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sabato 26 maggio 2012

Il «sacro» e la politica internazionale. Un libro a cura di Valter Coralluzzo e Luca Ozzano

di Damiano Palano



Una versione parzialmente diversa di questo testo è apparsa su "Avvenire" del 19 maggio 2012 con il titolo "Il Dio negato della diplomazia"

Silete, theologi, in munere alieno! Con questo monito Alberico Gentili concludeva una delle riflessioni più dense del suo De jure belli, pubblicato sul finire del Cinquecento e destinato a influenzare la riflessione di Ugo Grozio. L’invito che Gentili indirizzava ai teologi riguardava in particolare il concetto di ‘guerra’ e profilava il sentiero che avrebbe imboccato l’Europa dalla metà del XVII secolo. A partire da quel momento, la ‘guerra’ doveva infatti diventare una condotta riservata soltanto agli Stati, e qualsiasi considerazione teologica sulla sua legittimità doveva dunque essere espulsa dalla discussione politica e giuridica. Storicamente, la ‘depoliticizzazione’ della religione, sancita convenzionalmente dalla Pace di Vestfalia, costituì una soluzione alle lacerazioni aperte nel Vecchio continente dalla rottura dell’unità della Christiana Respublica. Ma quel processo ebbe anche un duraturo effetto sul modo di concepire la politica internazionale. Tanto che continua ancora oggi a influire sulle Relazioni Internazionali, la disciplina accademica che si occupa di spiegare e comprendere le dinamiche del sistema mondiale.
In effetti la politologia internazionalista non ha percorso una traiettoria diversa da quella delle altre scienze sociali, segnate in profondità dal paradigma della secolarizzazione. Ma, nel caso delle Relazioni Internazionali, la convinzione che la religione tenda a diventare sempre meno rilevante nelle società avanzate si è combinata con uno dei tratti genetici del sistema interstatale moderno, ossia proprio con l’espulsione della dimensione del ‘sacro’. Così, se a partire dalla fine degli anni Settanta molti scienziati sociali hanno riconosciuto i tratti di quella che Gilles Kepel ha definito come la revanche de Dieu, gli specialisti delle Relazioni Internazionali hanno esitato a compiere lo stesso passo, nonostante la rilevanza del fattore religioso sia emersa in modo prepotente.
Solo molto di recente alcuni politologi hanno iniziato a prendere atto di come il ‘ritorno del sacro’ richieda un ripensamento proprio del paradigma vestfaliano, e cioè di quella visione che espelleva dal campo la dimensione religiosa. E un contributo importante allo sviluppo del dibattito in questa direzione è ora offerto da un testo curato da Valter Coralluzzo e Luca Ozzano, Religioni tra pace e guerra. Il sacro nelle relazioni internazionali del XXI secolo (Utet Università, pp. 226, euro 23.00). Il volume, preceduto da una prefazione di Vittorio Emanuele Parsi, ospita infatti contributi dedicati sia a un ripensamento teorico del rapporto fra il sacro e la politica internazionale, sia all’approfondimento di alcuni dei casi in cui la dimensione religiosa rappresenta una variabile fondamentale. Il taglio dei testi restituisce la pluralità degli sguardi con cui i rapporti fra politica e religione possono essere considerati, e in questo senso, più che proporre una specifica lettura, il volume di Coralluzzo e Ozzano apre un percorso di discussione. Nell’auspicio che – come scrivono i due curatori nelle pagine introduttive – i politologi adottino finalmente «un atteggiamento che sia meno orientato verso l’esclusione o la stigmatizzazione aprioristica della religione e più propenso a comprenderne in concreto il ruolo, con un’analisi approfondita che si sottragga a qualunque ipoteca di tipo filosofico e/o ideologico, come pure ai pregiudizi legati all’adozione di un particolare paradigma interpretativo».
L’obiettivo del libro consiste d’altronde nell’offrire strumenti interpretativi adeguati alla complessità del fenomeno. E, soprattutto, nel superare le  due trappole speculari dell’‘essenzialismo’, che considera le religioni mondiali come indissolubilmente legate a determinate aree geopolitiche, e dello ‘strumentalismo’, che rappresenta invece le religioni solo come ideologie utilizzate dalle élite per ottenere consenso. In realtà, come osservano Coralluzzo e Ozzano, il ruolo che gioca il fattore religioso è tutt’altro che riducibile all’interno di schemi costanti. Proprio per questo la sua comprensione richiede un esame attento, che riesca anche a riconoscere la specificità della dimensione del ‘sacro’. E che, soprattutto, sia in grado di comprendere il ruolo che già oggi, in modo più o meno visibile, gli attori religiosi svolgono nel dialogo fra le civiltà.


Damiano Palano

Valter Coralluzzo e Luca Ozzano, Religioni tra pace e guerra. Il sacro nelle relazioni internazionali del XXI secolo, Utet Università, pp. 226, euro 23.00. Prefazione di V.E. Parsi.

domenica 20 maggio 2012

Un uomo in canottiera. Umberto Bossi nella lettura di Marco Belpoliti


di Damiano Palano


Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica - RdPonline

Nella sceneggiatura per un film mai realizzato, Marco Lombardo Radice scrisse che «l’unica conquista del sessantotto è stata l’abolizione della canottiera». E, in effetti, chi volesse raccontare una sorta di storia sociale dell’abbigliamento intimo dovrebbe rilevare come, a partire dagli anni Settanta, la canottiera sia stata progressivamente soppiantata dalla T-shirt, finendo addirittura per essere bandita dai negozi specializzati e dagli scaffali dei grandi magazzini. A un certo punto, questo indumento ha certo conosciuto una nuova fortuna, legata alla rilettura glamour che ne hanno fornito stilisti, cantanti e attori, ma la nuova declinazione ha ben poco a che vedere con la vecchia canottiera, indissolubilmente legata nella percezione collettiva alle fatiche estive dei lavoratori manuali, e abissalmente lontana dagli ammiccamenti erotici delle mode omofiliache. In una simile storia sociale, non si potrebbero però non segnalare gli episodi di alcuni utilizzi ‘politici’ dell’indumento, e in questo caso si potrebbero evocare le canottiere esibite da Benito Mussolini, o la canottiera affiorante sotto la camicia madida di sudore di un Bettino Craxi ormai vicino al crepuscolo della sua avventura, in uno degli ultimi congressi del vecchio Partito Socialista. Ma, al di là di questi episodi, c’è senza dubbio un uomo politico italiano che ha fatto della canottiera – proprio della bistrattata canottiera bianca di manovali e facchini – un vero e proprio simbolo. Nella sua storia politica, Umberto Bossi è riuscito infatti tramutare le sue apparizioni in canottiera in formidabili atti ‘performativi’ di un’identità e di una vocazione. E a ragione, Marco Belpoliti – proseguendo il percorso sul rapporto fra corpo e politica nella postmodernità, avviato con il suo Il corpo del capo – dedica un nuovo lavoro proprio a La canottiera di Bossi (Guanda, pp. 109, euro 10.00), che ovviamente è anche un contributo al ripensamento del ruolo che la Lega Nord e il suo leader hanno ricoperto nell’Italia dell’ultimo ventennio.  

L’episodio più celebre con cui Bossi lega la propria immagine alla canottiera risale all’estate del 1994, e cioè a un momento in cui l’alleanza di governo tra la Lega Nord e Silvio Berlusconi, dopo pochi mesi, ha già iniziato a incrinarsi. Ad agosto il leader leghista si reca in vacanza a Porto Cervo, ospite di Giancarlo Pagliarini, ministro nel primo governo Berlusconi e storico seguace di Bossi. Di lì a poco, il cosiddetto ‘patto delle sardine’ sancirà la caduta del governo e la rottura del patto tra Bossi e Berlusconi. Ma proprio in quei tesi giorni di agosto, Bossi fa della sua breve villeggiatura sarda uno spettacolo memorabile. Tra gli ospiti dell’esclusiva località balneare, Bossi si presenta con la sua leggendaria canottiera bianca e con calzoncini sportivi anni Settanta, rilasciando interviste ai giornalisti in questa tenuta e facendosi riprendere dai fotografi e telecamere mentre gironzola sull’arenile attorniato da curiosi e sostenitori. Anche oggi, a quasi vent’anni di distanza, la portata di quella rottura simbolica non può passare inosservata. Si trattava infatti di una rottura duplice: da un lato, rispetto allo stile compassato dei notabili della Prima Repubblica, e dall’altro con lo stile di Silvio Berlusconi, che pure – in modo completamente diverso – aveva fatto del corpo un formidabile strumento di comunicazione politica. E proprio nel confronto con Berlusconi emerge secondo Belpoliti il significato simbolico e politico della canottiera ostentata dal leader della Lega Nord: «Due differenti versioni del vestito sportivo, ma anche della propria fisicità. Berlusconi non si è mai fatto ritrarre, se non in foto palesemente ‘rubate’ da fotoreporter, in costume da bagno, o seminudo. L’immagine in canottiera del leader leghista viene invece trasmessa dai telegiornali con il pieno consenso di Bossi: il messaggio politico che il gesto comunica è esplicito: io sono parte del popolo, e la Lega è un movimento popolare. Seduto sulla spiaggia di Porto Cervo, luogo frequentato dai vip, il Senatùr, in procinto di rompere l’alleanza con il miliardario Silvio Berlusconi, si mostra così. Un vero everyman» (p. 59).
L’episodio della canottiera – che rappresenta il cuore del libro di Belpoliti – si inserisce all’interno di un’analisi sulla ‘corporeità’ di Umberto Bossi, in cui inevitabilmente la personalità del leader finisce col sovrapporsi al movimento politico leghista. In altri termini, anche se l’operazione appare per molti versi meno riuscita di quella compiuta nel Corpo del capo, Umberto Bossi viene interpretato da Belpoliti come la raffigurazione di un tipo umano in cui una specifica fetta della società italiana, attorno all’inizio degli anni Novanta, inizia a sentirsi effettivamente ‘rappresentata’, a dispetto delle movenze scomposte, del linguaggio scurrile, della volgarità esibita, dell’ignoranza talvolta persino orgogliosamente ostentata. L’idea che sta alla base dell’operazione di Belpoliti è in fondo la stessa che alimenta la spiegazione freudiana del potere esercitato dal leader sulla massa. In fondo, per Belpoliti il potere del capo non risiede tanto nella sua abilità manipolatoria, o nella sua superiorità intellettuale e morale, quanto nella capacità di rispecchiare un certo tipo di ambizioni, di desideri, e su questa base di costruire un rapporto emotivo. Ed è così proprio per questo che Belpoliti ritrova nella canottiera di Bossi molto di più che il segno di una personalità, di una psicologia. Umberto Bossi diventa perciò – secondo Belpoliti – il simbolo in cui può riconoscersi una parte fino a quel momento invisibile dell’Italia settentrionale, tanto che l’esibizione della negletta canottiera da carpentiere sulla spiaggia di Porto Cervo può diventare un atto performativo molto più efficace di tante dichiarazioni programmatiche e di tanti comizi.


Nella sua ‘fenomenologia’ di Umberto Bossi, Belpoliti ritrova nel leader leghista una perfetta esemplificazione di quel tipo umano che Federico Fellini fissò nei Vitelloni. Ben prima del suo ingresso in politica, Umberto Bossi, come i protagonisti del vecchio film di Fellini, è infatti «un giovane perdigiorno, abbastanza stagionato, che qualcuno mantiene», «uno che non sa bene cosa vuol fare nella vita, e che disdegna i lavoretti, le piccole occupazioni che la cittadina di provincia offrirebbe alla sua scarsa preparazione» (pp. 5-6). Osservando le prime foto di Bossi che appaiono sulla stampa, risalenti alla fine degli anni Ottanta, e soffermandosi in particolare su quel tratto di «disordine» spesso evidenziato, Belpoliti ritiene si tratti proprio di elementi che si inquadrano nello stile di un nuovo «vitellone». «Bossi è un vitellone, non uno dei ragazzi nullafacenti, sognatori, umanamente mediocri, degli anni Cinquanta, bensì un vitellone degli anni Settanta e Ottanta» (p. 6). I suoi remoti tentativi di avviare una carriera di cantante con lo pseudonimo di Donato, l’abbigliamento trascurato delle sue prime apparizioni, ma anche la sua gestualità scomposta, il suo modo di tenere il microfono e di arringare il suo pubblico, la voce «cavernosa, profonda, strascicata» rendono Bossi davvero anomalo rispetto al quadro politico del tempo e più vicino agli urlatori degli anni Sessanta. «Somiglia più a un cantante», scrive infatti Belpoliti, «che usa il microfono avvicinandoselo molto, entrandoci quasi in rapporto fisico, stando tuttavia attento alla modulazione della voce, allo scopo di ottenere l’effetto desiderato, ossia il forte riverbero, se non proprio virulento, sui fan che stazionano sotto il palco» (p. 17). La gestualità e l’uso della voce sono d’altro canto il contenuto stesso del messaggio, perché «nel caso di Bossi non è solo la parola – anche quella naturalmente, e il tono della voce –, ma sono i gesti che si accompagnano alle parole, le quali spesso costituiscono delle provocazioni, delle ‘sparate’ (minacce, offese, dileggi eccetera), ad avere un potere performativo, così da rappresentare il vero contenuto della politica della Lega, che peraltro si fonda esclusivamente sulle parole del Capo, sui suoi slogan e affermazioni, che mutano di mese in mese, oltre che di anno in anno» (p. 29). Di questo repertorio Belpoliti sottolinea anche la componente sessuale, che d’altronde nelle performance oratorie è tutt’altro che assente, ma l’aspetto più interessante della sua analisi è nell’idea che il profilo di Umberto Bossi sia quello del «vitellone», e che proprio questo tratto – invece di rappresentare una debolezza della sua immagine politica – ne costituisca la forza principale. In altre parole, come scrive Belpoliti nelle pagine conclusive, tutte centrate sull’esame di alcune fotografie scattate da Ferdinando Scianna nei primi anni Novanta, la forza di Bossi stava tutta nella capacità di raffigurare un’Italia minore, forse persino rimossa, comunque lontana dal palcoscenico della politica: «Bossi non è altro che un vitellone di provincia. Lo rivela la postura, lo sguardo e quelle labbra carnose, quasi femminee, sul viso lungo e smunto. Non sta facendo niente; prende un caffè al bar. Uno studente fuoricorso, un simpatico perdigiorno, e anche spiritoso probabilmente. Un nullafacente. Il ritratto dell’Italia paesana subito dopo il boom economico, da cui molti di noi provengono, amata e rifiutata al medesimo tempo. Il ‘paese stretto’ di Leopardi, che per quasi trent’anni è uscito da se stesso pur restando se stesso, e ha ghermito il resto dell’Italia, le città del Nord, Milano, e poi Roma, la Capitale, la Città Eterna. Che ha condizionato, in una congiuntura imprevista e imprevedibile, le nostre stesse vite, e che ora si ritrae, torna là dove era venuto; si acquatta dentro il suo grembo originario, riposa, almeno per un po’, ma senza scomparire del tutto. L’identità italiana è impregnata anche di questo, fa parte di noi, per quanto ce ne distanziamo, lo rinneghiamo, cerchiamo di strapparcelo di dosso» (p. 90).

Soprattutto per le nuove generazioni è oggi molto difficile apprezzare fino in fondo l’effetto dirompente che ebbe l’apparizione di Bossi sulla scena della politica italiana. Di quella leadership carismatica oggi non rimane altro che l’alone sbiadito. Seguendo il declino fisico e politico dell’uomo, anche la canottiera ha finito col cambiare il proprio significato, ed è diventata l’indumento di un anziano pensionato, se non addirittura – si potrebbe dire dopo gli eventi delle ultime settimane – l’ideale abbigliamento del Palo della banda dell’Ortica cantato da Jannacci. Anche Belpoliti rinviene un mutamento radicale nel significato di quella canottiera, che Bossi torna a esibire nell’estate del 2011, in un estremo tentativo di tornare alle origini del movimento, e così di riaffermare l’identità leghista, offuscata dal lungo sodalizio con la compagine berlusconiana. Nelle nuove fotografie, però, Bossi «appare invecchiato, più simile a un pensionato che non al brillante provocatore politico degli ultimi vent’anni». «La canottiera diventa il segno di una vistosa decadenza fisica che finisce per sublimarne la figura, la santifica, almeno in parte, ma soprattutto la sposta fuori dal campo simbolico della politica in senso stretto. Ora la canottiera non è più un gesto provocatorio. Torna a essere un indumento intimo, che nel galateo piccolo borghese (il popolo che si vergogna di essere ‘popolo’) doveva restare nascosto sotto i vestiti» (p. 67).
Da sempre intrecciata a doppio filo con la figura del suo leader storico, la Lega Nord si troverà probabilmente nei prossimi mesi e nei prossimi anni dinanzi a un cammino molto intricato, e – come avviene per tutti i movimenti fortemente segnati da personalità carismatiche – è molto improbabile che riesca a conservare inalterata la propria forza, se non operando una profonda ridefinizione del proprio profilo e del proprio progetto politico. D’altro canto, è ormai piuttosto evidente non solo che non esiste più quel «vitellone» capace di trascinare con i suoi improperi sguaiati le folle settentrionali, ma anche che quella magmatica coalizione sociale cui la Lega delle origini si rivolgeva è cambiata profondamente, colpita dalla crisi economica e prima ancora dalle trasformazioni intervenute nel tessuto produttivo del Nord-Est. Forse è presto per intonare il de profundis per la Lega, e farlo sarebbe d’altronde quantomeno imprudente, data l’abilità di risorgere in modo inaspettato dalle difficoltà che da vent’anni la leadership leghista ha più volte mostrato. Ma è oggi comunque già possibile guardare a Bossi e alla sua avventura politica stilandone un bilancio. Un bilancio che, se certo non può essere privo di ombre e di aspetti negativi, non può neppure negare a Bossi e alla Lega una strabiliante capacità ‘performativa’, di cui l’uso della canottiera fornisce solo uni dei tanti esempi. Nel corso della sua storia, Bossi è spesso stato stigmatizzato per il suo ‘populismo’, e con questa formula i suoi critici hanno voluto biasimare l’utilizzo di toni demagogici e irresponsabili. Effettivamente, Bossi è stato davvero un leader populista, ma nel suo populismo c’è molto di più dell’abilità manipolatoria che – non senza ragioni – gli è spesso stata rimproverata. Bossi e la Lega sono stati ‘populisti’, in un senso ben più ampio (e forse anche più nobile) del termine, perché hanno davvero creato un ‘popolo’ che in precedenza non esisteva, perché hanno creato quella «questione settentrionale» di cui nessuno (o quasi nessuno) aveva fino a quel momento pubblicamente parlato, e perché hanno dato forma a quel «popolo del Nord» di cui in precedenza nessuno aveva neppure sospettato la possibile esistenza. Ovviamente, quel «popolo del Nord» – come d’altro canto quella «Padania», su cui tanto si è ironizzato negli ultimi quindici anni, e che forse rimane la creazione simbolica meno riuscita di Bossi – rimane un popolo fittizio, come d’altronde sono a ben vedere fittizi tutti i popoli del mondo e della storia. Il punto è che Bossi e la Lega non si sono limitati a ‘rappresentare’ gli interessi del Nord, ma li hanno in gran parte costruiti, mediante una ‘rappresentazione’, forse narrativamente discutibile, ma politicamente formidabile. E, in fondo, proprio qui – nella capacità di costruire ‘rappresentazioni’ – stanno le radici reali della forza di un partito. Oggi quella rappresentazione ha perso molta della propria originaria energia, come d’altronde è visibilmente avvenuto per il carisma del leader leghista. È allora prevedibile che la canottiera orgogliosamente ostentata da Bossi torni davvero a essere solo un indumento di biancheria intima, e che il “popolo del Nord” finisca col dissolversi. Ma il fatto che la canottiera torni essere occultata pudicamente non significa certo che debba scomparire per sempre. E, soprattutto, non esclude che prima o poi qualche nuovo «vitellone», uscito da qualche balera di provincia o da un bar di periferia, non possa raccontare la storia di un altro popolo, e che da sotto la camicia non sia destinata a riaffiorare ancora una volta la vecchia, umile e bistrattata canottiera.

Damiano Palano

sabato 19 maggio 2012

"Religioni tra pace e guerra". Un libro curato da Valter Coralluzzo e Luca Ozzano. Oggi su "Avvenire"



Oggi su "Avvenire" appare una recensione del volume, curato da Valter Coralluzzo e Luca Ozzano, Religioni tra pace e guerre. Il sacro nelle relazioni internazionali del XXI secolo (Utet Università).  

mercoledì 16 maggio 2012

Un bipolarismo postdemocratico. Ripensare la 'Seconda Repubblica'

di Damiano Palano

Negli ultimi mesi è diventato ormai chiaro come la 'Seconda Repubblica'  sia ormai indirizzata verso il crepuscolo, ma forse non si è ancora seriamente iniziato a riflettere sulle cause che hanno condotto a un sostanziale fallimento tutte le grandi promesse coltivate al principio degli anni Novanta. Questo articolo, apparso nel novembre del 2010 sul secondo numero della rivista "Progetto Lavoro", può forse offrire un contributo alla discussione sulla reale fisionomia del "bipolarismo" che abbiamo conosciuto negli ultimi diciotto anni.

1. Alla metà degli anni Sessanta, Giorgio Galli, coniando una formula destinata ad avere un certo successo, definì il sistema politico italiano come un «bipartitismo imperfetto». Alla luce di quell’analisi la politica italiana appariva dominata da due grandi partiti che sovrastavano largamente gli altri, ma il carattere sostanzialmente bipartitico del sistema non si accompagnava al meccanismo dell’alternanza al governo. Il motivo che secondo Galli stava alla base di questa ‘anomalia’ consisteva soprattutto nella grande stabilità elettorale, che già allora iniziava ad essere rilevata da una serie di ricerche. In sostanza, dato che le scelte di voto si riproducevano senza sostanziali mutamenti da un’elezione all’altra, il sistema elettorale non poteva che risultare ‘bloccato’: la Democrazia cristiana faceva parte comunque di ogni coalizione di governo, come partito principale, mentre il Partito comunista ne rimaneva invariabilmente escluso. Ma, dato che l’alternanza non si poteva realizzare, la ‘minaccia’ costituita dall’eventualità di una mancata conferma al governo non poteva in alcun modo condizionare (e neppure responsabilizzare) la leadership democristiana.
La lettura proposta da Galli fu naturalmente contestata da diversi punti di vista e nel corso del dibattito successivo furono avanzate formule alternative, come «pluralismo polarizzato» o «pluralismo centripeto». Senza dubbio, la forza della diagnosi di Galli nasceva però proprio dall’immagine di un sistema ‘bloccato’, oltre che dalla stabilità elettorale, dalla percezione del Pci come partito «antisistema» e dai condizionamenti internazionali che derivavano dall’appartenenza dell’Italia all’alleanza atlantica. Anche per questo, è comprensibile che, dopo il 1989, molti abbiano intravisto nella scomparsa della divisione bipolare fra Est e Ovest la condizione per superare il ‘blocco’ del sistema politico italiano. In altre parole, secondo questo ragionamento, la fine della conventio ad exludendum che condannava il Pci al ruolo di eterno oppositore poteva trasformare il sistema italiano in un autentico bipartitismo: un bipartitismo in cui l’accesso al governo diventava finalmente credibile anche per gli eredi del Pci, e in cui la dinamica dell’alternanza poteva rapidamente moderare gli eccessi ideologici e rendere così ogni forza politica sempre più ‘responsabile’, tanto nell’attività di governo, quanto nella critica ai partiti rivali.
A quasi due decenni di distanza dalla fine della Prima Repubblica, il sistema politico italiano mostra invece una realtà molto diversa. Il passaggio da un «bipartitismo imperfetto» a un sistema sostanzialmente bipolare, con la possibilità di effettiva alternanza al governo, si è in gran parte realizzato, ma l’alternanza non ha prodotto quasi nessuno dei risultati che molti auspicavano. E, soprattutto, una volta venuto meno il ‘blocco’, non sono affatto scomparsi quelli che venivano considerati come i principali ‘vizi’ della politica italiana. In primo luogo, nei sedici anni trascorsi dal 1994, il quadro partitico non ha fatto registrare un sostanzialmente mutamento in direzione della semplificazione o di un vero bipartitismo. Certo i partiti sono diversi rispetto a quelli della Prima Repubblica (sotto il profilo ideologico e organizzativo) e risultano più o meno stabilmente organizzati in due campi rivali, ma il loro numero non è diminuito rispetto al passato, tanto che l’attuale sistema partitico è stato definito come un anomalo «bipolarismo frammentato». In secondo luogo, la stabilità degli esecutivi non è aumentata in modo significativo rispetto al passato, e così la durata media dei governi della Seconda Repubblica risulta solo di pochi mesi superiore a quella registrata fra il 1948 e il 1994. E, infine, la dinamica dell’alternanza sembra avere solo parzialmente ‘responsabilizzato’ i due poli, sia perché la politica degli annunci spettacolari – invariabilmente non mantenuti – contrassegna in modo stabile l’odierno stile comunicativo, sia perché la componente ‘emotiva’ della contrapposizione fra coalizioni gioca un ruolo determinante nella mobilitazione elettorale e nella campagna permanente.
Per molti versi, i risultati della lunga «transizione» verso una democrazia maggioritaria possono essere considerati come l’ennesimo fallimento della fiducia incondizionata nutrita nei confronti dell’ingegneria elettorale. Ma fermarsi alla semplice denuncia delle promesse non mantenute dalla fine del ‘bipartitismo imperfetto’, o evocare magari le nuove cause che rendono ‘imperfetto’ e ‘anomalo’ anche l’attuale bipolarismo non è sufficiente. Soprattutto perché si rischia così di rimanere alla superficie dell’attuale bipolarismo, rinunciando a cogliere quelle che sono invece le basi più profonde di un assetto che, effettivamente, ha modificato i rapporti fra sistema politico e società.

2. È quasi impossibile comprendere la realtà dell’attuale bipolarismo senza tenere ben presenti alcuni processi che, negli ultimi trent’anni, hanno segnato la gran parte dei sistemi politici occidentali: l’indebolimento dell’identificazione partitica, la trasformazione dei partiti, la mediatizzazione della politica. Ognuno di questi tre processi – che sono tutt’altro che ‘anomalie’ – ha assunto in Italia caratteri peculiari. In primo luogo, l’indebolimento dell’identificazione è stato largamente favorito, nei primi anni Novanta, dalla rapidissima dissoluzione del sistema dei partiti della Prima Repubblica, e ciò ha effettivamente creato un mercato elettorale fluido, all’interno del quale gli elettori, privi di riferimenti, hanno ampliato notevolmente lo spettro di scelte a loro disposizione. A ben vedere, però, l’erosione delle vecchie appartenenze è stata seguita, in tempi piuttosto brevi, da una nuova strutturazione delle scelte, orientata non tanto sui partiti, quanto sulle coalizioni (e sul leader). In altri termini, sebbene l’identificazione partitica risulti molto indebolita rispetto al passato, è emersa una nuova polarizzazione fra destra e sinistra, che di fatto – come dimostrano molti studi – riduce notevolmente l’effettiva fluidità del mercato elettorale, limitando così a una quota marginale la porzione di elettorato effettivamente disponibile a spostare il proprio voto da una coalizione all’altra. In altre parole, dunque, oggi siamo in presenza non tanto di un mercato elettorale effettivamente ‘bloccato’, come negli anni Cinquanta e Sessanta, quanto di un mercato in cui le fluttuazioni di voto avvengono più che altro all’interno dei serbatoi costituiti da ciascuna singola coalizione (oltre che fra le aree del voto e dell’astensione).
In secondo luogo, la trasformazione del sistema politico italiano ha alla base un mutamento strutturale dei partiti italiani, dal partito di massa al partito professionale-elettorale (e al cartel party). Una simile trasformazione implica il passaggio da un’organizzazione ‘pesante’ (un’organizzazione ramificata a livello territoriale e nella quale gli iscritti hanno un ruolo rilevante) a un’organizzazione ‘leggera’, priva di robuste articolazioni a livello locale e di un significativo apparato di funzionari, ma dotata invece di professionisti utilizzati prevalentemente per gestire la comunicazione del partito non solo nelle fasi di campagna elettorale, ma anche durante tutto il periodo inter-elettorale.
In terzo luogo, la mediatizzazione della politica italiana ha raggiunto livelli paradigmatici in conseguenza di una serie di fattori che sono in parte esasperati, ma che non risultano in contro-tendenza rispetto alla situazione delle altre democrazie occidentali. In Italia, infatti, una serie di elementi congiunturali ha favorito una pressione marcata non solo verso la spettacolarizzazione, ma anche verso una ‘presidenzializzazione’ che coinvolge tutti i livelli di governo. Questi elementi congiunturali, che svolgono una funzione fondamentale soprattutto nella fase di passaggio (fra il 1992 e gli anni immediatamente successivi)  sono almeno cinque: a) lo sfaldamento della Prima Repubblica e la riconfigurazione del sistema partitico in seguito alla ‘discesa in campo’ di un imprenditore della comunicazione, che costruisce una coalizione a partire dalla propria leadership e dal proprio apparato aziendale; b) il mito di una ‘società civile’ onesta, contrapposta a un sistema politico corrotto, che può ottenere un ruolo solo ‘superando’ le organizzazioni partitiche e votando per candidati in carne e ossa, che mettano in gioco – in prima persona – credibilità, reputazione e carriera; c) l’introduzione di un nuovo sistema elettorale, che, dal 1994 fino al 2001, segna il passaggio (per una componente rilevante) al sistema maggioritario e al collegio uninominale, ‘personalizzando’ dunque la competizione in ogni singolo collegio; d) la trasformazione di fatto del sistema parlamentare in una sorta di sistema parlamentare ‘presidenzializzato’, all’interno del quale il singolo elettore è chiamato a scegliere non per un partito, ma per un candidato premier, espresso da una coalizione; e) l’elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia e presidenti di regione, che produce l’effetto di un’ulteriore spinta alla ‘personalizzazione’ anche a livello locale.
Anche se alcuni di questi elementi sono ormai solo ricordi del passato, gli effetti prodotti dalla loro combinazione appare difficilmente reversibile, e d’altronde anche la reintroduzione del proporzionale (seppur in una variante senza dubbio anomala e spiccatamente maggioritaria) ha rafforzato ulteriormente la dinamica della personalizzazione. Forse, l’effetto principale di queste dinamiche può essere ridotto alla sostanziale presidenzializzazione del nostro sistema politico, ma, se ci si focalizzasse solo sul ruolo del Presidente del Consiglio e sul suo rapporto con il Parlamento si rischierebbe di perdere di vista un’insieme di conseguenze probabilmente ancor più rilevanti. In effetti, la presidenzializzazione ha coinvolto ogni livello di governo e ha guidato (o accompagnato) una complessiva trasformazione dei partiti. A ogni livello, la presenza di un leader forte (sotto il profilo comunicativo) è infatti richiesta dalla pressione sistemica, dalla necessità di ottenere la vittoria nella competizione elettorale, oltre che dalle esigenze della campagna permanente. Ma la presidenzializzazione è anche segnata da una crescita del ruolo dell’esecutivo rispetto al legislativo, sia perché la tempestività dell’azione di governo richiede, nelle democrazie contemporanee, procedure snelle e capacità decisionali, sia perché la tempestività dell’azione si combina con i tempi mediatici dell’annuncio e molto meno con il processo di discussione delle assemblee parlamentari. Una simile tendenza è ovviamente ben visibile nel Parlamento italiano, perché, a partire dagli anni Ottanta, il ruolo dell’esecutivo è stato costantemente rafforzato, ma emerge ancora più chiaramente nei governi locali e regionali, dove l’elezione diretta di sindaci e presidenti ha di fatto svuotato le assemblee elettive di ogni significativo potere di iniziativa e di controllo politico, consegnando dunque una sostanziale autonomia agli organi esecutivi.
Infine, la latente presidenzializzazione innesca – o contribuisce ad alimentare – la trasformazione interna dei partiti. Se dal punto di vista comunicativo il partito deve concentrare risorse e visibilità sul leader, dal punto di vista organizzativo deve raccogliere risorse per sostenere un apparato organizzativo, certo diverso rispetto al passato, ma comunque oneroso. In altri termini, il tramonto del partito di funzionari tende a imporre ai leader (soprattutto a livello locale e regionale) l’assunzione di cariche amministrative: un leader periferico (così come un ‘dissidente’ del gruppo dirigente nazionale) può acquistare visibilità mediatica e risorse rilevanti diventando sindaco di una grande città o presidente di regione, mentre la stessa dinamica si riproduce ai livelli più bassi. Proprio grazie alla conquista di una posizione amministrativa, il singolo leader costruisce attorno a sé un piccolo seguito di collaboratori – più o meno vasto a seconda dei casi – che costituisce una variante del partito di patronato, ossia del partito basato su un legame clientelare. Questi gruppi, radicati in un sistema di potere locale o regionale, sono inseriti all’interno di una struttura partitica nazionale, ma – ed è questo l’aspetto più significativo – ognuno di essi non rappresenta tanto il mattone di una struttura piramidale, quanto piuttosto un assetto relativamente indipendente, e potenzialmente autonomo, con una propria capacità di contrattazione. In altri termini, la trasformazione dei partiti vede una moltiplicazione di quelli che Mauro Calise ha definito come «partiti personali»: partiti che non scaturiscono soltanto dalle nuove esigenze comunicative, ma anche da una modificazione più profonda nei rapporti di potere. Proprio per questo, i principali partiti italiani possono essere forse rappresentati – al di là della loro apparenza – più che come grandi strutture piramidali, fortemente centralizzate al vertice, come conglomerati relativamente instabili di molecole: molecole provvisoriamente aggregate, ma di fatto indipendenti anche dal punto di vista finanziario, grazie a consolidati rapporti con gruppi di interesse, a ramificate dinamiche clientelari, all’utilizzo dei vari livelli di governo.

3. Dopo sedici anni dall’inizio della «transizione» maggioritaria, la Seconda Repubblica sembra dunque mostrare – in modo quasi paradigmatico – tutti i caratteri di quella che Colin Crouch ha definito come «postdemocrazia», dalla disillusione all’antipolitica, al ruolo crescente delle oligarchie al trionfo della manipolazione comunicativa. In Italia infatti, come nell’ideal-tipo postdemocratico dipinto da Crouch, «anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi», mentre «la massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve». E, dunque, «a parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». All’interno di queste tendenze, è allora piuttosto scontato che l’«abisso morale» in cui sembra essere precipitata l’intera classe politica italiana non scaturisca solo da una generali crisi di valori delle élite, ma da dinamiche sistemiche più ampie. In un contesto contrassegnato dall’assenza di strutture di mobilitazione organizzate e di controlli istituzionalizzati (che non possono essere semplicemente sostituiti dall’azione della magistratura), la ‘corruzione’ diventa uno stabile strumento di mediazione degli interessi e di mobilitazione del consenso. Ma, soprattutto, in questo quadro i canali della partecipazione e della rappresentanza organizzata non possono che restringersi, se non proprio chiudersi.
Dato che le assemblee elettive vengono di fatto private di un ruolo significativo, e dato che l’organizzazione partitica non svolge una rilevante funzione di articolazione e aggregazione degli interessi (dalla base verso il vertice), anche le richieste che provengono ‘dal basso’ devono puntare a rivolgersi altrove. Senza trovare apparati destinati all’articolazione delle domande, la pressione tende così a indirizzarsi verso il vertice, o, meglio, verso i vertici, coincidenti con i centri di governo (a livello nazionale, regionale, locale), utilizzando canali informali (spesso invisibili e di tipo clientelare) di contrattazione. Ma, ovviamente, non tutte le pressioni hanno la medesima possibilità di accedere ai centri decisionali, o di incidere effettivamente sulle decisioni politiche. E, dunque, è quasi inevitabile che risultino privilegiati alcuni gruppi ristretti, dotati di maggiori risorse di pressione.
Da questo punto di vista, benché il sistema italiano non risulti più ‘bloccato’ come in passato, il nuovo assetto bipolare e maggioritario tende allora a far a emergere un nuovo ‘blocco’. Un blocco che non nasce dalla mancata alternanza al governo, ma proprio dalla logica innescata dalla transizione maggioritaria. Un blocco che sembra produrre non soltanto problemi congiunturali, ma una progressiva atrofia dei meccanismi istituzionali della rappresentanza democratica. E che, proprio per questo, appare come il frutto più amaro della transizione maggioritaria e dell’instabile bipolarismo della Seconda Repubblica.

Damiano Palano

martedì 8 maggio 2012

Il lungo inverno del "dittatore" Monti

di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica - Rivista di Politica online 

Per motivi piuttosto comprensibili, nel corso del XX secolo il termine ‘dittatura’ ha smarrito, almeno nel linguaggio comune, il significato originario, ed è passato a indicare semplicemente un regime autoritario guidato da una personalità più o meno carismatica, in cui i cittadini sono privati delle libertà civili e dei diritti politici. È invece proprio al significato classico della ‘dittatura’ – e cioè alla magistratura riconosciuta e disciplinata all’interno dell’assetto costituzionale della repubblica romana, utilizzata in circostanze eccezionali, per la necessità di fronteggiare un nemico esterno, ma soprattutto per sedare le rivolte della plebe e i disordini interni – che ricorre Giulio Sapelli in un suo recente pamphlet per descrivere lo spirito del governo presieduto da Mario Monti, fortemente voluto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e sostenuto da una delle più ampie maggioranze della storia repubblicana italiana. In effetti, il governo di Monti – proprio come la dittatura romana – nasce dalla necessità ‘eccezionale’ di fronteggiare non le armi di un esercito nemico o sedizioni interne, bensì l’assedio dei mercati finanziari. Se sul ruolo effettivamente giocato dal governo ‘tecnico’ sarà possibile esprimere un giudizio solo nel momento in cui saranno chiari gli esiti di questa operazione, Sapelli, nel suo L’inverno di Monti. Il bisogno della politica (Guerini e Associati, pp. 73, euro 8.00), esprime invece una valutazione molto critica non tanto sull’esecutivo, quanto sulla filosofia che ne ha ispirato la formazione. In sostanza, Sapelli critica la convinzione del principale artefice del governo Monti, ossia del Presidente della Repubblica, che, ricercando una soluzione ‘tecnica’, avrebbe rinunciato a percorrere una strada realmente ‘politica’, l’unica in grado di offrire uno sbocco significativo alla situazione critica del Paese.
Al di là di una simile valutazione, l’analisi di Sapelli è estremamente interessante perché colloca l’attuale crisi politica ed economica italiana al culmine di una stagione che ha rotto con un tratto caratterizzante della storia unitaria del Paese. In effetti, la tesi alla base dell’intera lettura di Sapelli è che la storia d’Italia sia sempre stata «un intreccio di storia nazionale e internazionale» (p. 9): in altre parole, in tutti i momenti cruciali della storia italiana i destini del Paese non si decidono solo per effetto di dinamiche puramente interne, ma – come in occasione dell’unificazione, della presa di Roma, o del passaggio a un regime democratico dopo la Seconda guerra mondiale – sempre in una costitutiva interazione con quanto avviene al di fuori dei confini. Qualcosa di simile avviene naturalmente anche per la Germania, le cui sequenze storiche seguono per molti versi specularmente quelle italiane. Ma questo cammino parallelo si interrompe bruscamente con il 1989, perché da quel momento – scrive Sapelli - «la Germania ritrova la sua temuta centralità economica e trasforma l’unione monetaria europea in una vittoria pacifica sul continente» (p. 13). E perché, in quello stesso momento, l’Italia rompe l’intreccio tra nazione e internazionalizzazione che aveva contrassegnato il proprio cammino più che secolare.
A ben vedere, secondo Sapelli l’intreccio tra nazionale e internazionale non è mai stato particolarmente virtuoso sotto il profilo economico, e anzi è stato spesso ‘vizioso’, nel senso che spesso ha comportato attacchi alla posizione dell’Italia nella catena internazionale della divisione del lavoro, e dunque lo smantellamento di quelle attività che consegnavano potenzialmente all’Italia risorse competitive rilevanti. Sapelli si riferisce, per esempio, agli attacchi sferrati contro Adriano Olivetti dalla Fiat e da Mediobanca, o alla vicenda umana e politica di Enrico Mattei, oltre che al recente smantellamento della siderurgia a ciclo integrale e della chimica etilenica. Pur all’interno di questa costante connotazione ‘viziosa’ del rapporto fra ‘nazionale’ e ‘internazionale’, Sapelli intravede però una cesura netta nella storia repubblicana recente. «Il governo e il sistema emerso con Berlusconi alla metà degli anni Novanta del Novecento» - secondo Sapelli – ha infatti segnato «una profonda cesura con il nesso tra storia nazionale e storia internazionale», perché in questo caso «il versante nazionale ha prevalso su quello internazionale» (p. 21). Le cause di una simile inversione di rotta scaturivano sia dal contesto politico globale, e cioè dal disorientamento immediatamente successivo alla caduta dell’Urss, sia dalla consunzione del sistema dei partiti e di quella sorta di regime cleptocratico che fu la ‘Prima Repubblica’ degli anni Ottanta. Ma, insieme a questo, a innescare la rottura del nesso fra nazione e internazionalizzazione furono le caratteristiche di quel blocco sociale che si coagulò intorno a Forza Italia e al suo leader. «Si scontrava», scrive Sapelli, «il modello fondato sulla piccola impresa e sul lavoro in frantumi […] con il legame internazionale subalterno, non solo sul piano economico, maturato in lunghi decenni. Il mercato unico europeo mascherò tale a-sincronia, ma non poté farlo a lungo. Proprio il rapporto con la Germania non poteva che portare la differenza dei modelli di crescita a uno scontro irreversibile» (p. 25). Per quanto il legame fra nazione e internazionalizzazione continuasse a sopravvivere formalmente, garantito dal progetto dell’unificazione monetaria, in realtà sul versante politico si delineava una frattura profonda, che rifletteva d’altronde la specificità di un modello di crescita e di un blocco sociale che non poteva che risultare – nella propria stessa ossatura – strutturalmente ‘anti-tedesco’: «che cosa hanno a che fare gli attori economici che un tempo vivevano di svalutazioni competitive ora impossibili, con il sistema economico-sociale tedesco? Si tratta di piccole e piccolissime imprese (che sono un patrimonio meraviglioso di virtù del lavoro, di creatività, di amore per le persone che in forma dipendente in essa lavorano), di proliferazione di lavoro autonomi, ma anche di precarietà del lavoro, di lavoro nero, di aumento dei differenziali di crescita fra Nord e Sud, di espansione dell’illegalità mafiosa nonostante la lotta condotta da segmenti importantissimi dello stato contro di essa, di evasione fiscale» (p. 32). Contro questo blocco sociale doveva prendere forma un altrettanto magmatico blocco, formato da un numero esiguo di grandi attori economici internazionalizzati, e sorretto dal Pd, dalle formazioni centriste, e persino dai sindacati dei lavoratori, i quali proseguivano così una trasformazione già avviata negli anni Settanta, destinata a indebolire sempre più il legame con il mondo operaio. Ed è per tutti questi motivi così che veniva allora a rovesciarsi, secondo la lettura di Sapelli, la relazione fra classe operaia e ceti medi: in effetti, mentre quelli che lo storico definisce come «ceti medi parassitari» si spostavano politicamente verso il centro-sinistra, la classe operaia (e i gruppi legati alle attività produttive) si orientavano verso il polo «antipolitico». Ma la contrapposizione fra questi due blocchi sociali, alla base del sistema della ‘Seconda Repubblica’, doveva fatalmente essere travolta dalla crisi economica, la quale peraltro si limitava a portare al pettine tutti i nodi aggrovigliati di un ventennio. In particolare, la piccola impresa, uno dei vettori storici dello sviluppo economico italiano, in un quadro segnato dalla rigidità monetaria non risultava più in grado di produrre crescita. Mentre, al tempo stesso – e questo è un punto su cui Sapelli insiste con forza – lo Stato, l’unico attore in grado di offrire una spinta propulsiva all’economia – veniva privato di qualsiasi risorsa d’azione, per effetto di un’azione combinata di delegittimazione politica e di appropriazione delle risorse pubbliche condotta dalla classe politica. Come sintetizza Sapelli a questo proposito: «quella macro-rigidità si accompagna a un fanatismo istituzionale e ideologico liberistico, che impedisce a un nuovo capitalismo monopolistico di stato di costituirsi come vettore supplente e sussidiario a favore di quella debolezza prima evocata. Questa è stata la conseguenza più nefasta della cleptocrazia delle classi politiche e del loro neo-patrimonialismo: hanno distrutto lo stato amministrativo e ne hanno fatto lo stato dei partiti e l’hanno spogliato delle sue prerogative imprenditoriali, spoliazione in cui non a caso si è distinto più di tutti Romano Prodi e il suo blocco di potere: di quello stato, che un tempo era uno stato imprenditore e virtuoso, non è rimasto più nulla» (pp. 36-37). E benché i governi presieduti da Berlusconi cerchino di ricostruire un legame fra nazionale e internazionale, la politica italiana risulta fallimentare sotto questo profilo perché si mostra del tutto incapace di cogliere con realismo la partita in atto in Europa. Ciò risulta evidente – nella lettura di Sapelli – soprattutto nel rapporto con la Francia: se per riequilibrare il modello economico europeo centrato sulla fisionomia dell’economia tedesca l’Italia avrebbe dovuto cercare di costruire un asse con Parigi (e dunque concedere qualcosa, in termini di acquisizione di risorse italiane), in realtà si è proceduto nel senso opposto. E, così, si è rafforzata proprio la guida tedesca dell’Unione, fatale per la fragile struttura imprenditoriale italiana.
Il superamento di un simile stallo richiederebbe, per Savelli, una svolta radicale, sia sul piano interno, sia su quello internazionale. Innanzitutto, a livello europeo l’unico modo di uscire realmente dalla crisi consisterebbe nel passare da una politica deflattiva e una politica inflattiva, e dunque in una netta riduzione della rigidità monetaria. Ma ciò richiederebbe una complessiva ridefinizione anche degli equilibri politici interni, ed è invece su questo punto che il severo giudizio di Sapelli coinvolge la «dittatura» di Monti. «Il professor Monti», scrive Sapelli, «è la quintessenza della morte dell’ideologia. È il superamento della medesima nel mondo iper-uranico della foresta pietrificata delle idee, ma nel contempo è l’esponente del blocco poliarchico italico organicamente europeo» (p. 55). Inoltre, la «dittatura» di Monti riflette «una situazione di condizionamenti a cui è sottoposto il potere parlamentare da parte di un potere non parlamentare ma misto, tecnocratico-parlamentare» (p. 57). Il punto è però che questa dittatura non pare avere alcuna realistica possibilità di fronteggiare una situazione segnata dal progressivo allontanamento degli Usa dal teatro europeo, oltre dall’assenza di qualsiasi baricentro. «Tutto è instabile, tutto rischia di rovinarci addosso. E proprio in questa situazione il Presidente della Repubblica Italiana pensa di sortire da essa con una sorta di imitazione delle dittature romane» (p. 67). Invece di ricercare una soluzione ‘politica’, Napolitano ha imboccato la strada ‘tecnica’, e «la conseguenza di questo rifiuto della soluzione politica è stata non soltanto l’aumento della sofferenza sociale, ma l’emergere di una ‘crudeltà istituzionale’ sino a oggi inusitata» (p. 70).

È forse ancora troppo presto per giudicare l’operato del governo Monti, anche se è probabile che molte delle attese che l’opinione pubblica ha nutrito nei confronti di questo esecutivo finiranno con l’essere deluse, per il semplice fatto che si trattava di attese irrealistiche. D’altronde, il governo presieduto da Monti finirà con l’essere ricordato come una sorta di governo Badoglio: un governo in fondo privo delle possibilità di rovesciare una situazione irrimediabilmente compromessa, eppure in qualche misura indispensabile per salvare almeno un minimo della credibilità perduta dinanzi ai partner europei. In questo senso, le critiche indirizzate a Napolitano appaiono forse eccessive, non tanto perché il Presidente della Repubblica non abbia più di qualche responsabilità nell’aver indirizzato la soluzione della crisi politica (e forse anche nell’aver tardato a prendere atto dello stallo), quanto perché sarebbe stato realisticamente molto difficile riuscire a imboccare davvero la strada indicata da Sapelli con le forze politiche presenti oggi in Parlamento, senza pagare al tempo stesso il prezzo di una totale perdita di fiducia presso gli altri paesi dell’Unione. Ciò nondimeno, il quadro analitico delineato da Savelli appare largamente convincente, a dispetto della sua drammaticità, e forse sarebbe indispensabile partire proprio dagli elementi che segnala per ripensare al ventennio del ‘post-Tangentopoli’. Sarebbe infatti necessario prendere atto che proprio nel quadro definitosi nel passaggio fra il 1992 e il 1994 si sono gettate le basi del declino italiano, un declino che in quel momento non era scontato, ma che la combinazione di alcuni fattori ha reso in fondo inevitabile. In effetti, proprio le privatizzazioni della metà degli anni Novanta e la demolizione dell’amministrazione pubblica, condotte sotto il velo delle suggestive formule della ‘liberalizzazione’, della ‘semplificazione’, di un ‘federalismo’ (presunto), dell’efficienza meritocratica, si sono combinate con l’accettazione di un quadro europeo destinato a soffocare l’economia italiana, nella convinzione – ai limiti della criminale ingenuità – che per favorire la competitività del Paese fosse sufficiente trasformare intere generazioni di giovani in un esercito di precari a vita.

Probabilmente, il potere seduttivo della ‘tecnica’ – inevitabile contrappasso per un Paese che ha consegnato per decenni il proprio destino a professionisti del ‘dilettantismo politico’ – è ormai destinato a un rapido logoramento, i cui segni sono d’altronde già piuttosto visibili. E, in questo senso, è davvero difficile non riconoscere un fondamento all’invocazione della politica formulata da L’inverno di Monti, perché in effetti la «dittatura» dei ‘professori’ può soltanto rappresentare un rimedio a una crisi eccezionale, ma non può certo indicare la strada per un nuovo assetto costituzionale. Guardando all’odierno panorama italiano, è però difficile individuare anche soltanto i contorni di una possibile nuova costituzione materiale, che non rifletta la condizione magmatica della società italiana di oggi. Senza dubbio, assisteremo a quella ridefinizione dell’offerta politica che molti auspicano, e che segnerà la conclusione dell’ingloriosa parabola della ‘Seconda Repubblica’. Ma in una società ridotta a ‘mucillagine’, priva di qualsiasi fiducia e lontana da qualsiasi progettualità, è molto difficile capire ‘cosa’ e ‘chi’ davvero potranno rappresentare i nuovi partiti. E, soprattutto, è difficile anche solo immaginare quale nuovo soggetto possa avere la forza – sul piano interno, e su quello internazionale – per affrontare davvero la prospettiva di un declino che appare come sempre più irrimediabile.

Damiano Palano

venerdì 4 maggio 2012

Un volto nella folla. Un volume curato da Sabina Curti ed Elisa Moroni


di Damiano Palano

Con The Crowd, apparso nel 1928, King Vidor firmò uno degli ultimi grandi capolavori del cinema muto e uno dei più strabilianti ritratti della ‘massificazione’. Più ancora della storia del protagonista, destinato a vedere le proprie illusioni di successo infrangersi contro gli ingranaggi della grande macchina sociale, sono infatti gli stessi fotogrammi di Vidor a fissare in memorabili sequenze il brulicare inarrestabile della grande metropoli, la frenetica attività di impiegati raccolti in immensi grattacieli, il traffico tentacolare delle arterie viarie e soprattutto la presa irresistibile di una folla in cui le migliaia di volti finiscono col diventare anonimi, perdendo persino i loro tratti di umanità.
Quella medesima ‘folla’ cui Vidor dedicò il suo grande capolavoro iniziò a interessare le scienze sociali ottocentesche fin dal loro nascere. Probabilmente, si potrebbe anche sostenere che proprio lo shock costituito dall’apparire della folla metropolitana rappresenti uno degli stimoli a studiare scientificamente una realtà in evidente trasformazione, in cui i legami della ‘comunità’ e i rapporti sociali tradizionali sembrano dissolversi per essere assorbiti dal tourbillon di un’inarrestabile giostra, in cui i passanti si sfiorano l’un l’altro senza davvero conoscersi e neppure guardarsi negli occhi. In effetti, quella cui Tönnies, Simmel e Benjamin rivolsero il loro sguardo era proprio la ‘folla’ comparsa nei primi decenni dell’Ottocento nei passages di Parigi, e di cui i grandi narratori del XIX secolo – da Balzac a Sue, da Hugo a Zola – avevano fatto la vera protagonista dei loro romanzi. Accanto a quell’immagine della folla volubile e talvolta spensierata in costante movimento sui viali cittadini, si affiancò anche un’altra sagoma, assai meno rassicurante: la sagoma della ‘folla’ ribelle, violenta e sanguinaria, che già era stata protagonista delle giornate più cruente della Rivoluzione, e di cui certo non si era persa la memoria. Proprio queste due immagini – che si intrecciano per tutto l’Ottocento, senza reale soluzione continuità, e spesso in una sostanziale sovrapposizione – sono al centro dell’avventura intellettuale della ‘psicologia della folla’, una disciplina che fiorisce nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, che non riesce mai ad affermarsi accademicamente, ma che, ciò nonostante, esercita la propria influenza in mille direzioni, dalla sociologia alla scienza politica, dalla psicologia alla criminologia, dalla letteratura alla psicoanalisi.
A questa riflessione tornano i saggi raccolti in La folla. Continuità e attualità del dibattito italo-francese, un volume curato da Sabina Curti ed Elisa Moroni, pubblicato dalle edizioni Oge (Oldoni Grafica Editoriale) all’interno della collana del Centro di Ricerca per la Sicurezza Umana della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Perugia. L’attenzione non è rivolta però solo all’indietro, ma anche al presente, come scrivono le due curatrici nell’Introduzione, illustrando lo spirito del volume: «Eterogenea e transitoria, indifferenziata e instabile, la folla emerge e riemerge in vari periodi storici e sociali in forme differenti. Se la classe e la massa hanno caratterizzato il Novecento, nel Duemila la folla ritorna sulla scena nazionale e internazionale. Ma che cos’è la folla? In fondo, non c’è nulla di nuovo: la folla è stata ed è la moltitudine per eccellenza, una forma di raggruppamento sociale che, al di là del significato storico-politico attribuitole dal senso comune, dal sapere scientifico e dall’immaginario sociale, si colloca alla base della costituzione di tutte le altre. Corporazione, setta, casta, classe, pubblico, partito, massa, Stato, movimento sociale si configurano come dei particolari tipi di folla. La folla è contenuta in tutte le forme dello stare insieme e tutte, insieme alla folla, sono contenute nella società» (S. Curti ed E. Moroni, Introduzione, in La folla, cit., p. 11).
Il volume – che raccoglie anche una ricca appendice di testi – si inserisce all’interno di un progetto di ricerca internazionale, dedicato a “Gabriel Tarde e la foule. De la foule criminelle à l’esprit de (la) foule”, e intende riprendere e sviluppare quel dibattito italo-francese che, sul finire del XIX secolo, diede origine alla riflessione della psicologia collettiva. In effetti, le prime indagini sulla folla presero forma all’interno di quel gruppo di studiosi che, in Italia e in Francia, intendevano porre le basi di una nuova «antropologia criminale», ossia di una disciplina in grado di studiare le cause della criminalità con il supporto delle nuove scienze positive. In Italia, l’indiscusso pilastro della scuola di antropologia criminale era naturalmente Cesare Lombroso, e all’interno della cerchia raccolta attorno allo psichiatra veronese vide la luce nel 1891 La folla delinquente di Scipio Sighele, che può forse essere considerato il capitolo di avvio della stagione di ricerca sulla folla. Il lavoro di Sighele ottenne un seguito rilevante e alimentò anche un certo dibattito tra i cultori dell’antropologia criminale, interessati ai possibili utilizzi forensi delle acquisizioni della ricerca. Ma qualche anno più tardi Gustave Le Bon avrebbe dato alle stampe il suo celebre Psychologie des Foules, ottenendo un successo ben superiore, oltre che duraturo, e neppure paragonabile a quello di cui aveva beneficiato il giovane criminologo italiano. Il testo di Le Bon, destinato al grande pubblico e costruito con un’architettura senza dubbio efficace, salutava l’avvento dell’«era delle folle», e si proponeva di offrire ai nuovi aspiranti Principi i mezzi per governarle e per farne una leva di potere. L’oggetto era perciò ben più ampio dei comportamenti ‘criminali’ delle folle, cui Sighele aveva dedicato la sua analisi, ma, non senza ragioni, lo studioso italiano intravide tra i due libri dei singolari parallelismi, che lo indussero ad avviare una polemica destinata ad essere rinfocolata dalle eterne rivalità italo-francesi. Sebbene le rimostranze di Sighele non fossero del tutto immotivate (cfr. in proposito l’esame del dibattito svolto in D. Palano, Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nelle scienze sociali e nella teoria politica fra Otto e Novecento, Vita e Pensiero, Milano, 2002), in realtà molte delle ipotesi utilizzate da entrambi gli scrittori erano già presenti in lavori precedenti. E, probabilmente, un ruolo di primo piano nel delineare lo schema poi sviluppato da Sighele (e da Le Bon) fu ricoperto proprio da Gabriel Tarde, una peculiare figura di pioniere delle scienze sociali, che nell’ultimo decennio dell’Ottocento ebbe modo di pubblicare una serie di studi estremamente originali, in larga parte dimenticati dalla sociologia del Novecento, ma negli ultimi decenni riscoperti anche in Italia, come dimostrano tra l’altro la recente pubblicazione di testi come Il tipo criminale. Una critica al “delinquente nato” di Cesare Lombroso (Ombre corte, Verona, 2010), La morale sessuale (Armando, Roma, 2011), entrambi tradotti e curati da Sabina Curti, e Che cos’è la società? (Cronopio, Napoli, 2010). In effetti, Tarde si era già occupato del fenomeno della folla, seppur solo marginalmente, nelle Lois de l’imitation, che d’altronde Sighele citava esplicitamente. Ma già un decennio prima, in Che cos’è la società – un articolo poi confluito nell’opera più nota – Tarde aveva delineato l’ipotesi secondo cui tutti i rapporti sociali riproducono in fondo meccanismi imitativi, simili a quelli che si instaurano fra un ‘magnetizzatore’ e un ‘magnetizzato. Proprio questa idea, peraltro popolarizzata dal dibattito sulla suggestione e sull’utilizzo dell’ipnosi come strumento per curare l’isteria, sarebbe stata più avanti sviluppata dallo stesso Tarde per spiegare il meccanismo psicologico delle folle e delle sette criminali, oltre che da Sighele e Le Bon.  E, in qualche misura, è questa idea a tenere insieme nella riflessione di Tarde l’immagine della folla metropolitana e quella della folla ribelle e assetata di sangue.
Anche i tre saggi raccolti nel volume affrontano in effetti, con un taglio diverso, i due volti della folla, non tanto per cercare una sorta di punto di fusione, quanto per chiarire la complessità delle dimensioni che intervengono nel fenomeno. Nel suo interessante La folla introvabile. Appunti per una sociologia delle folle, Vincent Rubio ricostruisce le tappe della riflessione sulla folla, ma soprattutto evidenzia come sia possibile individuare due ipotesi, l’una centrata sulla folla come mito, l’altra sulla folla come forma di associazione in senso simmeliano. In Paura della folla. Dalle interpretazioni irrazionalistiche di fine Ottocento al ritorno delle tribù, Elisa Moroni ricostruisce l’itinerario di una riflessione intricata e discontinua, riportando alla luce l’originalità del contributo di Filippo Manci, che in un lavoro del 1924 propose un’interpretazione che abbandonava l’immagine della folla come fenomeno ‘irrazionale’. Ma, secondo Moroni, la vecchia riflessione sulla folla continua a offrire elementi importanti anche per comprendere quei fenomeni di aggregazione collettiva che oggi, nella stagione di crisi dei partiti e delle grandi organizzazioni politiche, tornano ad assumere una forma simile a quella di cui gli studiosi di fine Ottocento avevano ritenuto di conoscere la volubile psicologia. Come scrive in questo senso Moroni, con qualche accento critico nei confronti dell’idea di ‘neo-tribalismo’ proposta da Michel Maffesoli: «È utile ricordare che la psicologia delle folle nasce per dare risposte ai cambiamenti radicali delle interazioni quotidiane, che nell’Ottocento richiedevano nuovi metodi di gestione e di controllo, così come oggi le mutate interazioni sociali per gli effetti della globalizzazione e dei mezzi tecnologici ineriscono la necessità di riaprire l’analisi sullo studio delle folle, sulla ricerca del fattore aggregante, sulla natura degli aggregati odierni. A tal proposito è opportuno ripartire dal dibattito italo-francese sviluppatosi a cavallo tra Ottocento e Novecento che, pur nei suoi toni aspri o nelle sue distorsioni più o meno ideologiche della figura della folla rimane di fondamentale importanza per riprendere le fila del discorso. […] Ai fenomeni di folla a cui oggi assistiamo e, anche a quelli violenti, siamo chiamati a rispondere senza elogi o biasimi all’emotività delle folle, senza equivalenze tra violenza ed emergenze di elementi arcaici e senza liquidare i fenomeni di folla descrivendoli come aggregati privi di organizzazione e di progettualità, né descrivendole come tribù temporanee che hanno il proprio fine in se stesse, come nella lettura maffesoliana» (pp. 83-84).
Nell’ultimo saggio del volume, Il sonno dogmatico. Folla, pubblico e società in Gabriel Tarde, Sabina Curti torna a esaminare il pensiero del magistrato e sociologo francese, di cui è in effetti appassionata cultrice. In particolare, Curti segue gli snodi della riflessione di Tarde sulla folla, evidenziando come, nel corso del tempo, intervengano variazioni non marginali. In particolare, l’idea secondo cui «la società è imitazione, e l’imitazione una forma di sonnambulismo», un’idea formulata da Tarde già negli anni Ottanta, consente di distinguere, per così dire, due forme di sonnambulismo: il sonnambulismo ‘verticale’ è quello che opera effettivamente nella folla, perché il meneur riesce a dirigere i comportamenti dei singoli assiepati nella folla; il sonnambulismo ‘orizzontale’ opera invece nella società, in cui non si realizza una soggezione a un unico meneur, ma si imita piuttosto – seppur inconsapevolmente – gli uni dagli altri. Il punto principale, su cui opportunamente Curti attira l’attenzione, è però la convinzione di Tarde secondo cui il sonnambulismo è uno stato in fondo non aggirabile per gli esseri umani, e secondo cui il «sonno dogmatico» è dunque una condizione normale e non un’eccezione. «L’uomo», sintetizza allora Curti, «può solo sperare o credere di cadere in un sonno migliore» (p. 106).
Se Tarde avrebbe escluso recisamente l’ipotesi che l’utopia possa in qualche modo costituire una via per sfuggire al sonno dogmatico, Curti esplora invece una possibile soluzione nelle pagine di Walter Benjamin, rilette alla luce dell’interpretazione proposta da Andrea Cavalletti in Classe (Bollati Boringhieri, Torino, 2009). In un passaggio di Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Benjamin considerava infatti incidentalmente la riflessione della psicologia collettiva e scriveva: «La massa impenetrabile e compatta, che Le Bon e altri hanno fatto oggetto della loro ‘psicologia della massa’, è quella piccolo-borghese. La piccola borghesia non è una classe; è in realtà soltanto una massa, e tanto più compatta quanto maggiore è la pressione alla quale è esposta, tra le due classi nemiche della borghesia e del proletariato. In questa massa è di fatto determinante il momento reattivo, di cui si parla nella psicologia sociale». All’opposto, la classe operaia, nella sua manifestazione, appariva a Benjamin come una sorta di ‘allentamento’ della massa, che deriva dall’espressione della solidarietà interna: «Nell’istante in cui inizia la sua lotta di liberazione, la sua apparente massa compatta si è in verità già allentata. Essa smette di essere dominata dalla semplice reazione; passa all’azione. L’allentamento della massa proletaria è l’opera della solidarietà. Nella solidarietà della lotta di classe proletaria viene soppressa la morta, dialettica contrapposizione tra individuo e massa». Nella lettura di Cavalletti, il punto nodale è dato proprio dell’idea che la solidarietà costituisca «l’atto psicologico di dissoluzione della folla» (Classe, cit., p. 135), e dalla convinzione secondo cui questo elemento «risveglia dall’incanto del prestigio» (p. 84). A loro modo – osserva Curti – Tarde e Benjamin (interpretato da Cavalletti) «offrono oggi, lungi dal riportarci alle ideologie dei tempi passati, due lenti di ingrandimento indispensabili per mettere a fuoco gli attuali fenomeni di folla e per un valido impegno nella comprensione e nelle prevenzione dei ‘bagni di folla’ proprio a partire da un’analisi al microscopio del legame sociale che li sottende» (p. 111).
L’immagine di Benjamin – come sempre avviene per gli scritti del filosofo – è ricca di sollecitazioni, ma anche di qualche insidia (su cui mi sono brevemente soffermato commentando il lavoro di Cavalletti: cfr. La classe fra Marx e Benjamin). Da una parte, senza dubbio l’ipotesi benjaminiana tende a superare tutte quelle letture ‘rozzamente’ materialistiche che riconducono la ‘classe’ ai rapporti sociali di produzione, e dunque alla ‘struttura’ della società capitalistica, e così coglie anche l’importanza di tutti quei processi ‘emotivi’ che sostengono effettivamente un’identità collettiva e che spingono gli atomi dispersi nella «immensa raccolta di merci» ad agire collettivamente. Ma, d’altro canto, quando distingue tra la ‘massa’ di estrazione piccolo-borghese e la ‘classe’ lavoratrice, e soprattutto quando sostiene che solo la classe è in grado di ‘allentare’ la massa e di conquistare un’autentica ‘coscienza’ di se stessa, tende a replicare il logoro schema del materialismo dialettico, trasferito però su un piano ‘psicologico’. In altre parole, infatti, l’«allentamento» della massa, che solo la classe lavoratrice può mettere in atto, viene a sostituire quel meccanismo storico con cui la classe operaia, nel suo cammino di emancipazione, viene a conoscere non solo se stessa, e i propri ‘reali’ bisogni, ma anche le leggi del divenire storico e di funzionamento della società. Con la conseguenza che il risveglio dal ‘sonno dogmatico’ viene a configurarsi come una sorta di ‘svelamento’ della realtà sociale, dinanzi agli occhi di individui finalmente liberi dalla coltre ideologica del sonnambulismo. Che una simile immagine non sia destinata a perdere il proprio fascino è piuttosto prevedibile, ma è anche piuttosto scontato che, per ammettere davvero uno schema di questo tipo, sarebbe necessario riconoscere non tanto l’esistenza di una realtà sociale ‘oggettiva’, quanto la possibilità per gli esseri umani di conoscerla ‘oggettivamente’, e dunque senza la mediazione di ideologie, valori, condizionamenti culturali. Se invece non si vuole definitivamente cancellare con un tratto di penna tutte le critiche condotte in più di un trentennio contro le pretese di un positivismo dogmatico, forse vale la pena di riconoscere che davvero – come sosteneva il vecchio Tarde – la condizione umana è inevitabilmente una condizione di ‘sonnambulismo’, e che forse non esiste alcuna differenza ‘strutturale’ fra i fenomeni di identificazione collettiva, anche se naturalmente possono esistere differenze notevoli nella collocazione ‘materiale’ degli individui nella società. In altre parole, la ‘coscienza’ collettiva che possiamo conquistare può essere forse una coscienza ‘politica’, ossia la consapevolezza di far parte di un aggregato collettivo, dotato magari di una forza materiale di interdizione e conflitto, oppure anche di un progetto specifico. Questa ‘coscienza’ non può però coincidere con la ‘scoperta’ della realtà, o con il risveglio da un sonno dogmatico, che ci consente finalmente di riconoscere il mondo per quello che davvero è. Nel migliore dei casi, esprimerà sempre una specifica visione del mondo, il frutto di una prospettiva ‘parziale’, sebbene per questo non meno valida politicamente. In fondo, non la tesi di Tarde non andava in una direzione troppo diversa, perché siamo da questo punto di vista davvero condannati a essere sonnambuli, a passare cioè da una condizione di sonnambulismo a un’altra, e da un magnetizzatore a un altro. Come scrisse Tarde nelle Leggi dell’imitazione: «lo stato sociale, come lo stato ipnotico, non è che una forma del sogno, un sogno su comando e un sogno in azione. Non avere che idee suggerite e crederle spontanee: tale è l’illusione propria del sonnambulo, così come dell’uomo sociale».

Damiano Palano

Vedi anche
Gabriel Tarde e la società dei sonnambuli
La classe fra Marx e Benjamin