sabato 2 giugno 2012

Elegia per il militante novecentesco. Note a margine di un libro di Franco Milanesi



di Damiano Palano
 
Nel suo romanzo Buio a mezzogiorno, Arthur Köstler fissò un memorabile ritratto del militante novecentesco, colto nel momento più cupo dei processi staliniani. Il tormento di Rubasciov, il protagonista del romanzo, lacerato tra la fedeltà alla causa rivoluzionaria e la disillusione più completa, era in larga parte il tormento dello stesso Köstler, nato a Budapest nel 1905 da genitori ebrei e cresciuto nel pieno della stagione che – fra le due guerre – dissolse nel breve arco di alcuni anni tutto quel «mondo di ieri» che Stefan Zweig rievocò malinconicamente nei suoi ultimi mesi di vita. Come molti intellettuali di quel periodo, anche Köstler fu investito dalla marea della totale Mobilmachung, capace di cancellare ogni tradizione, ogni gerarchia, ogni convenzione sociale, e si gettò a capofitto nella militanza politica, prima a sostegno della causa sionista e in seguito nelle fila del Partito Comunista. Fuggendo da una Berlino in cui si profilava sempre più chiaramente l’ascesa nazista, Köstler si diresse nel 1932 in Unione Sovietica, dove svolse alcuni incarichi per l’Internazionale comunista, e negli anni seguenti continuò a percorrere un’Europa incamminata a passi rapidi verso il nuovo conflitto. Già nel corso della guerra civile spagnola, iniziò a maturare il distacco dal marxismo, che lo portò a uscire dal Partito già nel 1939 e a sviluppare poi una radicale critica all’obbedienza cieca richiesta ai militanti comunisti. Proprio questo tema torna d’altronde quasi costantemente nei romanzi di Köstler e soprattutto nel Buio a mezzogiorno, uscito nel 1941 e ispirato al processo intentato contro Bucharin nella stagione delle purghe staliniane. 

Nel corso degli interrogatori cui viene sottoposto dai commissari del Partito, Rubasciov inizialmente respinge tutti i capi di imputazione, che lo accusano di avere tramato contro la rivoluzione e di avere svolto attività di spionaggio per conto delle potenze occidentali. Ma, lentamente, sotto i colpi di interrogatori incessanti, Rubasciov cede giorno dopo giorno. E Köstler indaga proprio il logoramento psicologico di Rubasciov, anche per cercare di comprendere quali siano, realmente, le motivazioni che possono spingere un individuo alla militanza: non a una militanza interessata, razionale, o condizionata, ma a una militanza totale, che comporta una completa rinuncia di se stessi a favore del partito e della sua missione storica. Ed è lo stesso Rubasciov a dichiarare – ancora nelle pagine iniziali del romanzo, mentre accusa un giovane militante di frazionismo – in cosa consista la cieca fiducia nel Partito: «Il Partito non può mai sbagliare […] Tu e io possiamo commettere degli errori, ma non il Partito. Il Partito, compagno, è più di te, di me e di mille altri come te e come me. Il partito è l’incarnazione dell’idea rivoluzionaria nella Storia. La Storia non conosce né scrupoli né esitazioni. Scorre, inerte e infallibile, verso la sua mèta. Ad ogni curva del suo corso lascia il fango che porta con sé i cadaveri degli affogati. La Storia sa dove va. Non commette errori. Colui che non ha una fede assoluta nella Storia non è nelle file del partito» (A. Köstler, Buio a mezzogiorno, Mondadori, Milano, 1996, p. 48).
Una decina di anni fa, Marco Revelli, accomiatandosi dal Novecento, assumeva il Rubasciov di Köstler come emblema del militante del XX secolo e del suo fallimento. Il militante novecentesco diventava nelle pagine di Revelli l’autentico simbolo del processo di «meccanizzazione» e «razionalizzazione», dalla cui seduzione i movimenti rivoluzionari non erano stati affatto immuni. Nel grande racconto di Oltre il Novecento, l’abnegazione individuale, la fedeltà ‘religiosa’ alla causa e alle direttive del Partito non erano però soltanto il frutto del clima ideologico del periodo, perché affondavano piuttosto le radici nello Zeitgeist di una stagione segnata in modo traumatico  dalla guerra mondiale, dalla Rivoluzione bolscevica, dall’avvento dei fascismi. In altri termini, la tenace disciplina dei militanti era il prodotto di eventi dirompenti, che avevano trasformato la violenza in un «elemento istitutivo dello stesso tempo storico, capillarmente innervata nei gangli vitali delle società massificate, forma universale e permanente dei rapporti collettivi tra gli uomini, identificata senza residui con il “Politico”» (M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino, 2001, p. 226). Così, proprio la violenza era divenuta «non atto esteriore (eccezionale e preliminare) alla costituzione della società ma modalità intrinseca del suo funzionamento, tale da fare dello stato d’eccezione la norma» (ibidem). Secondo questa lettura, allora, il movimento comunista e rivoluzionario (non diversamente d’altronde dalle socialdemocrazie occidentali, arrivate al potere in seguito a elezioni) accettò, senza sostanziali elementi di distinzione, sia la logica dello sviluppo industriale, sia lo stato di eccezione permanente affermatosi dopo la Grande Guerra. E, per questo, non poté che tramutarsi in una vittima di quella stessa «eterogenesi dei fini» contro cui aveva inteso combattere. In altre parole, la violenza penetrava nell’armamentario del movimento operaio, perché «si presentava come la forma strutturale attraverso la quale avviene la mobilitazione totale del mondo (e dunque quella mobilitazione estrema che è la Rivoluzione) nell’epoca della potenza tecnica dispiegata e della compiuta massificazione delle società». Per questo arriva così a costituire «il fattore attraverso il quale la volontà di potenza del ‘Politico’ s’illude di aver conquistato la propria piena indipendenza dalle derive lente e viscose di un ‘Sociale rimasto troppo a lungo impigliato nel reticolo dei ‘legami’ tradizionali, e di fatto si smarrisce e si annulla, costretta a servire il mezzo di cui aveva inteso servirsi» (ibi, p. 228). Una volta giunti al potere, tutti i partiti del movimento operaio avrebbero d’altronde proseguito la medesima «guerra del politico contro il sociale», condotta in nome delle esigenze dello sviluppo capitalistico. E, tramutando la contraddizione marxiana tra le forze produttive e i rapporti di produzione, nell’antagonismo tra lo sviluppo tecnologico e l’assetto privatistico dei rapporti sociali, persino il marxismo – o quantomeno una sua componente significativa – avrebbe abbandonato la fabbrica come luogo di conflitto, facendola diventare invece la base in cui costruire il proprio strumento politico, il partito.
Al principio del 2000, l’uscita di Oltre il Novecento fu preceduta da una polemica proprio sulla tesi del «tramonto» della figura storica del «militante», che secondo Revelli doveva lasciare il posto a un nuovo «uomo solidale», a un «volontario» in grado di rifiutare la logica della razionalità strumentale, per scoprire la logica del dono (cfr. M. Revelli, Novecento. L’esercito proletario, in «Carta», 2000, n. 3). Alla critica indirizzata verso il militante novecentesco, o quantomeno verso l’iconografia del militante costruita dalla tradizione comunista, fece seguito un intervento fortemente polemico di Rossana Rossanda (Il militante del Novecento, in «La rivista del manifesto», n. 4, 2000, pp. 6-8), cui si aggiunsero in seguito, oltre a una replica di Revelli e Aldo Bonomi (Risposta a Rossana Rossanda, in «La rivista del manifesto», n. 7, 2000, pp. 60-62), molti altri interventi, sollecitati dall’uscita di Oltre il Novecento, spesso fortemente polemici. Anche perché la critica indirizzata da Revelli al militante era, in realtà, una critica alla politica stessa, alla sua capacità di dar forma alla società e di guidare – più o meno efficacemente – le correnti della Storia.


Al di là dell’interpretazione generale di Revelli, relativa alla connessione fra l’industrialismo e ognuna delle diverse ideologie del XX secolo, una delle sue tesi, secondo cui la figura del militante novecentesco – con la sua ferrea disciplina, la sua dedizione alla causa, la sua psicologia lacerata fra dimensione ‘privata’ e dovere ‘politico’ – sarebbe un prodotto della ‘guerra civile mondiale’, non era affatto priva di fondamento. E opportunamente Franco Milanesi la raccoglie, la discute e ne dipana premesse e implicazioni nel suo Militanti. Un’antropologia politica del novecento (Punto rosso, Milano, pp. 160, euro 12.00), un testo che – come fa d’altronde intuire il sottotitolo del volume – è difficilmente inquadrabile in una specifica disciplina, perché si muove alla ricerca delle coordinate economiche, sociali, politiche, intellettuali in cui il militante collocò il proprio impegno ‘totalizzante’. Per Milanesi, la stagione della militanza si inserisce interamente nel «secolo breve», e il suo avvento è sancito in effetti dall’irruzione della Grande guerra sulla scena europea. Come sosteneva Ernst Jünger, l’Ottocento aveva dato forma al tipo del borghese, un tipo d’uomo cui corrisponde un’attitudine politica  del tutto subordinata alla centralità dell’individualismo e dei valori privatistici. Tutto questo mondo viene invece travolto, scardinato dalla fondamenta, dall’irruzione della guerra: «la guerra produce un salto di paradigma, verso una krisis che rimette in campo le possibilità della tras-formazione. Dalle tempeste d’acciaio del conflitto si è aperto un indefinito stato di eccezione che avvia il XX secolo annunciando il suo novum: la politica non più come scolorita gestione amministrativa dell’ordo borghese ma come sua contestazione, prefigurazione di alterità e organizzazione degli strumenti (ideali e materiali) del conflitto» (ibi, pp. 9-10). E a reggere questo progetto è proprio la figura del militante, il miles che, dalle trincee della Grande guerra, arriva fino nel cuore delle città industriali, per scalzare dalla sua pacifica esistenza il satollo tipo del borghese e per chiedere conto del prezzo pagato. Anche per questo, come nota Milanesi, la genesi della figura del militante è da ascrivere prima di tutto alla ‘Rivoluzione conservatrice’: «È quella mescola di violenza, idealità, insicurezza esistenziale, aggressione verso il nemico, conflittualità perenne, philia per la propria parte, che penetra nel tempo di pace, si insedia stabilmente nelle strutture della politica e disegna le soggettività mobilitate contro la borghesia. Il secolo della grande politica si caratterizza così, nella sua prima radice, come opposizione tra l’homo politicus, il militante e il borghese» (ibi, p. 10). Dentro il trauma della guerra, si colloca un nuovo immaginario, perché «con l’esperienza bellica si modificano le mentalità di intere popolazioni e si ridefinisce il rapporto tra cittadini, istituzioni, politica secondo le modalità di una Totale Mobilmachtung che, inaugurata nel 1914, coinvolge ora tutte le componenti sociali come politicizzazione dell’intera vita» (p. 23). E da questa politicizzazione integrale della vita derivano allora il «cameratismo», la solidarietà, la condivisione, ma anche l’opposizione irriducibile al nemico, l’odio nei confronti dell’avversario, un odio che tende a travolgere qualsiasi ‘zona grigia’.
Se è chiaro contro chi si volga il militante – contro il borghese, contro l’«ultimo uomo» nietzschano – non emerge invece così nitidamente per cosa combatta il miles del «secolo breve». Nel senso che non è così chiaro – almeno al principio – dove passi la linea di demarcazione tra la destra e la sinistra, tra i militanti per la classe e i militanti per la nazione. E infatti, «è innegabile che nel primo dopoguerra si rintraccino numerose convergenze tra la destra radicale e antiborghese e la sinistra rivoluzionaria proprio sul terreno della volontà antisistemica. I Freikorps tedeschi o i soldati di ventura fiumani, gli Arditi del Popolo pronti a riorientare i propri fucili verso le bon bourgeois ingrassato dal conflitto rientrano sotto vario titolo in una tipologia della militanza radicale del Novecento. Prossimità che sono all’origine di non rari passaggi di campo e di un ‘riconoscimento’ reciproco che portò gli attivisti delle due fazioni (come i soldati delle opposte trincee) a sentirsi parte di una comune casa politica, in cui spesso si intrecciavano nazionalismo popolare e appartenenza di classe in un fronte comunque opposto a quello della sicurezza e dello spirito mercantile, nel culto della potenza poietica del politico, nella difesa dei ‘diritti’ della collettività (classe e/o nazione)» (ibi, p. 11). La commistione fra i due versanti della militanza affiora per esempio negli itinerari di esponenti del nazionalbolscevismo e della Rivoluzione conservatrice, come naturalmente Ernst Jünger, come Ernst von Salomon e come Ernst Niekisch (ai quali è peraltro dedicato un nuovo volume di Milanesi, Ribelli e borghesi. Nazionalbolscevismo e Rivoluzione conservatrice. 1914-1933, Aracne, pp. 285, euro 17.00, con una prefazione di Pier Paolo Portinaro). La divisione tra i due campi è comunque destinata a emergere rapidamente. Per un verso, l’avversione jüngeriana per il borghese finisce col tramutarsi in una compiaciuta avversione per la massa, assumendo dunque i contorni di un’utopia reazionaria. Per l’altro, emerge invece la figura specifica della militanza di sinistra, intesa come «un movimento di trascendenza dal piano fattuale e di prefigurazione di un’alternativa di sistema» (ibi, p. 12).
Questa storia è stata naturalmente raccontata molte volte, e l’esempio di Revelli non ne costituisce che l’esemplificazione più recente. Ma l’obiettivo di Milanesi è diverso, perché la sua analisi tenta di ritrovare, nella militanza, qualcosa che sfugge alle raffigurazioni delle grandi ideologie del Novecento, qualcosa che si trova incastonato nella stessa coriacea materialità dell’impegno militante. E proprio questa è la sfida principale del volume: «evidenziare nella matrice soggettiva della sinistra militante qualcosa di originale e originario, non disponibile ai ‘racconti’ delle grandi case ideologiche. I militanti ‘insegnano’ infatti con le loro pratiche che si poteva agire nel corpo vivo della biopolitica borghese, tentando di inceppare il suo tentativo di dare forma – una, la propria – all’intero bios. Essi riuscirono, tra contraddizioni, difficoltà e repressioni, a costruire memoria, depositando un’immensa ricchezza, innanzi tutto antropologica. Nell’azione e nelle architetture ideali di comunisti, socialisti e anarchici, nell’azione ‘segreta’ dei dissidenti e dei partigiani, nell’impegno di infiniti ‘piccoli’ militanti di partito prende forma un’altra forma. È questa che vogliamo osservare. Essi ‘impegnarono’ il proprio essere per apportare modificazioni in ordine al corso del tempo, per praticare una curvatura della storia. Politica versus destino, storia e conflitto contro la necessità. L’opzione ‘a favore’ della militanza radicale di sinistra muove, infine, da una prossimità dichiarata con il proprio oggetto, nella convinzione che l’empatia condizioni in senso migliorativo l’osservazione. La vicinanza ha la funzione di acuire lo sguardo, di affinare la percezione, soprattutto sul terreno dell’antropologia politica» (ibi, p. 13). Il richiamo all’antropologia non è casuale, perché proprio su un terreno antropologico Milanesi punta a rinvenire il ‘segreto’ della militanza, appoggiandosi in particolare a due diverse – ma non divergenti – tradizioni teoriche come l’operaismo italiano e il post-strutturalismo foucaultiano. Sulla scorta di queste matrici, la tesi di Milanesi è allora piuttosto netta: «Militanza […] non ha significato un impegno temporaneo, ma un’opzione di vita sorretta da motivazioni interamente politiche. Essa è perciò fin dall’origine opposta a ogni concezione ‘patrimoniale’ dell’azione pubblica. La militanza sta invece nell’affermazione della politica come un ‘dire al tuo prossimo che non è solo’ come ‘prender parte’, nella duplice accezione di stare ‘in’ e ‘con’. Assumendosi il peso di una parte e di un contro» (p. 16).
Perseguendo questo obiettivo, Milanesi delinea anche un ideal-tipo del militante novecentesco, in cui si riassumono i tratti di una figura inestricabilmente connessa al «secolo degli estremi»: «a) centralità della scelta come opzione soggettiva in grado di incidere sugli eventi; b) politica come impegno costante, totale, che coinvolge l’intera vita e tutte le sue espressioni fino a comprendere in essa dimensione pubblica e privata; c) funzione centrale dell’ideologia come cornice teorica e motivante dell’agire; d) carattere ‘dispendioso’ di una politica; e) centralità di alcuni nodi teorico-pratici, pur diversamente declinati: eguaglianza, giustizia, socialità; f) azione svolta secondo una concezione orizzontale della politica, cioè come potenza e non come potere; g) contrasto sostanziale tra la soggettività militante e istituzione; h) prospettiva antropologica e valoriale altenativa a quella borghese; i) proiezione della prassi come prima definizione di una prospettiva storica e antropologica» (p. 32). L’indagine di Milanesi perlustra così gli elementi caratterizzanti della militanza novecentesca, dalla centralità dell’ideologia alla volontà di modificazione dell’ordine sociale, dal «piacere politico» alla trascendenza. Quest’ultimo punto – il riferimento a una trascendenza politica – è evidentemente uno dei nodi qualificanti dell’analisi, in quanto senza riconoscere l’elemento ‘religioso’ della militanza risulta del tutto impossibile spiegare l’abnegazione e il sacrificio del singolo. «La scelta militante, in quanto intrisa di alterità» - osserva infatti Milanesi - «è sorretta da scenari metafisici, filosofie della storia che svelano le ‘ragioni’ della trascendibilità del presente. Tutto ciò sbilancia la politica verso la dimensione del religioso, non come analogia o identità, quanto come condivisa radice verso l’ulteriorità. L’archeologia della militanza offre molti esempi che rimandano a periodi in cui l’esistenza era invasa dalla meditazione dalla religio e dalle diverse chiese, realtà su cui si incardinavano le istanze politiche. Il dibattito trinitario poteva rimandare a ‘questioni’ di lotta di classe e il miles Christi divenire la figura archetipica del ‘soldato dell’ideologia’. Ma è l’intera tradizione ereticale che si sviluppa come antagonismo politico, cioè contestazione ai gruppi in nome di istanze di liberazione affatto terrene» (p. 53). Nello sbilanciamento escatologico del politico si incarna l’annuncio del tempo nuovo, di cui il partito diventa strumento, mentre il militante assume le vesti del testimone.
Naturalmente, nella propria indagine Milanesi non trascura le grandi aporie in cui si trova stretta la militanza novecentesca, tra cui il rapporto ‘privato’/‘politico’ e il conflitto fra le esigenze dell’organizzazione e la ‘spontaneità’ del movimento. La contraddizione fra la burocratizzazione e la militanza è però forse la più lacerante, e Milanesi può riconoscerla proprio nella figura letteraria del Rubasciov di Köstler. Se l’impegno politico ha mobilitato la sua personalità sin nel profondo, il percorso che Rubasciov (insieme a Köstler) compie consiste nella «fuoriuscita da tutto questo» (p. 126). «Ciò che lui chiama ‘senso oceanico’», osserva Milanesi, «è un’altra dissoluzione dell’io nel tutto, che lo esalta e non lo annichlisce, che lo eguaglia in una dimensione finalmente atemporale, dove viene affermato ciò che la politica ha negato: il soggetto in sé, la tensione vitale verso dimensioni non umane» (p. 126). La soluzione cui giunge Rubasciov è però anche una scelta che già segnala quale la sarà la via d’uscita dal secolo breve. Una vita d’uscita in cui «lo spazio della politica è rifiutato e tutti i suoi istituti – partiti, apparati concettuali, finalità – sostituiti da una vaga e intensa pietas» (p. 126).

Tutte le contraddizioni che percorrono la militanza si aggrovigliano ed infine esplodono con la generazione protagonista del «Sessantotto» e degli anni Settanta: una generazione che certo vive intensamente la dimensione della militanza, fin nella propria esperienza più intima, e che «dice che la militanza politica rappresenta un metodo di attività umana, in cui attraverso un’azione collettiva si scuote l’intero reale per spremerne possibilità», ma che ciò nondimeno appare «come l’ultima generazione militante oltre la quale si stende la fine della politica» (p. 142). Con gli anni Ottanta, lo stesso spazio in cui si era collocata la dimensione della militanza si restringe, per poi definitivamente dissolversi nella «fine della Storia». Ben prima dell’Ottantanove, d’altronde, la fine del ciclo di mobilitazione degli anni Sessanta e Settanta chiude un’epoca, non soltanto per l’esaurirsi di una stagione conflittuale, ma anche perché molti di quei ‘nuovi movimenti’, che conquistano – talvolta in modo effimero – la scena, finiscono col minare la stessa compatta solidità della militanza novecentesca. Nel tentativo di ‘ridefinire’ la politica, e nella stessa critica della vocazione sintetica della politica moderna, la critica della politica finisce con l’alimentare la dissoluzione delle stesse basi spirituali della militanza, fino a confluire in una celebrazione del ‘privato’ che, di fatto, segna la conclusione del Novecento, o – per rimanere alla dicotomia di Jünger – alla vittoria del borghese, dell’«ultimo uomo», sulla protesta estrema del ribelle.
Nel seguire la parabola del militante novecentesco, Milanesi ripercorre le traiettorie di ascesa e le tappe della caduta, riconoscendo come quella specifica figura della ribellione sia ormai un dato storico, e come il militante sia del tutto estraneo al clima della «fine della Storia». In questo modo, l’elegia di Milanesi si confronta – almeno implicitamente – con il nodo dell’interpretazione del Novecento con la tesi della «fine della politica» che risulta, per molti versi, il più evidente portato della «fine della Storia». In realtà, se Milanesi accoglie l’idea di una connessione fra il militante e la politica novecentesca suggerita anche da Revelli, si discosta però nettamente dalla lettura centrata sull’immagine di un secolo segnato – in ognuna delle varianti ideologiche e politiche – dalla fascinazione prometeica per la ‘Tecnica’. Per Milanesi, d’altronde, la cifra distintiva della militanza non sta nella disciplina, nell’incondizionata adesione del singolo alla razionalità strumentale della ‘macchina’ partitica, bensì nel tratto ‘religioso’, nella tensione costante verso una trascendenza politica, che può anche richiedere – come prezzo estremo – il sacrificio del fedele nella lunga marcia verso la Terra promessa. In questo senso, il quadro dipinto da Milanesi sembra piuttosto convergere con la lettura che del Novecento, come secolo della «grande politica», ha fornito Mario Tronti. Per l’autore di Operai e capitale, con la conclusione della lotta classe e con sconfitta del movimento operaio non si avvia infatti una nuova stagione politica: più semplicemente, la ‘politica’, la «grande politica», tramonta, consegnando il campo alla sovrana logica del mercato. E, in questo senso, il tramonto del movimento operaio è la fine del conflitto che oppone la politica al ‘destino’ dell’economia, perché il trionfatore indiscusso del Novecento si rivela proprio il borghese di Jünger, «l’uomo-massa democratico», l’individuo medio che costituisce il pilastro delle democrazie, mentre «le masse politicizzate organizzate in partito che facevano la categoria politica di popolo» diventano «gente apolitica fatta di non-individui privatizzati e manipolati» (M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino, 1998, p. 105). 

La convinzione che il destino del militante si sia ormai definitivamente consumato non conferma però, agli occhi di Milanesi, l’idea secondo la morte della politica è ormai del tutto irreversibile. Perché, in effetti, Milanesi non rinuncia a ritrovare, nelle pieghe della società contemporanea, tracce di conflitti, che non possono passare inosservati e che confermano come la «fine della Storia» sia solo un formidabile, efficacissimo ‘racconto’. «Dopo l’89», scrive per esempio al termine di Ribelli e borghesi, «ogni pretesa di pacificazione conseguente alla condivisione dei valori dell’Occidente ha dovuto fare i conti con impreviste riattivazioni di richieste di riconoscimento. Esse infatti hanno sfondato ogni margine di prevedibilità e appaiono proiettate verso forme di lotta frammentata ma anche ‘ricompositive’» (F. Milanesi, Ribelli e borghesi, cit., p. 266). E, dunque, «le mobilitazioni parziali, la proposta di forme di vita alternative, l’exit dalle logiche di potere non dicono della fine del conflitto ma di una sua mutata natura, più frammentata e frastagliata», «indicano in ogni caso non la chiusura della storia ma la fine di ogni prevedibilità» (ibi, p. 268). Se Milanesi è ben consapevole che la ‘resurrezione’ della militanza è per larga parte impossibile, almeno nelle forme storiche che il Novecento conobbe, nella sua prospettiva la tensione verso una trascendenza politica rimane però l’unico elemento in grado di pensare la politica oltre la frammentazione e la regolazione. «La politica», scrive d’altronde Milanesi, «non può che proporsi come un processo di ricomposizione che deve partire da due evidenti realtà: quella globale e multiculturale, cioè di differenziazione radicale; quella, speculare, di un radicato senso di individualizzazione» (p. 153). Ma, al tempo stesso, «sapere, e dire, che ogni lotta è parziale, che ogni antagonismo non è in sé autosufficiente e non vi è mai garanzia di purezza o di vittoria: che è sempre necessario, in politica, immaginare altre possibilità del mondo» (p. 154).
Il nodo con cui si confronta Milanesi è ovviamente quello stesso problema del ‘pensare la politica’ dopo la «fine della Storia», con cui ci troviamo alle prese da un trentennio. Per uscire da questo groviglio, è certo indispensabile avere ben presente che la ‘grande politica’ è strutturalmente diversa dalla ‘politica come amministrazione’, incontrastata sovrana degli ultimi decenni. Ma è anche necessario riconoscere che la ‘grande politica’, la ‘politica assoluta’ del «secolo breve», non era solo il portato della totale Mobilmachung, bensì – soprattutto – il prodotto di una grande visione, di una speranza radicale di trasformazione al tempo stesso sociale e individuale. Ed è solo riconoscendo questa radice profonda, questa dimensione escatologica e questa aspirazione alla trascendenza, che – come mostra bene Milanesi – è possibile decifrare l’enigma del militante novecentesco. Solo seguendo questa strada, diventa infatti possibile comprendere davvero perché generazioni di militanti abbiano consumato le loro vite al servizio di organizzazioni spesso inadeguate, in attesa di un giorno che non sarebbe mai giunto, e per quale motivo abbiano trovato nell’«organizzar» il sentiero maestro del «trasumanar». Perché essere militante, rivendicare un’identità «partigiana» e odiare gli «indifferenti» non significava solamente essere ‘contro’, ma soprattutto – come scriveva il giovane Antonio Gramsci – sentire «nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo».

Damiano Palano





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