasformare se stessi in politici di professione, nei dirigenti di partiti strutturati. Infine – ed è questo il punto forse più rilevante – tanto d’Annunzio quanto Grillo, al di là della reale consistenza della loro proposta politica, riescono davvero a ‘rappresentare’ le istanze, spesso contraddittorie, di quelle nuove generazioni, che si sentono schiacciate, escluse, sfruttate dal sistema politico e dalla sua casta. A prescindere dal giudizio politico che se ne può dare, è infatti evidente che d’Annunzio – con la sua gonfia retorica nazionalista, con l’esaltazione di un ‘superomismo’ un po’ caricaturale, con l’esibizione dell’estetica guerresca – riusciva a riflettere le inquietudini di una generazione che, oltre a essersi abbeverata alle pagine del Vate, aveva sopportato i costi umani della guerra e sperimentato il trauma – sociale, culturale, economico – di una prorompente ‘massificazione’. D’Annunzio diventò così il simbolo di una generazione (ma anche di un gruppo sociale) che cercava una rivalsa e quel riconoscimento che probabilmente si attendeva e che nessuno le aveva tributato. Forse il poeta abruzzese non riuscì neppure a comprendere ciò che stava fermentando, e cosa muovesse le energie che confluirono nella ‘festa’ fiumana. Probabilmente, se riuscì ad accendere la miccia, non fu però mai realmente in grado di esercitare un controllo sull’incendio che si sarebbe sviluppato di lì a poco, tanto che altri avrebbero raccolto i frutti dell’effimera Repubblica fiumana.
Per quanto il paragone sia forse eccessivo, leggendo in questi i giorni i dieci punti dell’«agenda Grillo», stilata dal comico in contrapposizione con l’«agenda Monti», sembra davvero di trovarsi dinanzi a qualcosa di simile alla Carta del Carnaro. Perché, impastati fra loro, si trovano tutti gli ingredienti di una protesta radicale: dalla critica giustizialista alla partitocrazia, con l’impegno ad abolire il finanziamento pubblico dei partiti e a introdurre il «politometro» (relativo ai guadagni conseguiti dai politici negli ultimi vent’anni), alla battaglia contro la moneta unica e contro l’austerità richiesta dall’Ue; dalla rivendicazione della democrazia diretta (per esempio, con l’introduzione del referendum propositivo) alla promessa di introdurre un reddito di cittadinanza. È ovvio che quasi tutti questi punti sono semplicemente delle indicazioni programmatiche, destinate – come tutti i programmi elettorali di ogni forza politica – a essere cestinate il giorno successivo allo svolgimento delle consultazioni (e d’altronde è del tutto improbabile che il M5S riesca a diventare una forza di governo). Ma la cosa importante è che questi punti, con la loro semplicità, e anche con la loro brutalità, riescono effettivamente a cogliere lo stato d’animo delle nuove generazioni, oltre che di quella generazione, né giovane né vecchia, nata negli anni Settanta, che costituisce la componente più consistente degli attivisti del Movimento 5 Stelle. Una generazione che si sente sconfitta, un po’ come si sentivano sconfitti i giovani cui si rivolgeva d’Annunzio. Non perché abbia combattuto una guerra da cui non ha ottenuto alcun beneficio. Ma perché ha dovuto sperimentare tutti gli svantaggi della ‘precarizzazione’ del mondo del lavoro. Perché, a dispetto di un tasso di scolarizzazione molto superiore rispetto a quello dei loro padri, si trova ad avere retribuzioni molto inferiori e prospettive di miglioramento quasi inesistenti. Perché si trova – e si troverà a pagare nei prossimi decenni – gli errori compiuti da altri. Perché si sente oppressa da un ceto politico che reputa inferiore, incapace, rapace, e perché ritiene moralmente e politicamente inaccettabile il fatto che a decidere delle loro pensioni e dei loro contratti di lavoro siano politici ultrasessantenni (o addirittura tecnici ultrasettantenni) con laute pensioni e solidissime posizioni.
Sarebbe ingenuo pensare che tutti i fallimenti della ‘Seconda Repubblica’ possano essere attribuiti a una questione anagrafica, e ancora più semplicistico che la lotta fra generazioni rappresenti un sostituto credibile del conflitto tra le classi sociali. D’altronde, le cronache ci hanno mostrato come la voracità, l’incapacità, il dileggio di ogni criterio morale, non siano certo monopolio della gerontocrazia, e abbiano trovato invece entusiasti cultori fra gli esponenti più giovani della classe politica italiana. Ma tutte queste considerazioni valgono a poco quando ci si trova dinanzi a un sentimento di rancore e ostilità così radicato come quello che una parte consistente della società nutre verso il sistema politico e verso i partiti, qualsiasi coloritura essi assumano. D’altronde, tutti possiamo oggi riconoscere che Fiume era per l’Italia del primo dopoguerra soprattutto un simbolo. Ma, si sa, i simboli in politica contano. E Grillo ha avuto la capacità di coagulare forze fino ad allora del tutto disperse e di diventare un simbolo. Un simbolo che – con tutte le sue incognite – molto probabilmente non sopravviverà politicamente alla sua fortuna. Ma che prima di quanto si pensi – e in particolare dinanzi a un parlamento ingovernabile, costretto a ricorrere ancora una volta una grande coalizione, ‘commissariata’ dalle istituzioni europee – potrebbe aprire la strada a nuovi leader, magari meno divertenti e meno abili nel maneggiare la comunicazione, ma capaci di mutare l’eredità di un esperimento riuscito in un prezioso capitale politico.
Damiano Palano
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