di Damiano Palano
«I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale, in tutta l’estensione di un Paese non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità». Queste parole lasciano pochi dubbi sull’opinione che Simone Weil aveva dei partiti. Il suo Manifesto per la soppressione dei partiti politici, recentemente ripubblicato da Castelvecchi (pp. 60, euro 6.00), costituisce d’altronde un’inappellabile requisitoria anti-partitica, e in questo senso si inserisce in un frequentatissimo genere della letteratura politica. Nonostante alcune assonanze, sarebbe però ingeneroso leggere oggi il Manifesto come un’anticipazione dello spirito ‘antipolitico’ contemporaneo.
Per molti versi, le argomentazioni di Weil sono le stesse che Jean-Jacques Rousseau aveva sviluppato nel Contratto sociale per mostrare il ruolo negativo delle fazioni e di ogni genere di ‘corporazione’. Anche per Weil, così come per il filosofo ginevrino, la «volontà generale» svanisce nel momento in cui insorge una «passione collettiva», ossia «un impulso al crimine e alla menzogna infinitamente più potente di qualsiasi passione individuale». Accecato dalla passione collettiva, un Paese non può non perdere di vista l’interesse comune e rimanere preda di volontà particolari. E, ovviamente, i partiti sono macchine costruite proprio per generare e alimentare laceranti passioni collettive. Un partito, secondo Weil, non è altro che «un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte». E il vero obiettivo di qualsiasi partito è solo «la sua propria crescita».
Quando il testo fu pubblicato per la prima volta, nel febbraio del 1950, l’autrice era già scomparsa da tempo. Affetta da tubercolosi, Simone Weil era morta infatti nel 1943, nel sanatorio di Ashford, a soli trentaquattro anni. Nel clima postbellico, il Manifesto doveva essere letto soprattutto come una condanna dello stalinismo e del ruolo che il Partito comunista andava assumendo sulla scena culturale francese. E proprio in questo senso André Breton celebrò il Manifesto e ne auspicò la più ampia diffusione. Ma la polemica di Weil aveva probabilmente anche un significato più generale. Un significato che anche oggi – per quanto i partiti contro cui Weil lanciava i propri strali non esistano più – non ha perso nulla dell’originaria portata. Il «testamento» di Weil – come lo definì il filosofo Alain – è infatti soprattutto una spietata critica di ogni politica totalitaria. Della politica che coltiva dentro di sé una vocazione alla ‘totalità’ e all’eliminazione di ogni potenziale avversario. E della politica che piega a un uso strumentale qualsiasi valore.
Damiano Palano
(Questo testo è apparso su "Avvenire" il 28 luglio 2012)
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