di Damiano Palano
Non era difficile immaginare che Silvio Berlusconi non sarebbe affatto uscito di scena dopo la caduta del suo governo. E non era neppure troppo complicato immaginare che, dopo tanti impegni e proclami, la riforma della legge elettorale sarebbe rimasta lettera morta. A spingere in questa direzione stava infatti l'interesse di entrambi gli oligopolisti del sistema politico italiano a conservare saldamente la loro posizione di forza. La breve riflessione che segue - apparsa sul sito dell'Istituto di Politica - cerca di esplicitarne le motivazioni.
Dopo essere quasi scomparso dalla geografia della ‘Seconda Repubblica’, il centro sembra debba tornare a giocare un ruolo rilevante sulla scena politica italiana. Se nella stagione del bipolarismo “centro” era infatti soltanto una paroletta evocata per ingentilire la brutalità – reale o presunta – di termini come “destra” e “sinistra”, oggi l’idea che le forze che si collocano nella fascia mediana dello spettro politico abbiano una loro autonomia – da riconoscere e valorizzare – pare essere diventato un luogo comune. Tanto che in quest’area già piuttosto affollata di pretendenti – e peraltro fino ad ora non certo accreditata dai sondaggi di grandi risultati – sono cresciute nelle ultime settimane molteplici proposte di nuove formazioni, di cartelli elettorali, di liste civiche nazionali, di cui l’attuale Presidente del Consiglio rimane l’inevitabile riferimento, oltre che il possibile collante.
A pesare sulle sorti elettorali del centro, e sulla possibilità che il centro conquisti davvero una propria autonomia dalla destra e dalla sinistra, è però l’attuale legge elettorale. Benché dal momento in cui è stata concepita e varata sia stata oggetto di biasimo generalizzato, se non addirittura del dileggio propalato dalla stessa classe politica, e nonostante il Presidente della Repubblica abbia periodicamente ammonito il Parlamento sull’urgenza di giungere a una modifica del testo, la ‘legge Calderoli’ rimane ancora oggi in vigore, e gli italiani si apprestano dunque a votare per la terza volta con il cosiddetto ‘Porcellum’. I motivi per cui i buoni propositi dichiarati dai partiti non hanno avuto alcun seguito sono naturalmente complessi. E, d’altronde, è scontato che modificare le regole con cui i voti vengono trasformati in seggi pochi mesi (o addirittura poche settimane) prima dell’appuntamento elettorale sia un’operazione ben più difficile – oltre che forse eticamente discutibile – che introdurre dei cambiamenti all’inizio della legislatura. Per il semplice motivo che le attese sui risultati si fanno più credibili quanto più ci si avvicina al momento del voto e che i calcoli sui vantaggi che si otterrebbero (o sui costi che si dovrebbero sopportare) adottando un determinato sistema finiscono col dissolvere il ‘velo di ignoranza’ in qualche misura necessario per giungere a una decisione condivisa su questo tema. Ma non è solo questo il motivo per cui non si è giunti alla riforma della legge elettorale vigente. E non è stata neppure – come spesso è stato sostenuto dai fustigatori del vizi della «Casta» – solo la volontà di conservare il potere di ‘nominare’ gli eletti che di fatto il sistema vigente consegna ai vertici dei partiti. Naturalmente l’ipotesi di reintrodurre le preferenze, invocata a gran voce come strumento per aumentare il potere di controllo degli elettori sugli eletti, ha avuto il suo peso nell’arenare del dibattito. Ma queste considerazioni hanno giocato un ruolo probabilmente secondario rispetto alla logica ben più pressante che ha orientato le principali forze presenti in Parlamento verso il mantenimento della legge vigente. Una logica e che va individuata – com’è in larga parte scontato – proprio negli effetti, più o meno consapevolmente voluti, del ‘Porcellum’.
L’attuale sistema elettorale non produce infatti le condizioni della ‘governabilità’, perché – come si è sperimentato nel 2006 – l’assegnazione del premio di maggioranza con criteri diversi alla Camera e al Senato non rende affatto scontata la formazione di una maggioranza omogenea nei due rami del Parlamento (e soprattutto non assicura neppure che al Senato si formi una maggioranza). Se non produce la tanto sospirata ‘governabilità’, il ‘Porcellum’ tende però a produrre la costituzione di un oligopolio, o, meglio, di un duopolio. Ad agire in questa direzione non sono tanto le soglie di sbarramento, esplicite o implicite, che impediscono alle piccole forze politiche, che non fanno parte di grandi coalizioni, di entrare in Parlamento. A spingere in questo senso è soprattutto l’assegnazione, alla Camera, del premio di maggioranza a quella coalizione (o lista non collegata) che, avendo superato la soglia del 10%, abbia ottenuto la maggioranza relativa dei suffragi. La logica della disposizione è quella di assegnare un ‘premio’ che consenta la governabilità, ma un effetto ancor più rilevante è quello di favorire l’adozione, da parte dell’elettore, della logica del ‘voto utile’. Per esempio, se un elettore di sinistra è combattuto fra l’alternativa tra dare il proprio voto alla Federazione della Sinistra o sostenere la coalizione elettorale formata dal Partito Democratico e da Sinistra Ecologia e Libertà, molto probabilmente tenderà a optare alla fine per questa seconda ipotesi, per almeno tre motivi: in primo luogo, perché avrà il forte timore che il proprio voto si riveli del tutto inutile, perché la Federazione della Sinistra potrebbe non superare la soglia del 4%; in secondo luogo, perché il suo obiettivo diventerà piuttosto ‘spostare a sinistra’ la coalizione di centro-sinistra (un obiettivo che può essere perseguito proprio evitando di ‘disperdere il voto’ in liste minori); in terzo luogo, perché avrà ben chiaro che l’unico modo per evitare la vittoria dell’avversario – ossia della coalizione di destra, o di centro-destra – è far confluire il proprio voto su quella forza che ha maggiori possibilità di giocarsi sul filo di lana la vittoria. In altre parole, esistono forti pressioni ‘sistemiche’ (ossia esterne ai singoli partiti) che fanno sì che l’elettore tenda a convergere su una delle due coalizioni dominanti, o su quelle coalizioni che siano percepite come tali. E queste pressioni ‘sistemiche’ possono attenuarsi solo nel caso in cui diventi poco probabile che nessuna delle coalizioni riesca a ottenere il premio di maggioranza. Ma con l’attuale sistema elettorale, un’ipotesi del genere è del tutto esclusa (anche perché è piuttosto improbabile, benché tecnicamente possibile, che nessuna coalizione superi la soglia del 10%).
Questa sorta di ‘legge dell’oligopolio’, come noto, ha prodotto risultati diversi nelle ultime due elezioni. Nel 2006, la pressione sistemica raggiunse forse il livello più elevato, con la formazione di due coalizioni enormi, che, seguendo la stessa logica che guida la corsa agli armamenti, spinse il centro-sinistra e il centro-destra a imbarcare quanti più alleati (anche piccoli, persino minuscoli) possibile, perché, in fondo, un minimo scarto di qualche migliaio di voti poteva risultare decisivo, come poi è in parte accaduto. Nel 2008, il ‘Porcellum’ ha invece prodotto un risultato diverso, ma anche in questo caso la legge dell’oligopolio ha funzionato. Se la scelta del Partito Democratico di Walter Veltroni di correre da solo (con il supporto esclusivamente dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro) non fu certo in grado di consentire di competere con la coalizione avversaria, quella decisione si dimostrò invece straordinariamente efficace nel ‘taglio dei cespugli’, ossia nell’eliminazione della sinistra radicale dalle aule del Parlamento. In questo caso, oltre alla evidente disillusione seguita alle disavventure del governo di Romano Prodi, una parte rilevante venne giocata proprio dal ‘voto utile’, ossia dalla percezione che solo facendo convergere il proprio voto verso il Pd l’elettore di sinistra avrebbe potuto arginare, se non scongiurare, la vittoria del Pdl.
La comprensione del potere offerto dal Porcellum ai partiti ‘oligopolisti’ – un potere forse neppure previsto da chi congegnò la legge – rimane probabilmente la principale (se non addirittura l’unica) vittoria politica di Walter Veltroni. In effetti, il primo a cogliere l’importanza della rendita di posizione offerta ai grandi partiti dalla legge Calderoli fu proprio l’ex sindaco di Roma e oggi acclamato romanziere, che intuì come il Pd e il Pdl – proprio come gli attori di un mercato oligopolistico – potessero erigere una sorta di barriera all’ingresso del mercato elettorale, decidendo, ciascuno nel proprio campo, di ‘tagliare i cespugli’. Perché, in sostanza, il ‘Porcellum’ non fornisce soltanto un forte incentivo a formare coalizioni per impedire che l’avversario ottenga quella manciata di voti in più sufficiente per accaparrarsi il premio di maggioranza. Più specificamente, il sistema elettorale vigente consegna ai due principali attori – ossia quegli attori che sono capaci (o che vengono percepiti come tali) di competere per la vittoria – il potere di fissare di fissare le regole per entrare a far parte della coalizione: concedendo ai piccoli partiti di continuare a esistere, inducendoli ad accettare l’incorporazione, oppure costringendoli a combattere, fuori dal perimetro della coalizione, per superare la soglia di sbarramento.
È scontato come la legge dell’oligopolio tenda oggi a favorire proprio il Pd, che, dinanzi a un centro-destra in crisi di identità e di organizzazione, viene accreditato come il vincitore delle prossime elezioni. Secondo gli attuali sondaggi elettorali, il Pd potrebbe addirittura pensare di poter vincere le elezioni, accaparrandosi il premio di maggioranza alla Camera, persino correndo da solo, ossia rinunciando all’alleanza con Sel. Ed era perciò piuttosto scontato che il Pd sia stato il principale avversario di una revisione del ‘Porcellum’, nonostante si sia spesso dichiarato negli ultimi anni come ferocemente avverso al vigente sistema elettorale. D’altronde, la percezione di questi mesi è che il Pd si trovi dinanzi all’equivalente politico del ‘gol a porta vuota’, perché si trova – o, meglio, si è trovato fino a questo momento – privo di avversari credibili e accreditato dai sondaggi di circa dodici-quindici punti dal secondo partito (che peraltro sembrerebbe essere il Movimento 5 Stelle, e non il Pdl). Ovviamente è bene dare alle rilevazioni delle intenzioni di voto un peso relativo, ed è opportuno non dimenticare che il Pds, nel 1994, si trovò dinanzi a una situazione in fondo molto simile a quella odierna, e cioè a previsioni di vittoria clamorosamente smentite dagli ultimi due mesi di campagna elettorale e dal responso delle urne. Ma, paradossalmente, se è stata proprio la previsione di una vittoria (tutto sommato agevole) a spingere il Pd a resistere a ogni ipotesi di modifica della legge elettorale, potrebbe essere proprio questa scelta a dare risultati inaspettati. Perché proprio la conservazione del ‘Porcellum’ imprime una fortissima spinta al ritorno in scena di Silvio Berlusconi. Ma, soprattutto, perché la legge Calderoli assegna al leader del Pdl quella posizione oligopolista che, di fatto, potrebbe impedire al centro di conquistare una rilevanza politica.
Al di là della questione delle preferenze, a spingere il Pdl a non abbandonare la legge Calderoli è stata d’altronde proprio la consapevolezza che il vigente sistema elettorale consegna a questo partito (o, meglio, al suo leader) una rendita oligopolistica ancora rilevante. Beninteso, si tratta di una rendita logorata dal tempo e dagli insuccessi, come tendono a registrare i sondaggi. Ma si tratta ancora di una rendita importante, che consente un vantaggio cruciale a Berlusconi. Il punto discriminante non sta tanto nella possibilità di competere con il Pd, quanto nella distanza che separa il Pdl dalle formazioni di centro. E, dato che questa distanza appare tutto sommato notevole (e probabilmente incolmabile), la pressione alla logica del ‘voto utile’ è destinata ad aumentare, favorendo proprio l’assetto del duopolio. In altre parole, è piuttosto prevedibile che l’elettore di centro-destra – incerto se votare al centro o a destra – tenderà a privilegiare il contendente che ha maggiori possibilità (o, meglio, quella forza che viene percepita come maggiormente in grado) di contrastare la coalizione di sinistra, ossia proprio la coalizione guidata da Silvio Berlusconi. Anche perché, se in Italia le identificazioni partitiche negli ultimi vent’anni si sono indebolite, non si sono certo disgregate, e tendono piuttosto a ridefinirsi in termini di fedeltà di coalizione e a essere dunque sostenute dall’ostilità verso quella che viene percepita come la parte avversaria.
Che a queste logiche sistemiche si debbano aggiungere altri elementi – dalla freddezza dell’elettore di destra per il Presidente Monti, all’abilità di una campagna capace di rivitalizzare le più radicate divisioni politiche – è in fondo quasi scontato. Ma il punto è che tutti questi elementi finiscono col rendere molto forte la spinta a una nuova ‘discesa in campo’ del fondatore di Forza Italia. Certo questa spinta può essere ostacolata dall’intervento di altri fattori, per così dire, extra-sistemici. Ma la sensazione – a circa due mesi dal voto – è che la mancata modifica della legge elettorale, al di là del responso che forniranno le urne, debba risolversi nella vittoria dei due oligopolisti della politica italiana. Che il centro – al di là della configurazione politica che assumerà, o del ruolo che assumerà Mario Monti – rimarrà soffocato dal duopolio. E che il dibattito politico italiano continuerà a essere dominato dalla paradossale contrapposizione ideologica fra due poli privi di ideologie.
Damiano Palano
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