di Damiano Palano
Quando Cesare Lombroso morì, nel 1909, Agostino Gemelli scrisse che, insieme ai funerali dell’uomo, si celebravano anche quelli della sua dottrina. In effetti, con il suo giudizio il fondatore dell’Università Cattolica – e studioso di psicologia sperimentale – registrava un elemento reale. L’entusiasmo per il positivismo si era allora quasi completamente dissolto, mentre la rinascita neo-idealista stava guadagnando terreno. Proprio Lombroso e la sua dottrina, i simboli paradigmatici della fiducia risposta nella scienza, dovevano essere fra i primi a fare le spese del nuovo clima. La sua ‘scuola di antropologia criminale’ continuò a resistere per qualche anno, ma perse comunque gran parte del fascino e dell’influenza che aveva esercitato negli ultimi due decenni dell’Ottocento. E, così, lo psichiatra divenne un simbolo – o forse addirittura la caricatura – delle ingenuità della stagione positivista.
Dopo un secolo, negli ultimi anni si stanno registrando i segnali di un nuovo interesse per la figura di Lombroso. Nel centenario della morte, libri e convegni sono tornati a interrogarsi sulla sua riflessione, e persino il Museo di Antropologia Criminale, che Lombroso istituì a Torino, ha riaperto al pubblico. Ora, viene anche ripubblicato, con la cura di Lucia Rodler, il testo principale dello psichiatra, L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie (Il Mulino, pp. 437, euro 33.00).
La nuova attenzione per Lombroso potrebbe destare più di qualche inquietudine, se fosse dettata dall’obiettivo di riabilitare le teorie dello psichiatra, o dal tentativo di rinvenire nei suoi studi un’anticipazione della criminologia contemporanea. Ma, probabilmente, l’interesse che ancora oggi attira il ‘caso Lombroso’ è dovuto ad altri motivi. Ed è legato soprattutto al successo che quelle teorie ebbero nell’Europa fin de siècle.
A ben vedere, la straordinaria popolarità di Lombroso non era dovuta né all’originalità delle sue ipotesi, né al rigore delle sue ricerche. Era piuttosto connessa alla sua grande capacità di rivestire di abiti apparentemente scientifici i più consolidati luoghi comuni o le più fantasiose supposizioni. La fama di Lombroso è in effetti legata alla cosiddetta teoria dell’atavismo, una teoria secondo cui i criminali sarebbero in sostanza il risultato di un arresto nel processo evolutivo: uomini e donne dalla psicologia ‘primitiva’, incapaci di adattarsi alle regole della società moderna, e che per questo continuano a utilizzare le armi di un mondo primordiale. Nell’Uomo delinquente (e soprattutto nella sua prima edizione, apparsa nel 1876), Lombroso espose effettivamente questa teoria, e cercò di riconoscere negli ospiti delle carceri del Regno i segni dell’atavismo: anomalie fisiche e soprattutto nella struttura del cranio. In seguito, lo psichiatra rivide però questa teoria, pur senza sconfessarla. E ipotizzò anche l’intervento di altri fattori, che potevano spiegare le varie condotte criminali.
Nelle pagine dell’Uomo delinquente, non si trova così una teoria ben precisa sulla genesi del crimine. Si trovano piuttosto teorie differenti, neppure del tutto compatibili fra loro, affastellate l’una sull’altra, spesso senza reale sistematizzazione. In quelle pagine, così come nella sterminata produzione lombrosiana, ci si imbatte invece in una straordinaria galleria di volti criminali. Una galleria in cui i casi reali (spesso deformati) si affiancano a quelli letterari, in un intreccio inestricabile fra scienza e letteratura. E, probabilmente, il vero motivo del successo di Lombroso stava proprio qui. Aprendo ai ‘profani’ le porte del suo laboratorio, lo psichiatra dava al pubblico dell’Italia fin de siècle l’illusione di penetrare i recessi più riposti dell’animo umano. L’illusione di poter risolvere quei casi di cronaca nera cui la grande stampa iniziava a dare spazio. E, dunque, di squarciare il velo dei misteri criminali con il bisturi della nuova scienza.
Certo si può considerare Lombroso come un ispiratore di quei filoni scientifici che oggi puntano a trovare a livello genetico le determinanti del comportamento criminale. Ma Lombroso fu soprattutto un precursore della contemporanea criminologia prêt-à-porter, dell’ossessione macabra per i delitti che riempie le pagine dei giornali e i palinsesti televisivi. E forse per questo vale oggi la pena di rileggere L’uomo delinquente. Non come un testo scientifico, ma come un fortunato romanzo popolare.
Damiano Palano