Fino a qualche tempo fa il nome di Martin Wight (1913-1972) era quasi sconosciuto anche agli specialisti che si occupano di politica internazionale. Negli ultimi due decenni la riflessione di questo singolare studioso è entrata invece con forza nel dibattito politologico, e oggi Wight viene considerato come il pilastro della cosiddetta Scuola Inglese di Relazioni Internazionali.
Allievo di Herbert Butterfield a Oxford e largamente influenzato da Arnold J. Toynbee, Wight fu principalmente uno storico, peraltro spesso guardato con sospetto per le sue convinzioni religiose e per una prospettiva cristiana che si riflette chiaramente nei suoi lavori. Durante la sua carriera accademica, Wight tenne inoltre un profilo estremamente riservato, quasi schivo. E, per un perfezionismo quasi maniacale, si rifiutò persino di pubblicare i suoi corsi, che, apparsi postumi, sono oggi diventati autentici classici. La sua tardiva fortuna si spiega forse anche per questi motivi. Negli anni Cinquanta e Sessanta, le scienze sociali – e le stesse Relazioni Internazionali – erano d’altronde dominate dai canoni metodologici della ‘rivoluzione comportamentista’ e dall’idea che la politica potesse essere studiata con il metodo delle ‘scienze naturali’. Così, uno studioso come Wight – profondo e raffinato conoscitore della storia, del pensiero politico, del diritto internazionale – doveva apparire solo come un nostalgico della ‘preistoria’ degli studi politici. Ma, quando le ambizioni del positivismo più rozzo hanno lasciato il posto alla riscoperta della complessità della politica, era inevitabile che si tornasse agli insegnamenti di Wight.
A distanza di quarant’anni dalla morte, esce in Italia l’edizione, curata da Michele Chiaruzzi, di Teoria internazionale. Le tre tradizioni (Casa Editrice Il Ponte, pp. 493, euro 23.00), una delle opere principali di Wight. In questo testo – che riprende le lezioni tenute alla London School of Economics negli anni Cinquanta – Wight espone la tesi secondo cui, nella storia occidentale, ricorrono tre modi diversi di guardare alla politica internazionale. Innanzitutto, la visione realista (o machiavelliana), che tende a ragionare in termini di forza e che raffigura la dimensione internazionale come dominata da un’anarchia ineliminabile. In secondo luogo, la visione razionalista (o groziana), che ritiene che, accanto al conflitto, sia possibile anche la cooperazione. Infine, la visione rivoluzionista (kantiana), secondo cui esiste, almeno potenzialmente, una comunità superiore agli Stati e per cui, dunque, il sistema interstatale deve essere superato.
Anche se ognuna di queste tradizioni ha vissuto alterne fortune, i tre modi di vedere la politica internazionale sono sempre presenti, tanto che la teoria di Wight può essere considerata come una teoria ‘dialogica’, in cui – come nei classici dialoghi della filosofia greca – le differenti concezioni si confrontano costantemente l’una con l’altra. Uno dei meriti di Wight consiste però nell’aver rotto la dicotomia di realismo e idealismo e nell’aver recuperato l’importanza della tradizione razionalista: una tradizione le cui radici vanno ritrovate nell’antica Grecia, ma che venne rafforzata dalla dottrina cristiana del diritto naturale e da Tommaso d’Aquino, oltre che, in seguito, da Vitoria e Suarez. Proprio la visione razionalista consente infatti di trovare una mediazione fra opzioni opposte, che tendono a condurre al medesimo risultato della guerra.
Probabilmente la posizione personale di Wight si identificava con il razionalismo. D’altro canto, lo studioso britannico iniziò a interrogarsi sulle dimensioni della politica internazionale dopo un trauma che sconvolse profondamente le sue convinzioni giovanili. Sulla base delle sue posizioni cristiane, Wight aveva infatti adottato, negli anni della formazione, un pacifismo radicale che lo spinse anche all’obiezione di coscienza al servizio militare. La Seconda guerra mondiale mise in crisi il suo pacifismo, ma non indusse Wight a rinunciare alla dimensione morale nello studio della politica internazionale. E proprio per questo, nel corso della sua ricerca successiva, Wight non cessò mai di cercare una strada intermedia fra la tragica necessità del realismo e l’ambizione a un ordine da cui sia bandita la violenza.
Damiano Palano
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