Una versione parzialmente diversa di questo testo è apparsa sulla rivista "Formiche", nel numero 53 del novembre 2010.
di Damiano Palano
Era la primavera del 1973 e l’Italia veniva ancora percorsa dall’ondata di mobilitazione collettiva iniziata qualche anno prima. Proprio in quei mesi, i muri delle città italiane furono tappezzati dai manifesti di una piccola azienda piemontese di jeans, nata da poco, ma decisa a conquistare una fetta rilevante del mercato nazionale. Per farsi largo in un settore fino a quel momento dominato da operatori stranieri, la prima azienda italiana a entrare nella produzione di jeans aveva scelto un nome evocativo: “Jesus”. Una scelta ovviamente provocatoria, che – più che all’iconografia classica – rimandava all’icona pop di Jesus Christ superstar, il musical che aveva mietuto successi oltreoceano. Quella scelta si inseriva d’altronde all’interno di un’aggressiva campagna pubblicitaria, che corredava una serie di immagini dall’evidente richiamo sessuale con frasi di ascendenza evangelica (come, soprattutto, “Chi mi ama mi segua”). Lo slogan della “Jesus»”, non mancò di attirare l’attenzione di Pier Paolo Pasolini, che, proprio a partire da quel momento, iniziò una riflessione in pubblico sulla “mutazione antropologica” degli italiani, destinata a segnare gli ultimi anni di vita dello scrittore friulano.
Per Pasolini, lo slogan faceva trapelare molto più che un’abile strategia di promozione commerciale. Dietro quello slogan, si nascondeva infatti la realtà di un’epocale trasformazione dei valori. «Il suo spirito», scriveva per esempio, «è il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori». Dopo quell’intervento, Pasolini prese a esplorare quasi ossessivamente la “mutazione antropologica”: una mutazione che nel breve arco di un decennio aveva alterato i tratti della popolazione italiana, omologando “alto” e “basso”, nord e sud, destra e sinistra, e costruendo un nuovo tipo umano, contrassegnato dal tratto comune di un irrefrenabile “edonismo di massa”.
Dal 1973, quel radicale processo di trasformazione, di cui parlava Pasolini, sembra giungere sino all’Italia di oggi, al trionfo dell’edonismo di massa, al disprezzo esibito per la cultura, a un’omologazione all’insegna della trivialità, del cattivo gusto, dell’ignoranza. E, soprattutto, sembra portare direttamente a quella che Massimiliano Panarari definisce la marea montante dell’“egemonia sottoculturale”. Perché, a ben vedere, nella campagna della “Jesus” non è difficile rintracciare, seppur solo a uno stadio germinale, l’anticipazione dello spirito che contrassegna i nuovi intellettuali organici dell’Italia sottoculturale. Ma, soprattutto, perché l’Italia di oggi ci appare davvero omologata e segnata nelle sue più profonde strutture antropologiche – non solo sugli schermi televisivi, ma anche nelle strade di metropoli e cittadine di provincia, nelle case del nord e del sud, nelle famiglie degli imprenditori come in quelle operaie, nei più oscuri recessi della società come sui più elevati scranni istituzionali – dall’etica del tronista, dalla filosofia del demi-monde, dall’estetica del boudoir.
Ma, forse, proprio perché la vecchia profezia di Pasolini risulta ancora oggi tanto convincente, è necessario guardarla con un minimo di sospetto. Se non altro, perché la tesi della “mutazione antropologica” si basava sull’immagine molto elitaria della cultura, cui si contrapponeva la sagoma di un popolo evidentemente mitizzato. Anche per questo, dovremmo probabilmente cercare di scavare un po’ di più sotto le basi dell’“egemonia sottoculturale”. Se lo facessimo, forse scopriremmo che non tutto è stato travolto. Ma, soprattutto, scopriremmo che la vittoria dell’egemonia sottoculturale affonda le radici in un clima più generale. Un clima che coinvolge l’intero occidente e che deve essere considerato non soltanto come un effetto della rivoluzione neo-liberale avviata negli anni Ottanta, ma piuttosto come la conseguenza di una trasformazione che ha segnato, insieme alla fine della Guerra fredda, l’esaurimento delle grandi tradizioni progressiste del Novecento.
Nel 1989 – e forse un decennio prima – non è finita la storia, ma si sono progressivamente esaurite tutte quelle grandi narrazioni occidentali che avevano proiettato nel futuro un progetto da realizzare. E proprio per questo, oggi non sappiamo pensare il futuro se non nei termini di una difficile preservazione del presente. È proprio nella caduta dell’immaginario di cui si sono nutrite tutte le ideologie novecentesche che si possono trovare le radici dell’“egemonia sottoculturale” globale. Venuta meno la tensione richiesta dallo scontro bipolare, dinanzi a questo vuoto, sono semplicemente emersi gli eterni spiriti animali dell’essere umano.
In tutta questa dinamica, l’Italia non ha seguito una traiettoria differente dal resto dell’occidente, che d’altronde non è risultato immune dalle derive più deleterie dell’“egemonia sottoculturale”. Anche se, senza dubbio, l’Italia ha mostrato ben più di un carattere specifico. Il più eclatante dei quali, probabilmente, non è costituito tanto dal ruolo politico di un oligopolista del mercato televisivo, quanto dalla scomparsa – si potrebbe dire dall’atrofia progressiva – del mondo intellettuale. Un mondo che aveva giocato un ruolo significativo nei primi tre decenni della storia repubblicana, ma che, a partire dagli anni Ottanta, non è stato in grado di uscire realmente dal circolo vizioso della “fine della storia”. Così, mentre la contrapposizione del bipolarismo polarizzato della Seconda Repubblica riusciva a logorare, ogni sentimento di appartenenza a una comunità, gli intellettuali si limitavano ad imboccare due strade opposte, ma egualmente inconcludenti. Per un verso, venivano risucchiati dalla logica nichilista della contrapposizione fra i due blocchi politici, e contribuivano dunque ad alimentare l’immagine di una grottesca guerra civile simulata fra due Italie irresolubilmente opposte l’una all’altra. Per l’altro, si rifugiavano in una raffinata nostalgia per il buon gusto dei tempi andati, per i fotogrammi in bianco e nero di un’Italia immaginaria e perduta. Rinunciando così – in entrambi i casi – non solo a capire cosa fosse davvero successo in Italia, ma soprattutto a costruire nuove rappresentazioni collettive, in grado di restituirci almeno un po’ di fiducia nel futuro. E consegnando le armi e il terreno stesso del confronto agli alfieri dell’“egemonia sottoculturale”.
Solo la (difficile) costruzione di un nuovo immaginario e di una visione politica, potrebbe relativizzare – ma non certo invertire – la deriva triviale dell’Italia contemporanea. E lo stesso Panarari non indica d’altronde una direzione molto diversa, nel momento in cui invoca l’avvento di intellettuali onesti, «che sappiano fare in maniera capace e creativa il loro lavoro di inventori di architetture simboliche alternative a quelle vittoriose e tracotanti dell’egemonia sottoculturale». Forse, però, su un punto è bene togliersi ogni illusione. Per quanto abili e lungimiranti, questi nuovi creatori di narrazioni alternative non potranno fare tabula rasa della “mutazione antropologica”, dell’assuefazione al cattivo gusto cui abbiamo assistito in questi anni. Potranno forse far uscire l’Italia dal circolo vizioso della deleteria alternativa fra il risentimento e il rimpianto. Ma – si badi bene – un compito simile non richiede un mese o un anno, ma processi ben più lunghi e complessi. E, soprattutto, le narrazioni collettive, le identità condivise, le visioni politiche hanno poco a che vedere con le storie con cui gli spin doctor possono confezionare campagne più o meno efficaci. Non forniscono armi per il Blitzkrieg di una contesa elettorale, semplicemente perché si collocano su un terreno diverso. D’altronde – se proprio vogliamo scomodare Gramsci – l’egemonia non nasceva, secondo il pensatore dei Quaderni, da una lunga, estenuante, capillare, “guerra di posizione”?
Damiano Palano