di Damiano Palano
Nel suo romanzo Buio a mezzogiorno, Arthur Köstler fissò
un memorabile ritratto del militante novecentesco, colto nel momento più cupo
dei processi staliniani. Il tormento di Rubasciov, il protagonista del romanzo,
lacerato tra la fedeltà alla causa rivoluzionaria e la disillusione più
completa, era in larga parte il tormento dello stesso Köstler, nato a Budapest
nel 1905 da genitori ebrei e cresciuto nel pieno della stagione che – fra le
due guerre – dissolse nel breve arco di alcuni anni tutto quel «mondo di ieri»
che Stefan Zweig rievocò malinconicamente nei suoi ultimi mesi di vita.
Come molti intellettuali di quel periodo, anche Köstler fu investito dalla
marea della totale Mobilmachung,
capace di cancellare ogni tradizione, ogni gerarchia, ogni convenzione sociale,
e si gettò a capofitto nella militanza politica, prima a sostegno della causa
sionista e in seguito nelle fila del Partito Comunista. Fuggendo da una Berlino
in cui si profilava sempre più chiaramente l’ascesa nazista, Köstler si diresse
nel 1932 in Unione Sovietica, dove svolse alcuni incarichi per l’Internazionale
comunista, e negli anni seguenti continuò a percorrere un’Europa incamminata a
passi rapidi verso il nuovo conflitto. Già nel corso della guerra civile
spagnola, iniziò a maturare il distacco dal marxismo, che lo portò a uscire dal
Partito già nel 1939 e a sviluppare poi una radicale critica all’obbedienza
cieca richiesta ai militanti comunisti. Proprio questo tema torna d’altronde
quasi costantemente nei romanzi di Köstler e soprattutto nel Buio a mezzogiorno, uscito nel 1941 e
ispirato al processo intentato contro Bucharin nella stagione delle purghe
staliniane.
Nel
corso degli interrogatori cui viene sottoposto dai commissari del Partito,
Rubasciov inizialmente respinge tutti i capi di imputazione, che lo accusano di
avere tramato contro la rivoluzione e di avere svolto attività di spionaggio
per conto delle potenze occidentali. Ma, lentamente, sotto i colpi di
interrogatori incessanti, Rubasciov cede giorno dopo giorno. E Köstler indaga
proprio il logoramento psicologico di Rubasciov, anche per cercare di
comprendere quali siano, realmente, le motivazioni che possono spingere un
individuo alla militanza: non a una militanza interessata, razionale, o
condizionata, ma a una militanza totale, che comporta una completa rinuncia di
se stessi a favore del partito e della sua missione storica. Ed è lo stesso
Rubasciov a dichiarare – ancora nelle pagine iniziali del romanzo, mentre
accusa un giovane militante di frazionismo – in cosa consista la cieca fiducia
nel Partito: «Il Partito non può mai sbagliare […] Tu e io possiamo commettere
degli errori, ma non il Partito. Il Partito, compagno, è più di te, di me e di
mille altri come te e come me. Il partito è l’incarnazione dell’idea
rivoluzionaria nella Storia. La Storia non conosce né scrupoli né esitazioni.
Scorre, inerte e infallibile, verso la sua mèta. Ad ogni curva del suo corso lascia
il fango che porta con sé i cadaveri degli affogati. La Storia sa dove va. Non
commette errori. Colui che non ha una fede assoluta nella Storia non è nelle
file del partito» (A. Köstler, Buio a
mezzogiorno, Mondadori, Milano, 1996, p. 48).
Una
decina di anni fa, Marco Revelli, accomiatandosi dal Novecento, assumeva il
Rubasciov di Köstler come emblema del militante del XX secolo e del suo
fallimento. Il militante novecentesco diventava nelle pagine di Revelli
l’autentico simbolo del processo di «meccanizzazione» e «razionalizzazione»,
dalla cui seduzione i movimenti rivoluzionari non erano stati affatto immuni.
Nel grande racconto di Oltre il Novecento,
l’abnegazione individuale, la fedeltà ‘religiosa’ alla causa e alle direttive
del Partito non erano però soltanto il frutto del clima ideologico del periodo,
perché affondavano piuttosto le radici nello Zeitgeist di una stagione segnata in modo traumatico dalla guerra mondiale, dalla Rivoluzione
bolscevica, dall’avvento dei fascismi. In altri termini, la tenace disciplina
dei militanti era il prodotto di eventi dirompenti, che avevano trasformato la
violenza in un «elemento istitutivo dello stesso tempo storico, capillarmente innervata nei gangli vitali delle
società massificate, forma universale e permanente dei rapporti collettivi tra
gli uomini, identificata senza residui con il “Politico”» (M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le
ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino, 2001, p. 226). Così,
proprio la violenza era divenuta «non atto esteriore (eccezionale e
preliminare) alla costituzione della società ma modalità intrinseca del suo
funzionamento, tale da fare dello stato d’eccezione la norma» (ibidem). Secondo questa lettura, allora,
il movimento comunista e rivoluzionario (non diversamente d’altronde dalle
socialdemocrazie occidentali, arrivate al potere in seguito a elezioni)
accettò, senza sostanziali elementi di distinzione, sia la logica dello
sviluppo industriale, sia lo stato di eccezione permanente affermatosi dopo la
Grande Guerra. E, per questo, non poté che tramutarsi in una vittima di quella
stessa «eterogenesi dei fini» contro cui aveva inteso combattere. In altre
parole, la violenza penetrava nell’armamentario del movimento operaio, perché
«si presentava come la forma strutturale attraverso la quale avviene la mobilitazione totale del mondo (e
dunque quella mobilitazione estrema che è la Rivoluzione) nell’epoca della
potenza tecnica dispiegata e della compiuta massificazione delle società». Per
questo arriva così a costituire «il fattore attraverso il quale la volontà di
potenza del ‘Politico’ s’illude di aver conquistato la propria piena
indipendenza dalle derive lente e viscose di un ‘Sociale rimasto troppo a lungo
impigliato nel reticolo dei ‘legami’ tradizionali, e di fatto si smarrisce e si
annulla, costretta a servire il mezzo
di cui aveva inteso servirsi» (ibi, p. 228). Una volta giunti al
potere, tutti i partiti del movimento operaio avrebbero d’altronde proseguito
la medesima «guerra del politico contro il sociale», condotta in nome delle
esigenze dello sviluppo capitalistico. E, tramutando la contraddizione marxiana
tra le forze produttive e i rapporti di produzione, nell’antagonismo tra lo
sviluppo tecnologico e l’assetto privatistico dei rapporti sociali, persino il marxismo
– o quantomeno una sua componente significativa – avrebbe abbandonato la
fabbrica come luogo di conflitto, facendola diventare invece la base in cui
costruire il proprio strumento politico, il partito.
Al principio del 2000, l’uscita di Oltre il Novecento fu preceduta da una
polemica proprio sulla tesi del «tramonto» della figura storica del
«militante», che secondo Revelli doveva lasciare il posto a un nuovo «uomo
solidale», a un «volontario» in grado di rifiutare la logica della razionalità
strumentale, per scoprire la logica del dono (cfr. M. Revelli, Novecento. L’esercito proletario, in
«Carta», 2000, n. 3). Alla critica indirizzata verso il militante novecentesco,
o quantomeno verso l’iconografia del militante costruita dalla tradizione
comunista, fece seguito un intervento fortemente polemico di Rossana Rossanda (Il militante del Novecento, in «La
rivista del manifesto», n. 4, 2000, pp. 6-8), cui si aggiunsero in seguito,
oltre a una replica di Revelli e Aldo Bonomi (Risposta a Rossana Rossanda, in «La rivista del manifesto», n. 7,
2000, pp. 60-62), molti altri interventi, sollecitati dall’uscita di Oltre il Novecento, spesso fortemente
polemici. Anche perché la critica indirizzata da Revelli al militante era, in
realtà, una critica alla politica stessa, alla sua capacità di dar forma alla
società e di guidare – più o meno efficacemente – le correnti della Storia.
Al di là dell’interpretazione generale
di Revelli, relativa alla connessione fra l’industrialismo e ognuna delle
diverse ideologie del XX secolo, una delle sue tesi, secondo cui la figura del
militante novecentesco – con la sua ferrea disciplina, la sua dedizione alla
causa, la sua psicologia lacerata fra dimensione ‘privata’ e dovere ‘politico’
– sarebbe un prodotto della ‘guerra civile mondiale’, non era affatto priva di
fondamento. E opportunamente Franco Milanesi la raccoglie, la discute e ne
dipana premesse e implicazioni nel suo Militanti.
Un’antropologia politica del novecento (Punto rosso, Milano, pp. 160, euro
12.00), un testo che – come fa d’altronde intuire il sottotitolo del volume – è
difficilmente inquadrabile in una specifica disciplina, perché si muove alla
ricerca delle coordinate economiche, sociali, politiche, intellettuali in cui
il militante collocò il proprio impegno ‘totalizzante’. Per Milanesi, la
stagione della militanza si inserisce interamente nel «secolo breve», e il suo
avvento è sancito in effetti dall’irruzione della Grande guerra sulla scena
europea. Come sosteneva Ernst Jünger, l’Ottocento aveva dato forma al tipo del borghese, un tipo d’uomo cui corrisponde
un’attitudine politica del tutto
subordinata alla centralità dell’individualismo e dei valori privatistici.
Tutto questo mondo viene invece travolto, scardinato dalla fondamenta, dall’irruzione
della guerra: «la guerra produce un salto di paradigma, verso una krisis che rimette in campo le
possibilità della tras-formazione. Dalle tempeste
d’acciaio del conflitto si è aperto un indefinito stato di eccezione che
avvia il XX secolo annunciando il suo novum:
la politica non più come scolorita gestione amministrativa dell’ordo borghese ma come sua contestazione,
prefigurazione di alterità e organizzazione degli strumenti (ideali e
materiali) del conflitto» (ibi, pp.
9-10). E a reggere questo progetto è proprio la figura del militante, il miles che, dalle trincee della Grande
guerra, arriva fino nel cuore delle città industriali, per scalzare dalla sua
pacifica esistenza il satollo tipo del borghese
e per chiedere conto del prezzo pagato. Anche per questo, come nota Milanesi,
la genesi della figura del militante è da ascrivere prima di tutto alla
‘Rivoluzione conservatrice’: «È quella mescola di violenza, idealità,
insicurezza esistenziale, aggressione verso il nemico, conflittualità perenne, philia per la propria parte, che penetra
nel tempo di pace, si insedia stabilmente nelle strutture della politica e
disegna le soggettività mobilitate contro la borghesia. Il secolo della grande
politica si caratterizza così, nella sua prima radice, come opposizione tra l’homo politicus, il militante e il
borghese» (ibi, p. 10). Dentro il
trauma della guerra, si colloca un nuovo immaginario, perché «con l’esperienza
bellica si modificano le mentalità di intere popolazioni e si ridefinisce il
rapporto tra cittadini, istituzioni, politica secondo le modalità di una Totale Mobilmachtung che, inaugurata nel
1914, coinvolge ora tutte le componenti sociali come politicizzazione dell’intera vita» (p. 23). E da questa politicizzazione integrale della vita
derivano allora il «cameratismo», la solidarietà, la condivisione, ma anche
l’opposizione irriducibile al nemico, l’odio nei confronti dell’avversario, un
odio che tende a travolgere qualsiasi ‘zona grigia’.
Se è chiaro contro chi si volga il
militante – contro il borghese,
contro l’«ultimo uomo» nietzschano – non emerge invece così nitidamente per
cosa combatta il miles del «secolo
breve». Nel senso che non è così chiaro – almeno al principio – dove passi la
linea di demarcazione tra la destra e la sinistra, tra i militanti per la classe e i militanti
per la nazione. E infatti, «è innegabile che nel primo dopoguerra si
rintraccino numerose convergenze tra la destra radicale e antiborghese e la
sinistra rivoluzionaria proprio sul terreno della volontà antisistemica. I Freikorps tedeschi o i soldati di
ventura fiumani, gli Arditi del Popolo pronti a riorientare i propri fucili
verso le bon bourgeois ingrassato dal
conflitto rientrano sotto vario titolo in una tipologia della militanza
radicale del Novecento. Prossimità che sono all’origine di non rari passaggi di
campo e di un ‘riconoscimento’ reciproco che portò gli attivisti delle due
fazioni (come i soldati delle opposte trincee) a sentirsi parte di una comune
casa politica, in cui spesso si intrecciavano nazionalismo popolare e appartenenza
di classe in un fronte comunque opposto
a quello della sicurezza e dello spirito mercantile, nel culto della potenza
poietica del politico, nella difesa dei ‘diritti’ della collettività (classe
e/o nazione)» (ibi, p. 11). La
commistione fra i due versanti della militanza affiora per esempio negli itinerari di esponenti del
nazionalbolscevismo e della Rivoluzione conservatrice, come naturalmente Ernst
Jünger, come Ernst von Salomon e come Ernst Niekisch (ai quali è peraltro
dedicato un nuovo volume di Milanesi, Ribelli
e borghesi. Nazionalbolscevismo e Rivoluzione conservatrice. 1914-1933,
Aracne, pp. 285, euro 17.00, con una prefazione di Pier Paolo Portinaro). La
divisione tra i due campi è comunque destinata a emergere rapidamente. Per un
verso, l’avversione jüngeriana per il borghese
finisce col tramutarsi in una compiaciuta avversione per la massa, assumendo
dunque i contorni di un’utopia reazionaria. Per l’altro, emerge invece la
figura specifica della militanza di sinistra, intesa come «un movimento di
trascendenza dal piano fattuale e di prefigurazione di un’alternativa di
sistema» (ibi, p. 12).
Questa storia è stata naturalmente
raccontata molte volte, e l’esempio di Revelli non ne costituisce che
l’esemplificazione più recente. Ma l’obiettivo di Milanesi è diverso, perché la
sua analisi tenta di ritrovare, nella militanza, qualcosa che sfugge alle
raffigurazioni delle grandi ideologie del Novecento, qualcosa che si trova
incastonato nella stessa coriacea materialità dell’impegno militante. E proprio
questa è la sfida principale del volume: «evidenziare nella matrice soggettiva
della sinistra militante qualcosa di originale e originario, non disponibile ai
‘racconti’ delle grandi case ideologiche. I militanti ‘insegnano’ infatti con
le loro pratiche che si poteva agire nel corpo vivo della biopolitica borghese,
tentando di inceppare il suo tentativo di dare forma – una, la propria –
all’intero bios. Essi riuscirono, tra
contraddizioni, difficoltà e repressioni, a costruire memoria, depositando
un’immensa ricchezza, innanzi tutto antropologica.
Nell’azione e nelle architetture ideali di comunisti, socialisti e anarchici,
nell’azione ‘segreta’ dei dissidenti e dei partigiani, nell’impegno di infiniti
‘piccoli’ militanti di partito prende forma un’altra forma. È questa che vogliamo osservare. Essi ‘impegnarono’ il
proprio essere per apportare modificazioni in ordine al corso del tempo, per
praticare una curvatura della storia. Politica versus destino, storia e conflitto contro la necessità. L’opzione
‘a favore’ della militanza radicale di sinistra muove, infine, da una
prossimità dichiarata con il proprio oggetto, nella convinzione che l’empatia
condizioni in senso migliorativo l’osservazione. La vicinanza ha la funzione di
acuire lo sguardo, di affinare la percezione, soprattutto sul terreno
dell’antropologia politica» (ibi, p.
13). Il richiamo all’antropologia non è casuale, perché proprio su un terreno
antropologico Milanesi punta a rinvenire il ‘segreto’ della militanza,
appoggiandosi in particolare a due diverse – ma non divergenti – tradizioni
teoriche come l’operaismo italiano e il post-strutturalismo foucaultiano. Sulla
scorta di queste matrici, la tesi di Milanesi è allora piuttosto netta:
«Militanza […] non ha significato un impegno temporaneo, ma un’opzione di vita
sorretta da motivazioni interamente politiche.
Essa è perciò fin dall’origine opposta a ogni concezione ‘patrimoniale’
dell’azione pubblica. La militanza sta invece nell’affermazione della politica
come un ‘dire al tuo prossimo che non è solo’ come ‘prender parte’, nella
duplice accezione di stare ‘in’ e ‘con’. Assumendosi il peso di una parte e di
un contro» (p. 16).
Perseguendo questo obiettivo, Milanesi
delinea anche un ideal-tipo del militante novecentesco, in cui si riassumono i
tratti di una figura inestricabilmente connessa al «secolo degli estremi»: «a)
centralità della scelta come opzione soggettiva in grado di incidere sugli
eventi; b) politica come impegno costante, totale, che coinvolge l’intera vita
e tutte le sue espressioni fino a comprendere in essa dimensione pubblica e
privata; c) funzione centrale dell’ideologia come cornice teorica e motivante
dell’agire; d) carattere ‘dispendioso’ di una politica; e) centralità di alcuni
nodi teorico-pratici, pur diversamente declinati: eguaglianza, giustizia,
socialità; f) azione svolta secondo una concezione orizzontale della politica,
cioè come potenza e non come potere; g) contrasto sostanziale tra la
soggettività militante e istituzione; h) prospettiva antropologica e valoriale
altenativa a quella borghese; i) proiezione della prassi come prima definizione
di una prospettiva storica e antropologica» (p. 32). L’indagine di Milanesi
perlustra così gli elementi caratterizzanti della militanza novecentesca, dalla
centralità dell’ideologia alla volontà di modificazione dell’ordine sociale,
dal «piacere politico» alla trascendenza. Quest’ultimo punto – il riferimento a
una trascendenza politica – è evidentemente uno dei nodi qualificanti
dell’analisi, in quanto senza riconoscere l’elemento ‘religioso’ della
militanza risulta del tutto impossibile spiegare l’abnegazione e il sacrificio
del singolo. «La scelta militante, in quanto intrisa di alterità» - osserva
infatti Milanesi - «è sorretta da scenari metafisici, filosofie della storia
che svelano le ‘ragioni’ della trascendibilità del presente. Tutto ciò
sbilancia la politica verso la dimensione del religioso, non come analogia o
identità, quanto come condivisa radice verso l’ulteriorità. L’archeologia della
militanza offre molti esempi che rimandano a periodi in cui l’esistenza era
invasa dalla meditazione dalla religio
e dalle diverse chiese, realtà su cui si incardinavano le istanze politiche. Il
dibattito trinitario poteva rimandare a ‘questioni’ di lotta di classe e il miles Christi divenire la figura
archetipica del ‘soldato dell’ideologia’. Ma è l’intera tradizione ereticale
che si sviluppa come antagonismo politico, cioè contestazione ai gruppi in nome di istanze di liberazione affatto terrene» (p. 53). Nello sbilanciamento
escatologico del politico si incarna l’annuncio del tempo nuovo, di cui il
partito diventa strumento, mentre il militante assume le vesti del testimone.
Naturalmente, nella propria indagine
Milanesi non trascura le grandi aporie in cui si trova stretta la militanza novecentesca,
tra cui il rapporto ‘privato’/‘politico’ e il conflitto fra le esigenze
dell’organizzazione e la ‘spontaneità’ del movimento. La contraddizione fra la
burocratizzazione e la militanza è però forse la più lacerante, e Milanesi può
riconoscerla proprio nella figura letteraria del Rubasciov di Köstler. Se
l’impegno politico ha mobilitato la sua personalità sin nel profondo, il
percorso che Rubasciov (insieme a Köstler) compie consiste nella «fuoriuscita
da tutto questo» (p. 126). «Ciò che
lui chiama ‘senso oceanico’», osserva Milanesi, «è un’altra dissoluzione dell’io nel tutto, che lo esalta e non lo
annichlisce, che lo eguaglia in una
dimensione finalmente atemporale, dove viene affermato ciò che la politica ha
negato: il soggetto in sé, la tensione vitale verso dimensioni non umane» (p.
126). La soluzione cui giunge Rubasciov è però anche una scelta che già segnala
quale la sarà la via d’uscita dal secolo breve. Una vita d’uscita in cui «lo
spazio della politica è rifiutato e tutti i suoi istituti – partiti, apparati
concettuali, finalità – sostituiti da una vaga e intensa pietas» (p. 126).
Tutte le contraddizioni che percorrono
la militanza si aggrovigliano ed infine esplodono con la generazione
protagonista del «Sessantotto» e degli anni Settanta: una generazione che certo
vive intensamente la dimensione della militanza, fin nella propria esperienza
più intima, e che «dice che la militanza politica rappresenta un metodo di attività umana, in cui
attraverso un’azione collettiva si scuote l’intero reale per spremerne
possibilità», ma che ciò nondimeno appare «come l’ultima generazione militante oltre la quale si stende la fine della
politica» (p. 142). Con gli anni Ottanta, lo stesso spazio in cui si era
collocata la dimensione della militanza si restringe, per poi definitivamente
dissolversi nella «fine della Storia». Ben prima dell’Ottantanove, d’altronde,
la fine del ciclo di mobilitazione degli anni Sessanta e Settanta chiude
un’epoca, non soltanto per l’esaurirsi di una stagione conflittuale, ma anche
perché molti di quei ‘nuovi movimenti’, che conquistano – talvolta in modo
effimero – la scena, finiscono col minare la stessa compatta solidità della
militanza novecentesca. Nel tentativo di ‘ridefinire’ la politica, e nella
stessa critica della vocazione sintetica della politica moderna, la critica
della politica finisce con l’alimentare la dissoluzione delle stesse basi
spirituali della militanza, fino a confluire in una celebrazione del ‘privato’
che, di fatto, segna la conclusione del Novecento, o – per rimanere alla
dicotomia di Jünger – alla vittoria del borghese,
dell’«ultimo uomo», sulla protesta estrema del ribelle.
Nel seguire la parabola del militante
novecentesco, Milanesi ripercorre le traiettorie di ascesa e le tappe della
caduta, riconoscendo come quella specifica figura della ribellione sia ormai un
dato storico, e come il militante sia del tutto estraneo al clima della «fine
della Storia». In questo modo, l’elegia di Milanesi si confronta – almeno
implicitamente – con il nodo dell’interpretazione del Novecento con la tesi
della «fine della politica» che risulta, per molti versi, il più evidente
portato della «fine della Storia». In realtà, se Milanesi accoglie l’idea di
una connessione fra il militante e la politica novecentesca suggerita anche da
Revelli, si discosta però nettamente dalla lettura centrata sull’immagine di un
secolo segnato – in ognuna delle varianti ideologiche e politiche – dalla
fascinazione prometeica per la ‘Tecnica’. Per Milanesi, d’altronde, la cifra
distintiva della militanza non sta nella disciplina, nell’incondizionata
adesione del singolo alla razionalità strumentale della ‘macchina’ partitica,
bensì nel tratto ‘religioso’, nella tensione costante verso una trascendenza
politica, che può anche richiedere – come prezzo estremo – il sacrificio del
fedele nella lunga marcia verso la Terra promessa. In questo senso, il quadro
dipinto da Milanesi sembra piuttosto convergere con la lettura che del
Novecento, come secolo della «grande politica», ha fornito Mario Tronti. Per
l’autore di Operai e capitale, con la
conclusione della lotta classe e con sconfitta del movimento operaio non si
avvia infatti una nuova stagione politica: più semplicemente, la ‘politica’, la
«grande politica», tramonta, consegnando il campo alla sovrana logica del
mercato. E, in questo senso, il tramonto del movimento operaio è la fine del
conflitto che oppone la politica al ‘destino’ dell’economia, perché il
trionfatore indiscusso del Novecento si rivela proprio il borghese di Jünger, «l’uomo-massa democratico», l’individuo medio
che costituisce il pilastro delle democrazie, mentre «le masse politicizzate
organizzate in partito che facevano la categoria politica di popolo» diventano
«gente apolitica fatta di non-individui privatizzati e manipolati» (M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi,
Torino, 1998, p. 105).
La convinzione che il destino del
militante si sia ormai definitivamente consumato non conferma però, agli occhi
di Milanesi, l’idea secondo la morte della politica è ormai del tutto irreversibile.
Perché, in effetti, Milanesi non rinuncia a ritrovare, nelle pieghe della
società contemporanea, tracce di conflitti, che non possono passare inosservati
e che confermano come la «fine della Storia» sia solo un formidabile,
efficacissimo ‘racconto’. «Dopo l’89», scrive per esempio al termine di Ribelli e borghesi, «ogni pretesa di
pacificazione conseguente alla condivisione dei valori dell’Occidente ha dovuto
fare i conti con impreviste riattivazioni di richieste di riconoscimento. Esse
infatti hanno sfondato ogni margine di prevedibilità e appaiono proiettate
verso forme di lotta frammentata ma anche ‘ricompositive’» (F. Milanesi, Ribelli e borghesi, cit., p. 266). E,
dunque, «le mobilitazioni parziali, la proposta di forme di vita alternative,
l’exit dalle logiche di potere non
dicono della fine del conflitto ma di una sua mutata natura, più frammentata e
frastagliata», «indicano in ogni caso non la chiusura della storia ma la fine
di ogni prevedibilità» (ibi, p. 268).
Se Milanesi è ben consapevole che la ‘resurrezione’ della militanza è per larga
parte impossibile, almeno nelle forme storiche che il Novecento conobbe, nella
sua prospettiva la tensione verso una trascendenza politica rimane però l’unico
elemento in grado di pensare la politica oltre la frammentazione e la
regolazione. «La politica», scrive d’altronde Milanesi, «non può che proporsi
come un processo di ricomposizione
che deve partire da due evidenti realtà: quella globale e multiculturale, cioè
di differenziazione radicale; quella, speculare, di un radicato senso di
individualizzazione» (p. 153). Ma, al tempo stesso, «sapere, e dire, che ogni
lotta è parziale, che ogni antagonismo non è in sé autosufficiente e non vi è
mai garanzia di purezza o di vittoria: che è sempre necessario, in politica,
immaginare altre possibilità del mondo» (p. 154).
Il nodo con cui si confronta Milanesi
è ovviamente quello stesso problema del ‘pensare la politica’ dopo la «fine
della Storia», con cui ci troviamo alle prese da un trentennio. Per uscire da
questo groviglio, è certo indispensabile avere ben presente che la ‘grande
politica’ è strutturalmente diversa dalla ‘politica come amministrazione’,
incontrastata sovrana degli ultimi decenni. Ma è anche necessario riconoscere
che la ‘grande politica’, la ‘politica assoluta’ del «secolo breve», non era
solo il portato della totale Mobilmachung,
bensì – soprattutto – il prodotto di una grande visione, di una speranza
radicale di trasformazione al tempo stesso sociale e individuale. Ed è solo
riconoscendo questa radice profonda, questa dimensione escatologica e questa
aspirazione alla trascendenza, che – come mostra bene Milanesi – è possibile
decifrare l’enigma del militante novecentesco. Solo seguendo questa strada,
diventa infatti possibile comprendere davvero perché generazioni di militanti
abbiano consumato le loro vite al servizio di organizzazioni spesso inadeguate,
in attesa di un giorno che non sarebbe mai giunto, e per quale motivo abbiano
trovato nell’«organizzar» il sentiero maestro del «trasumanar». Perché essere
militante, rivendicare un’identità «partigiana» e odiare gli «indifferenti» non
significava solamente essere ‘contro’, ma soprattutto – come scriveva il
giovane Antonio Gramsci – sentire «nelle coscienze virili della mia parte già
pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo».
Damiano Palano