di Damiano Palano
Con The Crowd, apparso nel 1928, King Vidor firmò uno degli ultimi grandi capolavori del cinema muto e uno dei più strabilianti ritratti della ‘massificazione’. Più ancora della storia del protagonista, destinato a vedere le proprie illusioni di successo infrangersi contro gli ingranaggi della grande macchina sociale, sono infatti gli stessi fotogrammi di Vidor a fissare in memorabili sequenze il brulicare inarrestabile della grande metropoli, la frenetica attività di impiegati raccolti in immensi grattacieli, il traffico tentacolare delle arterie viarie e soprattutto la presa irresistibile di una folla in cui le migliaia di volti finiscono col diventare anonimi, perdendo persino i loro tratti di umanità.
Quella medesima ‘folla’ cui Vidor dedicò il suo grande capolavoro iniziò a interessare le scienze sociali ottocentesche fin dal loro nascere. Probabilmente, si potrebbe anche sostenere che proprio lo shock costituito dall’apparire della folla metropolitana rappresenti uno degli stimoli a studiare scientificamente una realtà in evidente trasformazione, in cui i legami della ‘comunità’ e i rapporti sociali tradizionali sembrano dissolversi per essere assorbiti dal tourbillon di un’inarrestabile giostra, in cui i passanti si sfiorano l’un l’altro senza davvero conoscersi e neppure guardarsi negli occhi. In effetti, quella cui Tönnies, Simmel e Benjamin rivolsero il loro sguardo era proprio la ‘folla’ comparsa nei primi decenni dell’Ottocento nei passages di Parigi, e di cui i grandi narratori del XIX secolo – da Balzac a Sue, da Hugo a Zola – avevano fatto la vera protagonista dei loro romanzi. Accanto a quell’immagine della folla volubile e talvolta spensierata in costante movimento sui viali cittadini, si affiancò anche un’altra sagoma, assai meno rassicurante: la sagoma della ‘folla’ ribelle, violenta e sanguinaria, che già era stata protagonista delle giornate più cruente della Rivoluzione, e di cui certo non si era persa la memoria. Proprio queste due immagini – che si intrecciano per tutto l’Ottocento, senza reale soluzione continuità, e spesso in una sostanziale sovrapposizione – sono al centro dell’avventura intellettuale della ‘psicologia della folla’, una disciplina che fiorisce nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, che non riesce mai ad affermarsi accademicamente, ma che, ciò nonostante, esercita la propria influenza in mille direzioni, dalla sociologia alla scienza politica, dalla psicologia alla criminologia, dalla letteratura alla psicoanalisi.
A questa riflessione tornano i saggi raccolti in La folla. Continuità e attualità del dibattito italo-francese, un volume curato da Sabina Curti ed Elisa Moroni, pubblicato dalle edizioni Oge (Oldoni Grafica Editoriale) all’interno della collana del Centro di Ricerca per la Sicurezza Umana della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Perugia. L’attenzione non è rivolta però solo all’indietro, ma anche al presente, come scrivono le due curatrici nell’Introduzione, illustrando lo spirito del volume: «Eterogenea e transitoria, indifferenziata e instabile, la folla emerge e riemerge in vari periodi storici e sociali in forme differenti. Se la classe e la massa hanno caratterizzato il Novecento, nel Duemila la folla ritorna sulla scena nazionale e internazionale. Ma che cos’è la folla? In fondo, non c’è nulla di nuovo: la folla è stata ed è la moltitudine per eccellenza, una forma di raggruppamento sociale che, al di là del significato storico-politico attribuitole dal senso comune, dal sapere scientifico e dall’immaginario sociale, si colloca alla base della costituzione di tutte le altre. Corporazione, setta, casta, classe, pubblico, partito, massa, Stato, movimento sociale si configurano come dei particolari tipi di folla. La folla è contenuta in tutte le forme dello stare insieme e tutte, insieme alla folla, sono contenute nella società» (S. Curti ed E. Moroni, Introduzione, in La folla, cit., p. 11).
Il volume – che raccoglie anche una ricca appendice di testi – si inserisce all’interno di un progetto di ricerca internazionale, dedicato a “Gabriel Tarde e la foule. De la foule criminelle à l’esprit de (la) foule”, e intende riprendere e sviluppare quel dibattito italo-francese che, sul finire del XIX secolo, diede origine alla riflessione della psicologia collettiva. In effetti, le prime indagini sulla folla presero forma all’interno di quel gruppo di studiosi che, in Italia e in Francia, intendevano porre le basi di una nuova «antropologia criminale», ossia di una disciplina in grado di studiare le cause della criminalità con il supporto delle nuove scienze positive. In Italia, l’indiscusso pilastro della scuola di antropologia criminale era naturalmente Cesare Lombroso, e all’interno della cerchia raccolta attorno allo psichiatra veronese vide la luce nel 1891 La folla delinquente di Scipio Sighele, che può forse essere considerato il capitolo di avvio della stagione di ricerca sulla folla. Il lavoro di Sighele ottenne un seguito rilevante e alimentò anche un certo dibattito tra i cultori dell’antropologia criminale, interessati ai possibili utilizzi forensi delle acquisizioni della ricerca. Ma qualche anno più tardi Gustave Le Bon avrebbe dato alle stampe il suo celebre Psychologie des Foules, ottenendo un successo ben superiore, oltre che duraturo, e neppure paragonabile a quello di cui aveva beneficiato il giovane criminologo italiano. Il testo di Le Bon, destinato al grande pubblico e costruito con un’architettura senza dubbio efficace, salutava l’avvento dell’«era delle folle», e si proponeva di offrire ai nuovi aspiranti Principi i mezzi per governarle e per farne una leva di potere. L’oggetto era perciò ben più ampio dei comportamenti ‘criminali’ delle folle, cui Sighele aveva dedicato la sua analisi, ma, non senza ragioni, lo studioso italiano intravide tra i due libri dei singolari parallelismi, che lo indussero ad avviare una polemica destinata ad essere rinfocolata dalle eterne rivalità italo-francesi. Sebbene le rimostranze di Sighele non fossero del tutto immotivate (cfr. in proposito l’esame del dibattito svolto in D. Palano, Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nelle scienze sociali e nella teoria politica fra Otto e Novecento, Vita e Pensiero, Milano, 2002), in realtà molte delle ipotesi utilizzate da entrambi gli scrittori erano già presenti in lavori precedenti. E, probabilmente, un ruolo di primo piano nel delineare lo schema poi sviluppato da Sighele (e da Le Bon) fu ricoperto proprio da Gabriel Tarde, una peculiare figura di pioniere delle scienze sociali, che nell’ultimo decennio dell’Ottocento ebbe modo di pubblicare una serie di studi estremamente originali, in larga parte dimenticati dalla sociologia del Novecento, ma negli ultimi decenni riscoperti anche in Italia, come dimostrano tra l’altro la recente pubblicazione di testi come Il tipo criminale. Una critica al “delinquente nato” di Cesare Lombroso (Ombre corte, Verona, 2010), La morale sessuale (Armando, Roma, 2011), entrambi tradotti e curati da Sabina Curti, e Che cos’è la società? (Cronopio, Napoli, 2010). In effetti, Tarde si era già occupato del fenomeno della folla, seppur solo marginalmente, nelle Lois de l’imitation, che d’altronde Sighele citava esplicitamente. Ma già un decennio prima, in Che cos’è la società – un articolo poi confluito nell’opera più nota – Tarde aveva delineato l’ipotesi secondo cui tutti i rapporti sociali riproducono in fondo meccanismi imitativi, simili a quelli che si instaurano fra un ‘magnetizzatore’ e un ‘magnetizzato. Proprio questa idea, peraltro popolarizzata dal dibattito sulla suggestione e sull’utilizzo dell’ipnosi come strumento per curare l’isteria, sarebbe stata più avanti sviluppata dallo stesso Tarde per spiegare il meccanismo psicologico delle folle e delle sette criminali, oltre che da Sighele e Le Bon. E, in qualche misura, è questa idea a tenere insieme nella riflessione di Tarde l’immagine della folla metropolitana e quella della folla ribelle e assetata di sangue.
Anche i tre saggi raccolti nel volume affrontano in effetti, con un taglio diverso, i due volti della folla, non tanto per cercare una sorta di punto di fusione, quanto per chiarire la complessità delle dimensioni che intervengono nel fenomeno. Nel suo interessante La folla introvabile. Appunti per una sociologia delle folle, Vincent Rubio ricostruisce le tappe della riflessione sulla folla, ma soprattutto evidenzia come sia possibile individuare due ipotesi, l’una centrata sulla folla come mito, l’altra sulla folla come forma di associazione in senso simmeliano. In Paura della folla. Dalle interpretazioni irrazionalistiche di fine Ottocento al ritorno delle tribù, Elisa Moroni ricostruisce l’itinerario di una riflessione intricata e discontinua, riportando alla luce l’originalità del contributo di Filippo Manci, che in un lavoro del 1924 propose un’interpretazione che abbandonava l’immagine della folla come fenomeno ‘irrazionale’. Ma, secondo Moroni, la vecchia riflessione sulla folla continua a offrire elementi importanti anche per comprendere quei fenomeni di aggregazione collettiva che oggi, nella stagione di crisi dei partiti e delle grandi organizzazioni politiche, tornano ad assumere una forma simile a quella di cui gli studiosi di fine Ottocento avevano ritenuto di conoscere la volubile psicologia. Come scrive in questo senso Moroni, con qualche accento critico nei confronti dell’idea di ‘neo-tribalismo’ proposta da Michel Maffesoli: «È utile ricordare che la psicologia delle folle nasce per dare risposte ai cambiamenti radicali delle interazioni quotidiane, che nell’Ottocento richiedevano nuovi metodi di gestione e di controllo, così come oggi le mutate interazioni sociali per gli effetti della globalizzazione e dei mezzi tecnologici ineriscono la necessità di riaprire l’analisi sullo studio delle folle, sulla ricerca del fattore aggregante, sulla natura degli aggregati odierni. A tal proposito è opportuno ripartire dal dibattito italo-francese sviluppatosi a cavallo tra Ottocento e Novecento che, pur nei suoi toni aspri o nelle sue distorsioni più o meno ideologiche della figura della folla rimane di fondamentale importanza per riprendere le fila del discorso. […] Ai fenomeni di folla a cui oggi assistiamo e, anche a quelli violenti, siamo chiamati a rispondere senza elogi o biasimi all’emotività delle folle, senza equivalenze tra violenza ed emergenze di elementi arcaici e senza liquidare i fenomeni di folla descrivendoli come aggregati privi di organizzazione e di progettualità, né descrivendole come tribù temporanee che hanno il proprio fine in se stesse, come nella lettura maffesoliana» (pp. 83-84).
Nell’ultimo saggio del volume, Il sonno dogmatico. Folla, pubblico e società in Gabriel Tarde, Sabina Curti torna a esaminare il pensiero del magistrato e sociologo francese, di cui è in effetti appassionata cultrice. In particolare, Curti segue gli snodi della riflessione di Tarde sulla folla, evidenziando come, nel corso del tempo, intervengano variazioni non marginali. In particolare, l’idea secondo cui «la società è imitazione, e l’imitazione una forma di sonnambulismo», un’idea formulata da Tarde già negli anni Ottanta, consente di distinguere, per così dire, due forme di sonnambulismo: il sonnambulismo ‘verticale’ è quello che opera effettivamente nella folla, perché il meneur riesce a dirigere i comportamenti dei singoli assiepati nella folla; il sonnambulismo ‘orizzontale’ opera invece nella società, in cui non si realizza una soggezione a un unico meneur, ma si imita piuttosto – seppur inconsapevolmente – gli uni dagli altri. Il punto principale, su cui opportunamente Curti attira l’attenzione, è però la convinzione di Tarde secondo cui il sonnambulismo è uno stato in fondo non aggirabile per gli esseri umani, e secondo cui il «sonno dogmatico» è dunque una condizione normale e non un’eccezione. «L’uomo», sintetizza allora Curti, «può solo sperare o credere di cadere in un sonno migliore» (p. 106).
Se Tarde avrebbe escluso recisamente l’ipotesi che l’utopia possa in qualche modo costituire una via per sfuggire al sonno dogmatico, Curti esplora invece una possibile soluzione nelle pagine di Walter Benjamin, rilette alla luce dell’interpretazione proposta da Andrea Cavalletti in Classe (Bollati Boringhieri, Torino, 2009). In un passaggio di Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Benjamin considerava infatti incidentalmente la riflessione della psicologia collettiva e scriveva: «La massa impenetrabile e compatta, che Le Bon e altri hanno fatto oggetto della loro ‘psicologia della massa’, è quella piccolo-borghese. La piccola borghesia non è una classe; è in realtà soltanto una massa, e tanto più compatta quanto maggiore è la pressione alla quale è esposta, tra le due classi nemiche della borghesia e del proletariato. In questa massa è di fatto determinante il momento reattivo, di cui si parla nella psicologia sociale». All’opposto, la classe operaia, nella sua manifestazione, appariva a Benjamin come una sorta di ‘allentamento’ della massa, che deriva dall’espressione della solidarietà interna: «Nell’istante in cui inizia la sua lotta di liberazione, la sua apparente massa compatta si è in verità già allentata. Essa smette di essere dominata dalla semplice reazione; passa all’azione. L’allentamento della massa proletaria è l’opera della solidarietà. Nella solidarietà della lotta di classe proletaria viene soppressa la morta, dialettica contrapposizione tra individuo e massa». Nella lettura di Cavalletti, il punto nodale è dato proprio dell’idea che la solidarietà costituisca «l’atto psicologico di dissoluzione della folla» (Classe, cit., p. 135), e dalla convinzione secondo cui questo elemento «risveglia dall’incanto del prestigio» (p. 84). A loro modo – osserva Curti – Tarde e Benjamin (interpretato da Cavalletti) «offrono oggi, lungi dal riportarci alle ideologie dei tempi passati, due lenti di ingrandimento indispensabili per mettere a fuoco gli attuali fenomeni di folla e per un valido impegno nella comprensione e nelle prevenzione dei ‘bagni di folla’ proprio a partire da un’analisi al microscopio del legame sociale che li sottende» (p. 111).
L’immagine di Benjamin – come sempre avviene per gli scritti del filosofo – è ricca di sollecitazioni, ma anche di qualche insidia (su cui mi sono brevemente soffermato commentando il lavoro di Cavalletti: cfr. La classe fra Marx e Benjamin). Da una parte, senza dubbio l’ipotesi benjaminiana tende a superare tutte quelle letture ‘rozzamente’ materialistiche che riconducono la ‘classe’ ai rapporti sociali di produzione, e dunque alla ‘struttura’ della società capitalistica, e così coglie anche l’importanza di tutti quei processi ‘emotivi’ che sostengono effettivamente un’identità collettiva e che spingono gli atomi dispersi nella «immensa raccolta di merci» ad agire collettivamente. Ma, d’altro canto, quando distingue tra la ‘massa’ di estrazione piccolo-borghese e la ‘classe’ lavoratrice, e soprattutto quando sostiene che solo la classe è in grado di ‘allentare’ la massa e di conquistare un’autentica ‘coscienza’ di se stessa, tende a replicare il logoro schema del materialismo dialettico, trasferito però su un piano ‘psicologico’. In altre parole, infatti, l’«allentamento» della massa, che solo la classe lavoratrice può mettere in atto, viene a sostituire quel meccanismo storico con cui la classe operaia, nel suo cammino di emancipazione, viene a conoscere non solo se stessa, e i propri ‘reali’ bisogni, ma anche le leggi del divenire storico e di funzionamento della società. Con la conseguenza che il risveglio dal ‘sonno dogmatico’ viene a configurarsi come una sorta di ‘svelamento’ della realtà sociale, dinanzi agli occhi di individui finalmente liberi dalla coltre ideologica del sonnambulismo. Che una simile immagine non sia destinata a perdere il proprio fascino è piuttosto prevedibile, ma è anche piuttosto scontato che, per ammettere davvero uno schema di questo tipo, sarebbe necessario riconoscere non tanto l’esistenza di una realtà sociale ‘oggettiva’, quanto la possibilità per gli esseri umani di conoscerla ‘oggettivamente’, e dunque senza la mediazione di ideologie, valori, condizionamenti culturali. Se invece non si vuole definitivamente cancellare con un tratto di penna tutte le critiche condotte in più di un trentennio contro le pretese di un positivismo dogmatico, forse vale la pena di riconoscere che davvero – come sosteneva il vecchio Tarde – la condizione umana è inevitabilmente una condizione di ‘sonnambulismo’, e che forse non esiste alcuna differenza ‘strutturale’ fra i fenomeni di identificazione collettiva, anche se naturalmente possono esistere differenze notevoli nella collocazione ‘materiale’ degli individui nella società. In altre parole, la ‘coscienza’ collettiva che possiamo conquistare può essere forse una coscienza ‘politica’, ossia la consapevolezza di far parte di un aggregato collettivo, dotato magari di una forza materiale di interdizione e conflitto, oppure anche di un progetto specifico. Questa ‘coscienza’ non può però coincidere con la ‘scoperta’ della realtà, o con il risveglio da un sonno dogmatico, che ci consente finalmente di riconoscere il mondo per quello che davvero è. Nel migliore dei casi, esprimerà sempre una specifica visione del mondo, il frutto di una prospettiva ‘parziale’, sebbene per questo non meno valida politicamente. In fondo, non la tesi di Tarde non andava in una direzione troppo diversa, perché siamo da questo punto di vista davvero condannati a essere sonnambuli, a passare cioè da una condizione di sonnambulismo a un’altra, e da un magnetizzatore a un altro. Come scrisse Tarde nelle Leggi dell’imitazione: «lo stato sociale, come lo stato ipnotico, non è che una forma del sogno, un sogno su comando e un sogno in azione. Non avere che idee suggerite e crederle spontanee: tale è l’illusione propria del sonnambulo, così come dell’uomo sociale».
Damiano Palano
Vedi anche
Gabriel Tarde e la società dei sonnambuli
La classe fra Marx e Benjamin