Negli ultimi mesi è diventato ormai chiaro come la 'Seconda Repubblica' sia ormai indirizzata verso il crepuscolo, ma forse non si è ancora seriamente iniziato a riflettere sulle cause che hanno condotto a un sostanziale fallimento tutte le grandi promesse coltivate al principio degli anni Novanta. Questo articolo, apparso nel novembre del 2010 sul secondo numero della rivista "Progetto Lavoro", può forse offrire un contributo alla discussione sulla reale fisionomia del "bipolarismo" che abbiamo conosciuto negli ultimi diciotto anni.
1. Alla metà degli anni Sessanta, Giorgio Galli, coniando una formula destinata ad avere un certo successo, definì il sistema politico italiano come un «bipartitismo imperfetto». Alla luce di quell’analisi la politica italiana appariva dominata da due grandi partiti che sovrastavano largamente gli altri, ma il carattere sostanzialmente bipartitico del sistema non si accompagnava al meccanismo dell’alternanza al governo. Il motivo che secondo Galli stava alla base di questa ‘anomalia’ consisteva soprattutto nella grande stabilità elettorale, che già allora iniziava ad essere rilevata da una serie di ricerche. In sostanza, dato che le scelte di voto si riproducevano senza sostanziali mutamenti da un’elezione all’altra, il sistema elettorale non poteva che risultare ‘bloccato’: la Democrazia cristiana faceva parte comunque di ogni coalizione di governo, come partito principale, mentre il Partito comunista ne rimaneva invariabilmente escluso. Ma, dato che l’alternanza non si poteva realizzare, la ‘minaccia’ costituita dall’eventualità di una mancata conferma al governo non poteva in alcun modo condizionare (e neppure responsabilizzare) la leadership democristiana.
La lettura proposta da Galli fu naturalmente contestata da diversi punti di vista e nel corso del dibattito successivo furono avanzate formule alternative, come «pluralismo polarizzato» o «pluralismo centripeto». Senza dubbio, la forza della diagnosi di Galli nasceva però proprio dall’immagine di un sistema ‘bloccato’, oltre che dalla stabilità elettorale, dalla percezione del Pci come partito «antisistema» e dai condizionamenti internazionali che derivavano dall’appartenenza dell’Italia all’alleanza atlantica. Anche per questo, è comprensibile che, dopo il 1989, molti abbiano intravisto nella scomparsa della divisione bipolare fra Est e Ovest la condizione per superare il ‘blocco’ del sistema politico italiano. In altre parole, secondo questo ragionamento, la fine della conventio ad exludendum che condannava il Pci al ruolo di eterno oppositore poteva trasformare il sistema italiano in un autentico bipartitismo: un bipartitismo in cui l’accesso al governo diventava finalmente credibile anche per gli eredi del Pci, e in cui la dinamica dell’alternanza poteva rapidamente moderare gli eccessi ideologici e rendere così ogni forza politica sempre più ‘responsabile’, tanto nell’attività di governo, quanto nella critica ai partiti rivali.
A quasi due decenni di distanza dalla fine della Prima Repubblica, il sistema politico italiano mostra invece una realtà molto diversa. Il passaggio da un «bipartitismo imperfetto» a un sistema sostanzialmente bipolare, con la possibilità di effettiva alternanza al governo, si è in gran parte realizzato, ma l’alternanza non ha prodotto quasi nessuno dei risultati che molti auspicavano. E, soprattutto, una volta venuto meno il ‘blocco’, non sono affatto scomparsi quelli che venivano considerati come i principali ‘vizi’ della politica italiana. In primo luogo, nei sedici anni trascorsi dal 1994, il quadro partitico non ha fatto registrare un sostanzialmente mutamento in direzione della semplificazione o di un vero bipartitismo. Certo i partiti sono diversi rispetto a quelli della Prima Repubblica (sotto il profilo ideologico e organizzativo) e risultano più o meno stabilmente organizzati in due campi rivali, ma il loro numero non è diminuito rispetto al passato, tanto che l’attuale sistema partitico è stato definito come un anomalo «bipolarismo frammentato». In secondo luogo, la stabilità degli esecutivi non è aumentata in modo significativo rispetto al passato, e così la durata media dei governi della Seconda Repubblica risulta solo di pochi mesi superiore a quella registrata fra il 1948 e il 1994. E, infine, la dinamica dell’alternanza sembra avere solo parzialmente ‘responsabilizzato’ i due poli, sia perché la politica degli annunci spettacolari – invariabilmente non mantenuti – contrassegna in modo stabile l’odierno stile comunicativo, sia perché la componente ‘emotiva’ della contrapposizione fra coalizioni gioca un ruolo determinante nella mobilitazione elettorale e nella campagna permanente.
Per molti versi, i risultati della lunga «transizione» verso una democrazia maggioritaria possono essere considerati come l’ennesimo fallimento della fiducia incondizionata nutrita nei confronti dell’ingegneria elettorale. Ma fermarsi alla semplice denuncia delle promesse non mantenute dalla fine del ‘bipartitismo imperfetto’, o evocare magari le nuove cause che rendono ‘imperfetto’ e ‘anomalo’ anche l’attuale bipolarismo non è sufficiente. Soprattutto perché si rischia così di rimanere alla superficie dell’attuale bipolarismo, rinunciando a cogliere quelle che sono invece le basi più profonde di un assetto che, effettivamente, ha modificato i rapporti fra sistema politico e società.
2. È quasi impossibile comprendere la realtà dell’attuale bipolarismo senza tenere ben presenti alcuni processi che, negli ultimi trent’anni, hanno segnato la gran parte dei sistemi politici occidentali: l’indebolimento dell’identificazione partitica, la trasformazione dei partiti, la mediatizzazione della politica. Ognuno di questi tre processi – che sono tutt’altro che ‘anomalie’ – ha assunto in Italia caratteri peculiari. In primo luogo, l’indebolimento dell’identificazione è stato largamente favorito, nei primi anni Novanta, dalla rapidissima dissoluzione del sistema dei partiti della Prima Repubblica, e ciò ha effettivamente creato un mercato elettorale fluido, all’interno del quale gli elettori, privi di riferimenti, hanno ampliato notevolmente lo spettro di scelte a loro disposizione. A ben vedere, però, l’erosione delle vecchie appartenenze è stata seguita, in tempi piuttosto brevi, da una nuova strutturazione delle scelte, orientata non tanto sui partiti, quanto sulle coalizioni (e sul leader). In altri termini, sebbene l’identificazione partitica risulti molto indebolita rispetto al passato, è emersa una nuova polarizzazione fra destra e sinistra, che di fatto – come dimostrano molti studi – riduce notevolmente l’effettiva fluidità del mercato elettorale, limitando così a una quota marginale la porzione di elettorato effettivamente disponibile a spostare il proprio voto da una coalizione all’altra. In altre parole, dunque, oggi siamo in presenza non tanto di un mercato elettorale effettivamente ‘bloccato’, come negli anni Cinquanta e Sessanta, quanto di un mercato in cui le fluttuazioni di voto avvengono più che altro all’interno dei serbatoi costituiti da ciascuna singola coalizione (oltre che fra le aree del voto e dell’astensione).
In secondo luogo, la trasformazione del sistema politico italiano ha alla base un mutamento strutturale dei partiti italiani, dal partito di massa al partito professionale-elettorale (e al cartel party). Una simile trasformazione implica il passaggio da un’organizzazione ‘pesante’ (un’organizzazione ramificata a livello territoriale e nella quale gli iscritti hanno un ruolo rilevante) a un’organizzazione ‘leggera’, priva di robuste articolazioni a livello locale e di un significativo apparato di funzionari, ma dotata invece di professionisti utilizzati prevalentemente per gestire la comunicazione del partito non solo nelle fasi di campagna elettorale, ma anche durante tutto il periodo inter-elettorale.
In terzo luogo, la mediatizzazione della politica italiana ha raggiunto livelli paradigmatici in conseguenza di una serie di fattori che sono in parte esasperati, ma che non risultano in contro-tendenza rispetto alla situazione delle altre democrazie occidentali. In Italia, infatti, una serie di elementi congiunturali ha favorito una pressione marcata non solo verso la spettacolarizzazione, ma anche verso una ‘presidenzializzazione’ che coinvolge tutti i livelli di governo. Questi elementi congiunturali, che svolgono una funzione fondamentale soprattutto nella fase di passaggio (fra il 1992 e gli anni immediatamente successivi) sono almeno cinque: a) lo sfaldamento della Prima Repubblica e la riconfigurazione del sistema partitico in seguito alla ‘discesa in campo’ di un imprenditore della comunicazione, che costruisce una coalizione a partire dalla propria leadership e dal proprio apparato aziendale; b) il mito di una ‘società civile’ onesta, contrapposta a un sistema politico corrotto, che può ottenere un ruolo solo ‘superando’ le organizzazioni partitiche e votando per candidati in carne e ossa, che mettano in gioco – in prima persona – credibilità, reputazione e carriera; c) l’introduzione di un nuovo sistema elettorale, che, dal 1994 fino al 2001, segna il passaggio (per una componente rilevante) al sistema maggioritario e al collegio uninominale, ‘personalizzando’ dunque la competizione in ogni singolo collegio; d) la trasformazione di fatto del sistema parlamentare in una sorta di sistema parlamentare ‘presidenzializzato’, all’interno del quale il singolo elettore è chiamato a scegliere non per un partito, ma per un candidato premier, espresso da una coalizione; e) l’elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia e presidenti di regione, che produce l’effetto di un’ulteriore spinta alla ‘personalizzazione’ anche a livello locale.
Anche se alcuni di questi elementi sono ormai solo ricordi del passato, gli effetti prodotti dalla loro combinazione appare difficilmente reversibile, e d’altronde anche la reintroduzione del proporzionale (seppur in una variante senza dubbio anomala e spiccatamente maggioritaria) ha rafforzato ulteriormente la dinamica della personalizzazione. Forse, l’effetto principale di queste dinamiche può essere ridotto alla sostanziale presidenzializzazione del nostro sistema politico, ma, se ci si focalizzasse solo sul ruolo del Presidente del Consiglio e sul suo rapporto con il Parlamento si rischierebbe di perdere di vista un’insieme di conseguenze probabilmente ancor più rilevanti. In effetti, la presidenzializzazione ha coinvolto ogni livello di governo e ha guidato (o accompagnato) una complessiva trasformazione dei partiti. A ogni livello, la presenza di un leader forte (sotto il profilo comunicativo) è infatti richiesta dalla pressione sistemica, dalla necessità di ottenere la vittoria nella competizione elettorale, oltre che dalle esigenze della campagna permanente. Ma la presidenzializzazione è anche segnata da una crescita del ruolo dell’esecutivo rispetto al legislativo, sia perché la tempestività dell’azione di governo richiede, nelle democrazie contemporanee, procedure snelle e capacità decisionali, sia perché la tempestività dell’azione si combina con i tempi mediatici dell’annuncio e molto meno con il processo di discussione delle assemblee parlamentari. Una simile tendenza è ovviamente ben visibile nel Parlamento italiano, perché, a partire dagli anni Ottanta, il ruolo dell’esecutivo è stato costantemente rafforzato, ma emerge ancora più chiaramente nei governi locali e regionali, dove l’elezione diretta di sindaci e presidenti ha di fatto svuotato le assemblee elettive di ogni significativo potere di iniziativa e di controllo politico, consegnando dunque una sostanziale autonomia agli organi esecutivi.
Infine, la latente presidenzializzazione innesca – o contribuisce ad alimentare – la trasformazione interna dei partiti. Se dal punto di vista comunicativo il partito deve concentrare risorse e visibilità sul leader, dal punto di vista organizzativo deve raccogliere risorse per sostenere un apparato organizzativo, certo diverso rispetto al passato, ma comunque oneroso. In altri termini, il tramonto del partito di funzionari tende a imporre ai leader (soprattutto a livello locale e regionale) l’assunzione di cariche amministrative: un leader periferico (così come un ‘dissidente’ del gruppo dirigente nazionale) può acquistare visibilità mediatica e risorse rilevanti diventando sindaco di una grande città o presidente di regione, mentre la stessa dinamica si riproduce ai livelli più bassi. Proprio grazie alla conquista di una posizione amministrativa, il singolo leader costruisce attorno a sé un piccolo seguito di collaboratori – più o meno vasto a seconda dei casi – che costituisce una variante del partito di patronato, ossia del partito basato su un legame clientelare. Questi gruppi, radicati in un sistema di potere locale o regionale, sono inseriti all’interno di una struttura partitica nazionale, ma – ed è questo l’aspetto più significativo – ognuno di essi non rappresenta tanto il mattone di una struttura piramidale, quanto piuttosto un assetto relativamente indipendente, e potenzialmente autonomo, con una propria capacità di contrattazione. In altri termini, la trasformazione dei partiti vede una moltiplicazione di quelli che Mauro Calise ha definito come «partiti personali»: partiti che non scaturiscono soltanto dalle nuove esigenze comunicative, ma anche da una modificazione più profonda nei rapporti di potere. Proprio per questo, i principali partiti italiani possono essere forse rappresentati – al di là della loro apparenza – più che come grandi strutture piramidali, fortemente centralizzate al vertice, come conglomerati relativamente instabili di molecole: molecole provvisoriamente aggregate, ma di fatto indipendenti anche dal punto di vista finanziario, grazie a consolidati rapporti con gruppi di interesse, a ramificate dinamiche clientelari, all’utilizzo dei vari livelli di governo.
3. Dopo sedici anni dall’inizio della «transizione» maggioritaria, la Seconda Repubblica sembra dunque mostrare – in modo quasi paradigmatico – tutti i caratteri di quella che Colin Crouch ha definito come «postdemocrazia», dalla disillusione all’antipolitica, al ruolo crescente delle oligarchie al trionfo della manipolazione comunicativa. In Italia infatti, come nell’ideal-tipo postdemocratico dipinto da Crouch, «anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi», mentre «la massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve». E, dunque, «a parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». All’interno di queste tendenze, è allora piuttosto scontato che l’«abisso morale» in cui sembra essere precipitata l’intera classe politica italiana non scaturisca solo da una generali crisi di valori delle élite, ma da dinamiche sistemiche più ampie. In un contesto contrassegnato dall’assenza di strutture di mobilitazione organizzate e di controlli istituzionalizzati (che non possono essere semplicemente sostituiti dall’azione della magistratura), la ‘corruzione’ diventa uno stabile strumento di mediazione degli interessi e di mobilitazione del consenso. Ma, soprattutto, in questo quadro i canali della partecipazione e della rappresentanza organizzata non possono che restringersi, se non proprio chiudersi.
Dato che le assemblee elettive vengono di fatto private di un ruolo significativo, e dato che l’organizzazione partitica non svolge una rilevante funzione di articolazione e aggregazione degli interessi (dalla base verso il vertice), anche le richieste che provengono ‘dal basso’ devono puntare a rivolgersi altrove. Senza trovare apparati destinati all’articolazione delle domande, la pressione tende così a indirizzarsi verso il vertice, o, meglio, verso i vertici, coincidenti con i centri di governo (a livello nazionale, regionale, locale), utilizzando canali informali (spesso invisibili e di tipo clientelare) di contrattazione. Ma, ovviamente, non tutte le pressioni hanno la medesima possibilità di accedere ai centri decisionali, o di incidere effettivamente sulle decisioni politiche. E, dunque, è quasi inevitabile che risultino privilegiati alcuni gruppi ristretti, dotati di maggiori risorse di pressione.
Da questo punto di vista, benché il sistema italiano non risulti più ‘bloccato’ come in passato, il nuovo assetto bipolare e maggioritario tende allora a far a emergere un nuovo ‘blocco’. Un blocco che non nasce dalla mancata alternanza al governo, ma proprio dalla logica innescata dalla transizione maggioritaria. Un blocco che sembra produrre non soltanto problemi congiunturali, ma una progressiva atrofia dei meccanismi istituzionali della rappresentanza democratica. E che, proprio per questo, appare come il frutto più amaro della transizione maggioritaria e dell’instabile bipolarismo della Seconda Repubblica.
Damiano Palano
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