Questa
intervista è apparsa, in una versione leggermente diverse, sul settimanale “La
Voce dei Berici” di domenica 27 maggio 2012
Il giornalista economico
Ettore Livini ha anticipato quello che potrebbe scaturire nel sistema
finanziario europeo a seguito dell’uscita di Atene dall’euro. Un maremoto
economico difficilmente circoscrivibile all’isola greca. Con scenari da incubo
per i greci, per gli europei e per gli italiani.
L’Europa vive in un’attesa
pressoché immobile i risultati delle elezioni in Grecia il 17 giugno, che
possono davvero cambiare il corso della storia politica ed economica dell’Europa.
Intanto l’Ue non ha uno straccio di linea comune: tutte le proposte, come
quelle dell’emissione di titoli di debito europei (eurobond), si infrangono
nell’inflessibilità tedesca.
Per Damiano Palano,
professore di relazioni internazionali alla Cattolica di Milano, la riflessione
sul futuro dell’eurozona parte da assunti politici e non finanziari.
«La
vittoria di Hollande chiude sicuramente un ciclo della politica europea. Ma
cosa ci riserverà il nuovo ciclo rimane ancora poco chiaro, sia per l’Europa,
sia per l’Italia. Al cuore del programma che ha portato Hollande all’Eliseo sta
l’obiettivo di chiudere con una stagione segnata soltanto dal ‘rigore’
economico e di aprire invece una nuova fase concentrata sul sostegno alla
crescita. Si tratta di obiettivi condivisibili, ma ciò non significa che siano
facilmente realizzabili. In altre parole, non è soltanto una questione di
scarsa volontà politica, ma anche di avere a disposizione strumenti
istituzionali adeguati. E l’Unione europea di oggi non ha disposizione
strumenti in grado di incidere effettivamente sulla crescita. Il problema non
consiste allora soltanto nel superare le resistenze della Germania sulla linea
del rigore, ma anche nell’avviare una ridefinizione più radicale dei poteri
dell’Ue. E dobbiamo comunque avere presente che questo sarebbe un processo
inevitabilmente costoso, anche in termini politici»
L’asse Merkel e Sarkozy,
complice la debolezza finanziaria di molti paesi dell’eurozona, ha egemonizzato
la politica di Bruxelles. Usciti di scena Sarkozy e Berlusconi, con la Merkel
in caduta libera, che ruolo si ritaglierà l’Italia di Monti? «Senza dubbio il governo Monti ha
avuto il merito di ristabilire la credibilità internazionale dell’Italia, e uno
dei principali obiettivi alla base di questa operazione era d’altronde proprio
‘calmare’ i mercati. Sul piano europeo, è inoltre indiscutibile che Monti stia
giocando una partita difficile, volta ad attenuare le posizioni rigoriste dei
tedeschi e quei vincoli di bilancio che rendono impraticabili politiche dirette
a favorire crescita economica. Ma non dobbiamo dimenticare una cosa importante.
Il governo Monti ha ormai concluso la fase ascendente della propria parabola.
Dopo le elezioni amministrative, è già cominciata la lunga fase discendente.
Nei prossimi mesi, perderà molto probabilmente gran parte del sostegno di cui
ha goduto finora. La sua attività incontrerà così sempre più ostacoli nelle
stesse forze politiche che lo sostengono. E la credibilità dell’Italia, così
faticosamente riconquistata, potrebbe allora tornare a vacillare anche sul
piano europeo».
Alba dorata in Grecia,
Marine Le Pen in Francia, il partito di estrema destra Jobbik in Ungheria. I partiti
estremisti di destra e sinistra stanno erodendo il consenso delle ali moderate
nei Parlamenti del vecchio continente. Tutte formazioni antieuropeiste. Se si
aggiunge il probabile addio di Atene dall’Euro, quanto rischia il cammino
dell’integrazione politica ed economica dell’Europa?
«Il
processo di integrazione non è mai stato a rischio come in questo momento. Ma
non è sufficiente attribuire la responsabilità di queste difficoltà alle
formazioni anti-europeiste. Piuttosto, il ritorno di simboli e slogan
quantomeno preoccupanti è il risultato di nodi che solo ora vengono al pettine.
Nodi che riguardano le stesse modalità con cui il processo di integrazione è
stato pensato e realizzato. Sia chiaro: il processo di integrazione è per molti
versi una necessità indispensabile per un’Europa che rischierebbe altrimenti di
diventare del tutto marginale economicamente e politicamente nel mondo del XXI
secolo. Il punto è però che si è pensato che l’integrazione politica dovesse
scaturire ‘spontaneamente’ e senza traumi dall’unificazione economica e
monetaria. Non soltanto è stato attribuito all’economia un ruolo ‘sovrano’, ma
si è anche pensato che l’integrazione non producesse costi enormi in termini
sociali. Invece non poteva essere così, e non è stato così. Oggi gli europei si
sono svegliati da questo sonno e hanno scoperto uno scenario drammatico. Con
conseguenze che sono preoccupanti già oggi, ma che rischiano di diventare anche
più serie nei prossimi anni».
A spingere sul tasto
dell’antieuropeismo gioca anche la rinnovata questione della sovranità politica
ed economica dei paesi europei. Dopo l’arcinota lettera della Bce con destinatario
il governo italiano, molti commentatori parlano di commissariamento delle
prerogative nazionali da parte delle banche centrali e dei mercati finanziari.
Quanto la preoccupano le invasioni di campo di Bce e Fmi?
«La
famigerata lettera della Bce è solo uno degli episodi più eclatanti che
segnalano il ruolo che le istituzioni finanziarie internazionali hanno
conquistato negli ultimi anni. Senza dubbio si tratta di un processo che riduce
l’effettiva ‘sovranità’ delle nostre democrazie. Dietro queste dinamiche c’è
però una trasformazione più radicale, che ha mutato il volto delle nostre
economie e che ha consegnato all’economia finanziaria un potere enormemente
superiore a quello che aveva nel passato. È comunque troppo semplice
contrapporre l’economia ‘reale’ a quella ‘finanziaria’, attribuendo le
responsabilità solo alla seconda. La verità è che le logiche finanziarie sono
ormai penetrate largamente non solo in tutti gli aspetti dell’attività produttiva,
ma anche nelle nostre vite. Il punto più insidioso è però che l’economia
finanziaria è intrinsecamente ‘irrazionale’. Non si fonda su calcoli che i
singoli attori fanno razionalmente, ma su ‘convenzioni’, e dunque su basi che
possono dissolversi nel giro di qualche ora, per effetto di ondate di panico.
Gli Stati si trovano a rincorrere i mercati, adottando misure anche dalle
conseguenze sociali enormi e durature (come la riforma delle pensioni in
Italia). Ma si tratta di un lavoro di Sisifo che rischia di non avere mai
termine, per la stessa natura dei mercati finanziari».
La crisi del debito strangola
nuovamente i nostri titoli di stato, i mercati ci tengono sott’occhio. Chi sono
i nemici dell’Italia in questo momento?
«In
questa specie di ‘guerra’ che stiamo combattendo i ‘nemici’ sono in larga parte
invisibili o inafferrabili. Dietro i ‘mercati’, ci sono sicuramente speculatori
che approfittano della situazione, ma anche fondi di investimento che gestiscono
i soldi dei piccoli risparmiatori, operando secondo una logica ‘economica’. Il
problema dell’Italia non è però solo finanziario. Anzi, il principale ‘nemico’
dell’Italia è forse proprio l’Italia. Negli ultimi anni, il nostro Paese ha
perso infatti una parte rilevante delle proprie attività manifatturiere, ma al
tempo stesso non ha saputo riconquistare la competitività perduta in settori
nuovi. Il ‘declino’ economico dell’Italia – un declino che è ormai sotto gli
occhi di tutti – non ha un’unica causa, ma è probabilmente l’effetto di fattori
diversi e di scelte politiche quantomeno poco oculate. Per esempio, del modo
con cui sono state realizzate le privatizzazioni nei primi anni Novanta, delle
riforme del mercato del lavoro che hanno penalizzato le giovani generazioni,
della rigidità monetaria, dell’assenza di infrastrutture e sostegno alla
ricerca. A questo punto, è del tutto inutile cercare le responsabilità
politiche, che d’altronde sono ben distribuite fra tutti i governi della
‘Seconda Repubblica’. Ma si tratta quantomeno di riconoscere gli errori, per
evitare di ripeterli»
Le teorie complottiste
sembrano certe volte essere superate dalla realtà. Come si spiega l’ultimo anno
di storia europea senza ricorrere a scorciatoie alla Bilderberg o alla
Trilateral…?
«È
molto difficile sottrarsi alle suggestioni del complotto quando si guarda a
quello che abbiamo vissuto negli ultimi dodici mesi. E, d’altronde, è facile
immaginare che ci siano effettivamente interessi e gruppi che, pur operando
nell’ombra, cercano di spingere gli eventi in un certa direzione. Ma queste
spiegazioni rischiano di essere troppo semplici. O, meglio, rischiano di
confondere un sintomo con la causa della malattia. Da un certo punto di vista,
i tentativi di ordire ‘complotti’ sono sempre esistiti, e la storia italiana
dell’ultimo mezzo secolo ne è piena. Ma molto raramente questi progetti si
traducono in realtà o raggiungono i loro obiettivi. La novità di questi anni è
piuttosto la fragilità dei nostri sistemi politici, incapaci di resistere alle
pressioni e del tutto prive della capacità di governare un mondo sempre più
frammentato e complesso. Ed è in questo vuoto di potere che eventualmente si può
inserire l’azione più o meno occulta di attori che si celano fra le quinte del
palcoscenico mondiale. Ma credere ai grandi burattinai finisce anche per essere
un atteggiamento consolatorio, perché ci liberà da qualsiasi responsabilità
storica e politica».
L’Italia perde peso
anche in politica internazionale. Il caso dei Marò in India: facciamo troppo
poco dal punto di vista diplomatico o l’India è ormai una superpotenza che può
permettersi di snobbarci senza troppe remore? «Il caso dei Marò e la vertenza
diplomatica che si è aperta ci mette in effetti di fronte all’ascesa di una
nuova potenza del XXI secolo come l’India e ai segnali di declino di una media
potenza come l’Italia. Non si possono trarre conseguenze di carattere generale
da una situazione così specifica, ma certo non possiamo attenderci che l’Italia
conservi immutato il proprio ruolo internazionale in un quadro in cui Stati ‘quasi
continentali’ – come Cina, Brasile e la stessa India – si affacciano sulla scena della
politica mondiale, con la richiesta legittima di ‘contare di più’. Negli ultimi
anni, non si può dire che l’Italia non abbia avuto una politica estera. Per
esempio, l’Italia di Berlusconi ha ricercato una propria dimensione
internazionale seguendo però traiettorie che si sono in parte rilevante
fallimentari e hanno messo in discussione il rapporto con gli Usa. Questi
segnali ci dovrebbero però confermare che per l’Italia l’unica possibilità di
avere un ruolo continua a passare per l’Europa. In un mondo multipolare e
frammentato, in cui gli Stati Uniti finiranno con lo spostare il loro
baricentro verso il Pacifico, solo un’Europa unita può infatti mettere sul
piatto un peso significativo, capace di bilanciare la massa dei protagonisti
dei prossimi decenni. Ma si tratta di capire quale volto avrà davvero l’Europa del
futuro. E quale sarà il ruolo dell’Italia».
Berlusconi è stato fatto fuori dai "poteri forti".
RispondiEliminaMentre eravamo ditratti dalla spettacolarità mediatica della avventure di Arcore (roba da giornaletti da parrucchiere) ci hanno fatto il "colpo di Stato silenzioso".
Mettendocio un bancario al potere.
Amico, di padoaschippa, di Visco e di Prdoi.
Guarda caso quelli che ci han fatto entrare in Europa.
Oggi il debito è SALITO, lo spread è a livelli berlusconiani con MENO ECONOMIA e più DISOCUPPAZIONE.
In più diamo 500 eruo al mese agli immigrati appena sbarcati mentre i notrsi vecchi rovistano nella spazzatura...