di Damiano Palano
Le ceneri del Cyberpunk
Nella storia della fantascienza si affiancano a lungo due grandi filoni, che, pur intrecciandosi, accostano il futuro da prospettive sostanzialmente differenti. Nel primo – il cui esempio paradigmatico rimane probabilmente la Guerra dei Mondi di H.G. Wells – lo scenario è offerto dal mondo contemporaneo, in cui un evento dirompente come un’invasione aliena sconvolge radicalmente tutto ciò che, fino a quel momento, è stato considerato normale e inattaccabile. Nel secondo filone, le cui prime anticipazioni possono essere rinvenute in alcuni viaggi di Jules Verne, la fantasia degli scrittori si proietta invece nel futuro per meravigliare, per immaginare un mondo trasformato da invenzioni strabilianti, per raccontare la conquista della Luna o di Marte, o persino per costruire la nuova epica dei pionieri dello spazio profondo, in lotta contro civiltà extraterrestri. È per molti versi in questa seconda tradizione che si collocano, fra gli anni Venti e Trenta del Novecento, le grandi ‘distopie’ del XX secolo, anche se, in questo caso, l’attenzione non è rivolta tanto – o soltanto – alla tecnologia e alle potenzialità delle nuove invenzioni scientifiche, quanto ai loro utilizzi politici, invariabilmente rappresentati in termini negativi. Senza eccezioni, le grandi ‘distopie’ novecentesche – dalla Macchina del tempo dello stesso Wells, a Il tallone di ferro di Jack London, ai classici Noi di Evgenij Zamjatin, Il Mondo nuovo di Aldous Huxley, 1984 di George Orwell, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury – ritraggono i contorni di un regime dispotico, totalitario, capace di garantire il dominio di un’esigua minoranza su un’enorme massa di diseredati. Ad accomunare testi tanto diversi, è soprattutto l’idea di una connessione quasi strutturale, originaria, fra il potere assoluto del regime e il suo profilo tecnologico. In altre parole, in tutte le grandi distopie dei primi decenni del Novecento, la tecnologia costituisce uno strumento saldamente in mano al potere, che lo utilizza per organizzare la vita dell’intera società, per assicurare una disciplina ferrea e per impedire ogni più piccolo tentativo di sovversione da parte di sudditi ridotti ad automi privi di qualsiasi spirito critico. In questo senso, la fusione di ‘potere’ e ‘tecnologia’ non solo è totale e senza alternative, ma disegna anche un futuro cupo, in cui i margini di libertà sono destinati a restringersi.
Anche in Italia l’immaginario cyberpunk trova ben presto cultori appassionati proprio in alcuni eredi delle esperienze contro-culturali, che vedono nelle prime Bbs un veicolo per una comunicazione orizzontale e per forme di informazione capaci di squarciare la coltre ideologica dell’«industria culturale». Una rivista come «Decoder» e la casa editrice Shake divetnano rapidamente le principali portabandiera di un movimento non soltanto letterario ma anche politico, che, senza dubbio, interpreta alcune delle inquietudini e delle utopie di una fase in cui l’informatica si avvia a diventare un fenomeno di massa. In modo piuttosto emblematico, il nuovo immaginario cyberpunk si trova fissato nelle pagine di Nell’anno della Signora, un romanzo di Carlo Formenti ambientato, per gran parte, nella Milano della fine del XXVIII secolo dopo Cristo (Nell’anno della Signora, Shake, Milano, 1998). Per molti versi, in quel romanzo Formenti, in sostanziale coerenza con lo spirito del cyberpunk, rovescia il nesso fra tecnologia e potere che alimentava le grandi distopie degli anni Venti e Trenta, perché il regime dispotico che immagina si basava sulla distruzione della tecnologia e sulla repressione di qualsiasi tentativo di ripristinare le conoscenze e i manufatti del passato. Formenti cala dunque la propria storia in un nuovo Medioevo, innescato nel 2025 da una catastrofica epidemia, cui segue l’edificazione di una società oscurantista. Nella trama allestita da Formenti, infatti, una setta di fedeli adora il corpo di una donna ibernata, che però, una volta risvegliata da un gruppo di ribelli, consegna proprio a questi ultimi la chiave di accesso ai segreti della tecnica del XXI secolo. In realtà, quasi nessuno di quei misteri può essere compreso dai ribelli del 2800, ma le «armi degli antichi» - in piena fedeltà all’impostazione cyberpunk – servono comunque per sferrare un attacco letale alle truppe del regime ‘tecnofobo’.
Cronologia di un’autocritica
Sebbene Formenti tenda a sottolineare energicamente gli elementi della propria auto-critica, chiunque conosca le sue indagini sulle trasformazioni tecnologiche deve in fondo riconoscere come i contenuti della ‘revisione’ non siano poi tanto marcati da autorizzare l’idea di una vera e propria inversione teorica. A dispetto dei tre decenni trascorsi dai primi lavori di Formenti, è infatti possibile rinvenire nel suo percorso non solo un interesse costante per il nesso fra trasformazioni tecnologiche, conflitti sociali e immaginari collettivi, ma anche la continuità di una serie di problematiche di fondo che orientano la ricerca, cui vengono fornite risposte almeno parzialmente diverse nelle varie stagioni.
La tappa di avvio della riflessione di Formenti è costituita da un confronto critico – seppure non ostile – con la tradizione teorica dell’operaismo, e in particolare con quel filone ‘post-operaista’ che, a partire dalla metà degli anni Settanta, inizia a considerare la crisi economica e la ristrutturazione delle grandi fabbriche come il segnale di un radicale cambio di stagione, destinato a sancire il passaggio del testimone da un vecchio a un nuovo soggetto conflittuale: secondo la variante più schematica (ma più popolare) di questa ipotesi, il vecchio ‘operaio massa’, prodotto del ciclo fordista, avrebbe lasciato il posto a un nuovo ‘soggetto centrale’, un ‘operaio sociale’, scaturito invece dalla crescente ‘socializzazione’ della produzione, ossia dall’estensione dei reticoli produttivi al di fuori dei tradizionali luoghi di lavoro. Naturalmente, quell’ipotesi conobbe, pur nel corso di un periodo di tempo limitato, una serie di declinazioni piuttosto ampie, e l’eco di quello schema teorico può essere forse rinvenuto oggi nelle pagine di opere come Empire, Multitude e Commonwealth, oltre che nel successo planetario delle ipotesi di Michael Hardt e Antonio Negri. Negli anni Settanta, quell’ipotesi presuppone però un corollario importante, che talvolta si presta anche a essere dilatato in termini spiccatamente ‘deterministici’. In sostanza, secondo un’idea elaborata da Sergio Bologna a proposito del passaggio dall’‘operaio professionale’ all’‘operaio massa’, nella Germania dei primi decenni del Novecento, si tendeva a distinguere fra una ‘composizione tecnica’ della forza lavoro e una ‘composizione politica’ della classe operaia, ma questa distinzione non si riteneva fosse valida solo dal punto di vista analitico: in una sorta di rinnovata teoria ‘stadiologica’, la ‘composizione politica’ si prestava a essere letta come una conseguenza – più o meno determinata, seppur non ‘automatica’ – di uno specifico assetto della ‘composizione tecnica’. Naturalmente, neppure Bologna – che pure aveva contribuito sia a formulare la distinzione, sia a coniare l’efficace formula ‘operaio massa’ – sposò mai una simile visione ‘stadiologica’, e d’altronde si può dire che il lavoro condotto negli anni Settanta dalla rivista «Primo maggio» fosse diretto proprio a un ripensamento critico di quel determinismo, oltre che a una ‘relativizzazione’ della stessa centralità dell’‘operaio massa’. Nelle riflessioni più schematiche, venate spesso da una visibile ‘ansia politica’ di giungere alla sintesi di una realtà magmatica e frammentata, il passaggio dalla composizione tecnica a quella politica veniva inteso invece come una sorta di percorso obbligato: così, come la grande fabbrica fordista, negli Stati Uniti, in Germania, in Italia, aveva prodotto l’‘operaio massa’, così la terziarizzazione, la ristrutturazione e la fabbrica diffusa avrebbero innescato la genesi del nuovo ‘soggetto centrale’, capace di generalizzare i conflitti, più ancora di quanto non avessero fatto gli ‘operai produttivi’ di Mirafiori.
Per Formenti, alla fine degli anni Settanta, questa ipotesi non costituisce solo un bersaglio politico-teorico da colpire, ma è piuttosto un’ipotesi da discutere e criticare con estrema attenzione, considerando la realtà della trasformazione economico-sociale in atto. In un fascicolo della rivista «aut aut» dedicato nel 1979 al celebre Lavoro e capitale monopolistico di Harry Braverman, Formenti esamina per esempio la classica dicotomia marxiana di ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’ per mostrare come le trasformazioni del tardo-capitalismo la rendano sempre più inutilizzabile, sia sotto il profilo analitico, sia sotto il profilo politico. Mentre Marx considerava le funzioni produttive e quelle improduttive come momenti di cicli distinti, le trasformazioni successive – argomenta Formenti – hanno in realtà determinato un «intreccio inestricabile delle funzioni, sia al livello dei vari settori che della singola impresa» (C. Formenti, Modo di produzione e struttura di classe, in «aut aut», n. 172, 1979, p. 57). Pertanto, dinanzi alla realtà di una «forza lavoro socialmente combinata», ha poco senso continuare a chiedersi dove finisca il lavoro strettamente ‘produttivo’ e dove incominci quello ‘improduttivo’. E, anzi, come osserva, è possibile riconoscere in molti dei nuovi lavori un riflesso dell’estensione del processo di valorizzazione fin dentro l’area della circolazione: «È possibile dimostrare che i processi lavorativi che sono nati dalla oggettivazione di nuove funzioni del capitale, come il marketing, la pubblicità, la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, la produzione di modelli gestionali per l’impresa e più in generale di tutto il software e la modellistica utilizzati dagli staff della moderna impresa multi divisionale, sono in una stretta relazione di isomorfismo con le attività cui si riferisce Marx parlando di prolungamento del processo di valorizzazione nel processo di circolazione del capitale» (ibi, p. 59). Benché il riferimento a Marx possa infastidire qualche lettore contemporaneo, e possa oggi essere considerato come un retaggio della furia ideologica degli anni Settanta, è difficile negare come a Formenti – anche poggiando sulle pagine dei Grundrisse – siano già chiare in questa fase le tendenze in atto, prima ancora che inizi la stagione aurea del Personal Computer, e tantomeno che prenda avvio la rivoluzione di Internet. Ma – rilette trentatré anni dopo – non può non apparire addirittura sorprendente la lucidità con cui Formenti coglie le conseguenze innescate dall’introduzione dell’informatica nel processo produttivo e, in particolare, nella pubblica amministrazione, con la finalità di un avvicinamento fra i bisogni dei cittadini e il livello di governo. «Per mettere in opera questa contabilità dei bisogni sociali», scrive infatti Formenti, «si propone anche qui il modello partecipativo dell’informatica distribuita: uno scambio di informazioni fra sistemi informativi decentrati ed una utenza ‘intelligente’ ed attiva, che contratta con l’amministrazione i propri bisogni e gli indicatori di produttività dei servizi che dovrebbero soddisfarli. Ma cos’è tutto questo se non una nuova forma di scambio fra capitale e lavoro; offrendo informazione, il potere offre in realtà codici di comportamento che si affiancano alle merci salario e ai servizi sociali come mezzi di definizione e di misura dei bisogni sociali; chiedendo informazione, il potere si appropria del sapere sociale diffuso sul territorio così come si appropria della forza produttiva del lavoro sociale in fabbrica. Il fatto che oggetto dell’appropriazione sia qui il sapere sociale contenuto nel lavoro riproduttivo, segna un salto qualitativo di portata immensa del modo di produzione capitalistico; l’estensione del controllo informatizzato dalla fabbrica a tutto il corpo sociale, coincide col tentativo capitalistico di organizzare direttamente l’intera giornata lavorativa sociale in funzione del processo di valorizzazione» (ibi, pp. 66-67). A dispetto di un lessico che, almeno in questi termini, appare lontano da quello dei libri più recenti di Formenti, c’è già qui – ed è quasi sbalorditivo – un’ipotesi di lettura che torna anche oggi, e che d’altronde si presta con particolare efficacia a interpretare persino fenomeni recentissimi come l’utilizzo per fini commerciali dei social network, il ‘lavoro gratuito’ di blogger e navigatori della rete, o la stessa ‘appropriazione’ del sapere prodotto dalla sperimentazione dei software.
Benché l’analisi di Formenti non risulti divergente, almeno sotto questo profilo, rispetto all’analisi del post-operaismo (e, per esempio, rispetto alle ipotesi sviluppate da Christian Marazzi), dal punto di vista delle conseguenze ‘politiche’ il discorso imbocca invece una direzione diversa. Nella Fine del valore d’uso, infatti, Formenti mette in luce l’ambiguità dell’operazione compiuta dal post-operaismo (e in particolare da un’opera come Marx oltre Marx, dello stesso Negri), che, per un verso, critica la vecchia distinzione fra ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, mentre, dall’altro, recupera proprio la centralità politica di un lavoro produttivo i cui confini vengono dilatati fino all’intero spettro sociale, senza prendere atto della dissoluzione del concetto stesso di ‘lavoro produttivo’: «è qui che scatta l’ipostasi del soggetto rivoluzionario, è qui, soprattutto, che Negri – con lui tutta l’ideologia tardo-operaista – non riesce ad andare veramente ‘oltre Marx’, e a Marx ritorna, assumendo ancora e nuovamente il processo di costituzione del soggetto rivoluzionario come prodotto della missione civilizzatrice del capitale, del più elevato livello di sviluppo delle forze produttive» (C. Formenti, La fine del valore. Riproduzione, informazione, controllo, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 56). E la conseguenza, in termini politici, non può che essere una reintroduzione, in forma solo parzialmente mutata, della subordinazione dei diversi momenti soggettivi a una funzione di avanguardia determinata dal carattere ‘produttivo’ del lavoro, perché, «se ‘oltre Marx’ si cerca e si trova solo Marx, dev’essere liquidata ogni apertura ai discorsi che si occupano della pluralità concreta dei soggetti antagonistici» (ibidem). In altre parole, sebbene Formenti concordi con la lettura post-operaista della ‘sussunzione’ della circolazione dentro un circuito produttivo sempre più esteso a livello sociale, ritiene che una risposta politica non possa che prendere commiato definitivamente da ogni ipotesi di ‘nuova’ centralità, su cui innestare un ruolo di direzione della trasformazione. All’opposto, si tratta – ai suoi occhi – di riconoscere l’irriducibile parzialità delle posizioni soggettive, e dunque della pluralità dei punti di emergenza delle parzialità.
Forse, nel passaggio fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, le implicazioni di questa operazione teorica non sono ancora interamente chiare a Formenti, o, quantomeno, non assumono ancora il rilievo che presentano due testi successivi, come Immagini del vuoto e, soprattutto, Prometeo e Hermes, in cui si rivela interamente l’opzione di un definitivo abbandono di ogni prospettiva escatologica. Nel clima plumbeo degli anni Ottanta, Formenti, metabolizzando il ripiegamento del dibattito intellettuale, ma anche registrando i nuovi accenti del movimento ecologista, non rinuncia a ragionare sulle trasformazioni del capitalismo. In questo caso, però, la riflessione si sposta decisamente sulla critica indirizzata a ogni fascinazione del conflitto, e dunque sul tentativo di pensare l’affermazione del conflitto in termini che rifiutino ogni opzione di contrapposizione: «bisogna sfuggire alla fascinazione dell’antagonismo» - scrive per esempio, anticipando peraltro un tema simile a quello che, di lì a poco, Paolo Virno avrebbe sviluppato ricorrendo all’immagine classica dell’‘esodo’ – «impedire che i recinti del partito e dell’esercito racchiudano le dinamiche del movimento, spingendole inesorabilmente verso lo stato finale dell’istituzione sacrificale» (C. Formenti, Prometeo e Hermes, Liguori, Napoli, p. 133). Il riferimento esplicito è – ovviamente – al tragico epilogo italiano degli anni Settanta, perché, nonostante Formenti riconosca il valore delle intuizioni di quel periodo (e, in particolare, le intuizioni proprio del post-operaismo), non ne nasconde tutti i limiti sul piano dell’immaginazione. «Serviva un’enorme immaginazione sociale per continuare a leggere la trama di queste traiettorie sotto la superficie della comunicazione omologata, per riconoscere l’autonomia dei soggetti e la loro capacità di parassitare i processi di mercificazione, smaterializzazione e informatizzazione messi in atto dalla ristrutturazione capitalistica. Servivano una grande immaginazione e una grande umiltà politiche per rispondere alla domanda che veniva dai nuovi soggetti: tradurre l’autonomia sociale in forme conflittuali alternative all’opposizione amico-nemico, conservare ed ampliare la nuova complessità del conflitto sociale, evitandone la neutralizzazione da parte dei meccanismi di guerra» (ibi, p. 140). La realtà era però andata in una direzione diversa, la logica della dialettica, dell’antagonismo, della contrapposizione bipolare, aveva avuto la meglio, dissipando un patrimonio di intuizioni e lasciando senza risposta la domanda sulla forma in cui pensare la politica dei nuovi movimenti. La figura di Hermes, contrapposta a quella di Prometeo, disarmata dinanzi a un progresso tecnico fondato sulla macchina e (ancor più) sul codice, diviene così il simbolo di «un sapere furtivo e astuto, pronto ad arraffare le occasioni di un mondo in cui crescono disordine e casualità»: «Sapere di un soggetto che non pretende più di conoscere né di dominare la realtà, che non si definisce in opposizione a un’oggettualità inanimata e inerte. Identità che si pone come scarto, piccola differenza che abita le pieghe di una complessità indeterminata; sapere del locale, dell’aleatorio, del discontinuo, sempre in bilico sull’abisso del senza-senso, ma proprio per questo capace di generare nuovi universi di senso, di convertire il disordine in ordine, l’improbabile in probabile, sfruttando piccole crepe nell’uniformità del vuoto» (ibi, p. 159).
Prometeo e Hermes e Immagini del vuoto rappresentano per molti versi una tappa intermedia nel percorso di Formenti, perché, per un verso, si richiamano (anche criticamente) alla precedente riflessione sul ruolo delle tecnologie e dell’informatica nella trasformazione capitalistica, mentre, per un altro, tendono a imboccare una nuova direzione, proiettandosi prevalentemente verso l’immaginario e le forme culturali della transizione in atto. Nel successivo Piccole apocalissi. Tracce della divinità nell’ateismo contemporaneo (Cortina, Milano, 1991), la polemica contro il post-operaismo si diluisce in un discorso più complesso, il cui oggetto principale è invece l’immaginario delle tecno-scienze. In dissenso con le componenti del movimento ecologista più critiche nei confronti delle nuove tecnologie, Formenti esamina piuttosto, in parallelo, il pensiero ecologista e l’immaginario delle tecno-scienze, per portarne alla luce gli elementi comuni. Ancora una volta, Formenti ritorna a Hermes, e – con una scelta che assegna alla metafora il potere dell’evocazione, se non quello dell’esplicitazione – proprio nella figura del messaggero mitologico scorge il terreno per una congiunzione fra i nuovi movimenti e le potenzialità della tecnica: «L’angelo eterno ed ubiquo è un essere invisibile, minuscolo, privo di ogni potere di influire sul libero gioco della materia e del caso. Eppure la sua potenza è smisurata, perché egli è colui che custodisce il passato e che coltiva il futuro, è colui che anticipa le miracolose epifanie del virtuale, che sa, un attimo prima che ciò si realizzi, che una possibilità sta per trasformarsi in atto. Un tempo l’angelo aveva un nome: i greci lo chiamavano Hermes. Oggi noi non sappiamo più come chiamarlo. Ma forse è meglio così: colui che è senza nome e senza volto può assumere tutti i volti e tutti i nomi della divinità. È questo è l’aspetto più adeguato per un angelo che debba convivere con la modernità. L’angelo ha indossato la maschera del viaggiatore, di un’entità vaga e inafferrabile, che quasi scompare per risolversi nel suo eterno movimento. Così travestito, ambiguo e proteiforme, egli attraversa il nostro tempo continuando a osservare e ad aspettare. L’angelo aspetta che si realizzi il miracolo più grande: aspetta che gli uomini – o le forme di vita che prenderanno il loro posto – riescano nuovamente ad avvertire il soffio impalpabile della sua presenza, e che tornino a trovare nomi e immagini per la divinità che non cessa di chiamarli da un futuro imprecisato» (ibi, pp. 192-193).
L’interesse per l’immaginario tecno-scientifico, per le forme di religiosità e lo gnosticismo, accompagna Formenti anche nelle sue esplorazioni nel territorio della science fiction, ma, per molti versi, viene sensibilmente ridimensionato nella successiva stagione di ricerca, che si apre proprio sulla soglia del XXI secolo e che risulta concentrata – in modo più esplicito che in passato – proprio sugli immaginari delle nuove tecnologie. Con Incantati dalla rete, il primo tassello della sua importante trilogia, Formenti si confronta infatti proprio con gli immaginari della rete: sia con gli entusiasmi che celebrano Internet come il territorio in cui è possibile trovare un nuovo continente di libertà e uguaglianza, sia con le visioni che invece demonizzano la rivoluzione tecnologica come un semplice strumento di estensione del dominio. In questa nuova prospettiva, l’ipotesi di alleanza formulata in Piccole apocalissi risulta un’approssimazione ancora insufficiente, ma Formenti non la abbandona totalmente. Perché, in effetti, ritiene che effettivamente Internet abbia addirittura dilatato «il potenziale escatologico (e di riflesso il ruolo apocalittico) che le nuove tecnologie svolgono nell’immaginario collettivo della tarda modernità» (C. Formenti, Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet, Cortina, Milano, 2000, p. 14). L’ambiguità che Formenti ritrova nell’immaginario della rivoluzione digitale ha anche un risvolto politico, nel senso che l’ambiguità costitutiva delle tecno-scienze, così come l’ambiguità delle potenzialità offerte dalla new economy, sembra indicare il terreno per una sorta di alleanza, o quantomeno di un utilizzo delle nuove tecnologie da parte dei soggetti che ne sono investiti direttamente. Per esempio, i lavoratori della conoscenza, come scrive Formenti, «possono associare nuovi modelli produttivi fondati sulla comunicazione al rischio di subire processi di ‘proletarizzazione’ e, al tempo stesso, a un’effettiva chance di allargamento dei propri margini di creatività e autonomia», mentre «la transizione al postfordismo […] è interpretabile tanto in termini di ristrutturazione selvaggia quanto in termini di ‘liberismo’ dal basso, di lotta per emancipare il lavoro dalla disciplina di fabbrica» (ibi, p. 15). L’ambiguità appare allora a Formenti non come un ostacolo da superare, bensì come una condizione in cui si determinano una serie di possibilità contraddittorie. Sviluppando in modo coerente il percorso imboccato negli anni Settanta, riconosce dunque le nuove tecnologie come il terreno in cui maturano – o possono maturare – relazioni conflittuali, ma rifiuta sia uno schema interpretativo pessimista, sia uno schema determinista. In altre parole, come gli scrittori cyberpunk, individua nella trasformazione della vita e dell’immaginario prodotta da Internet potenzialità ambivalenti, oltre che persino l’ipotesi di una sorta di riappropriazione della tecnologia ‘dal basso’. E, su queste basi, formula la tesi con cui forse si avvicina di più al versante degli ‘ottimisti’, che diventeranno poi un bersaglio polemico dei successivi lavori di Formenti. A proposito della ‘sussunzione’ di ogni differenza nel processo produttivo, scrive per esempio: «ciò significa che anche le differenze entrano in rete con tutto il loro potenziale idiosincrasico. Nessun significato, nemmeno quello del comando capitalistico, appare perciò garantito a priori. Non esiste la rete, ma esistono le reti, e se il discorso sulla complessità può servire da paravento ideologico della new economy, la complessità reale appare irriducibile a ogni proiezione ideologica. Una volta messa in moto, la macchina del desiderio diviene assai difficile da governare. E non solo da parte del capitale: i ‘movimenti’ del futuro ignoreranno le chiacchiere sul nuovo soggetto; se mai troveranno un’‘ideologia’ comune, questa non sarà troppo diversa da una qualche forma di sincretismo antagonista; e se mai si doteranno di strutture organizzate, queste non saranno troppo diverse da federazioni di differenze da costruire di volta in volta, su obiettivi contingenti» (ibi, pp. 16-17).
Sebbene in questo libro Formenti sembri accostarsi alle posizioni degli ‘entusiasti’ della rete, la sua posizione in realtà non si spinge mai verso un’ingenua celebrazione delle nuove tecnologie. Ma, senza dubbio, la sua lettura cyberpunk delle potenzialità della rete tende ad alimentare sia la critica delle visioni neo-marxiste della trasformazione capitalistica, sia l’abbandono di qualsiasi immagine del conflitto vagamente imparentata con la mitologia novecentesca. Sotto questo profilo, in fondo, la posizione non cambia rispetto a Prometeo e Hermes, ma in Incantati dalla rete il discorso si volge esplicitamente contro le letture del ‘postfordismo’ influenzate dal neo-marxismo (più che strettamente neo-marxiste). Sebbene, per esempio, Formenti rintracci elementi importanti nella lettura proposta da un vecchio patriarca dell’eco-socialismo come André Gorz, o nella riflessione sulla ‘svolta linguistica’ dell’economia condotta da Marazzi, o nelle ricerche sul ‘lavoro autonomo di seconda generazione’ condotte da Sergio Bologna e Andrea Fumagalli, non nasconde una serie di forti riserve, teoriche ma ovviamente anche politiche. Queste riserve – evidenti soprattutto a proposito di alcuni degli autori citati – sono dettate principalmente dall’ombra di un ‘nuovo soggetto’, cui viene imputata la capacità di svolgere una funzione di ‘avanguardia’ politica, in base alla propria collocazione nel ‘centro’ della nuova economia. Ma questo discorso a Formenti non può che apparire debole, prima ancora politicamente che sotto il profilo teorico. Sviluppando quelle medesime ipotesi già al centro delle riflessioni della fine degli anni Settanta, Formenti non può non tornare a sottolineare come, dinanzi alla crescente fusione di ‘lavoro’ e ‘vita’, la distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo sia del tutto inservibile. Al tempo stesso, a differenza dei neo-marxisti, Formenti evidenzia anche come la trasformazione economica e l’invasione della vita da parte del lavoro non siano interpretabili nei termini marxiani della ‘sussunzione reale’ (ossia, come la fase in cui il capitale, secondo Marx, si impossessa interamente della tecnica e della scienza per rivoluzionare completamente il processo lavorativo), ma possano piuttosto essere intese come riflessi di una sorta di ‘sussunzione formale’ (in cui il capitale si appropria delle forme tradizionali di lavoro, senza però operare una completa riorganizzazione delle funzioni e dei compiti). Questo punto non è ovviamente secondario, perché è proprio in questo scarto fra sussunzione reale e formale che Formenti può collocare il margine di ambiguità della new economy. Come scrive infatti in un passaggio teoricamente importante: «Ma perché parlare di sussunzione reale? Non ci troviamo piuttosto di fronte a un processo di sussunzione formale, nel senso che la logica del mercato capitalistico ‘si sovrappone’ alla prassi comunicativa sociale lasciandole una certa autonomia? Evidente che, in un certo senso, i due processi convivono. Il punto di vista neomarxista tende tuttavia ad accentuare l’elemento di sussunzione reale, in quanto ciò consente di evidenziare l’aspetto conflittuale del processo» (ibi, p. 243). L’idea della ‘sussunzione reale’, in sostanza, appare rischiosa a Formenti per almeno due motivi: innanzitutto, perché tende a rappresentare la trasformazione capitalistica come un processo che è riuscito effettivamente a ‘inghiottire’ l’intero mondo esterno, i territori, le dimensioni private della vita individuale, persino il corpo, e il risultato inevitabile è che, in questo modo, diventa molto difficile pensare a un fuori che si contrapponga conflittualmente a questo ordine ‘totalitario’. Così, i neo-marxisti, pur dipingendo uno scenario negativo, finiscono di fatto col recepire – pur con segno mutato – le rappresentazioni più celebrative della new economy. Ma il secondo risultato è ancora più negativo: dal momento che il fuori non esiste più, l’unico modo per pensare il conflitto torna ad essere quello del ‘nuovo soggetto’: un soggetto che può diventare un’avanguardia – sociale, politica – grazie alla propria collocazione nel ‘centro’ della produzione immateriale. A tornare sulla scena, in sostanza, è di nuovo la figura novecentesca di Prometeo, che scaccia quella di Hermes, dipinto ancora una volta con i toni ambigui della ‘conservazione’, della ‘nostalgia’, della ‘reazione’. E indicative di questa prospettiva sono le stesse letture che vengono fornite della rivolta di Seattle del dicembre 1999. Se la contestazione del vertice del Wto è il risultato di una sorta di postmoderna ‘armata Brancaleone' (composta da ecologisti e sindacati operai, da agricoltori e adepti della New Age, da nuovi anarchici e vecchi hippy), le interpretazioni neo-marxiste – secondo la critica di Formenti – tendono a ricondurre la rivolta (o quantomeno le sue potenzialità) esclusivamente alla contrapposizione tra capitale e lavoro, e in particolare alla nuova ‘composizione di classe’, emersa dalla trasformazione postfordista. «La qualifica di avanguardie, o nuovo soggetto» - scriveva – «spetta insomma esclusivamente al cognitariato – neologismo che nobilita con echi marxiani il concetto di lavoratori della conoscenza –, vale a dire la ‘classe virtuale’: tecnici, scienziati, intellettuali, informatici, ricercatori, ecc. Una volta assunto tale punto di vista, non ha più molta importanza stabilire se questa avanguardia costituisse una percentuale significativa di coloro che hanno partecipato all’evento reale. Ciò che conta, infatti, è la ricomposizione cognitiva prima ancora che la ricomposizione sociale del lavoro (che, per definizione, è ormai solo lavoro immateriale)» (ibi, p. 265). E, proprio nelle ultime pagine, ripropone, dinanzi alle nuove formulazioni, la convinzione già al cuore della Fine del valore d’uso, ma ne estende ulteriormente la portata, perché in questo caso a essere attaccata frontalmente da Formenti è la stessa nozione di composizione di classe, considerata come ormai del tutto inutile per leggere davvero dentro il ‘segreto laboratorio della produzione’: «se negli anni ’70 si è cercato di trascinare Marx oltre Marx, oggi sembra più arduo trascinare Marx oltre Ford. Non perché le categorie marxiane non siano più in grado di descrivere le dinamiche del tardo capitalismo – come si è visto, funzionano egregiamente, coi dovuti aggiustamenti -, ma perché il livello di unificazione del ‘soggetto di classe’ raggiunto nel corso del ciclo di lotte contro il fordismo è un fenomeno irripetibile. Nel mondo che viene, il concetto di ‘composizione di classe’ difficilmente potrà assumere senso diverso da quello d’una metafora che rinvia alla memoria storica dei movimenti» (ibi, p. 273).
In fondo, la polemica di Formenti contro le ipotesi sul ‘lavoro immateriale’ costituisce il coerente sviluppo della critica della nozione di ‘operaio sociale’ formulata vent’anni prima, mentre l’attacco all’immagine del cognitariato come nuova ‘classe virtuale’, perno della ricomposizione cognitiva, rappresenta la logica prosecuzione della celebrazione di Hermes contro Prometeo, ossia del tentativo di pensare il conflitto «oltre l’antagonismo». A dispetto di questi elementi, che legano saldamente le diverse tappe del percorso di Formenti, c’è però un tratto nuovo in Incantati dalla rete: un tratto che, probabilmente, deriva dalla convinzione di poter trasformare le suggestioni cyberpunk nel brogliaccio di una sorta di ‘programma politico’ per il nuovo millennio. Ed è significativo, da questo punto di vista, che Formenti, per formulare i primi frammenti di un’ipotesi, ricorra alle pagine di un eclettico e indefinibile scrittore anarchico, celato sotto lo pseudonimo di Hakim Bey e noto in Italia per il suo provocatorio opuscolo Taz, pubblicato in Italia proprio dall’editrice Shake. Perché, secondo Formenti, il modo di rappresentare il conflitto deve passare non ‘dentro’ il mondo della produzione e della circolazione di merci, bensì ‘oltre’ quel mondo, e cioè da «ciò che resta fuori»; e, soprattutto, perché non si tratta di ‘prendere qualcosa’, ma solo di «difendere ‘la vita e l’immaginazione’ rimasti qui, nel mondo reale» (ibi, p. 267). Benché non scivoli certo nell’enfasi apocalittica, di cui gli ‘anni ruggenti’ della globalizzazione alimentano una copiosa rinascita, Formenti riconosce così il profilo di un possibile «sincretismo antagonista», all’interno del quale possano trovare un terreno comune le pluralità di contrapposizioni all’unità globale. Un sincretismo che viene fissato nella metafora della «moltitudine», ma non della moltitudine di cui avrebbero scritto Hardt e Negri, e neppure della moltitudine di Virno, bensì in quell’aggregato informe, magmatico, proteiforme che Aldo Bonomi riconosce nelle nuove figure del lavoro degli anni Novanta (cfr. per esempio A. Bonomi, Il trionfo della moltitudine. Forme e conflitti della società che viene, Bollati Boringhieri, Torino, 1996). E, soprattutto, un sincretismo che risulta dalla combinazione delle «strategie di resistenza del corpo, delle comunità locali e del territorio alla sussunzione da parte delle reti globali» (ibi, p. 280).
Solo due anni dopo la pubblicazione di Incantati dalla rete, Formenti è costretto a una prima significativa diversione, non tanto rispetto alla direzione della propria lettura delle trasformazioni produttive, quanto rispetto alla prospettiva di conquista di densità ‘politica’ da parte dell’ipotesi del nuovo «sincretismo». La crisi della new economy, scoppiata proprio all’alba del nuovo secolo, induce infatti Formenti a prendere atto che, almeno in parte, le condizioni degli anni Novanta, in cui erano maturati l’immaginario cyberpunk e la stessa ipotesi ‘sincretista’, sono mutate. La crisi e l’irrompere sulla scena della violenza, dopo l’11 settembre 2001, segnano secondo Formenti una svolta ‘politica’, «che vede lo stato americano e una parte delle corporation high tech alleati contro il ‘blocco sociale’ protagonista delle trasformazioni rivoluzionarie del decennio precedente» (C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy, Einaudi, Torino, 2002, p. VII). In altre parole, se la rivoluzione digitale è stata il prodotto di una combinazione di attori sociali e culturali estremamente eterogenei, che hanno convissuto per due decenni gli uni accanto agli altri, la crisi segna la fine di quell’alleanza e l’avvio di una controffensiva volta a ‘normalizzare’ il mondo della rete. Quando esamina il panorama variegato del blocco sociale che, negli Stati Uniti, ha dato vita alla new economy, Formenti non lo fa con l’intento di pronunciare un requiem per un mondo ormai destinato alla scomparsa, ma ritiene piuttosto che proprio dai semi di quell’immaginario magmatico possano nascere nuovi frutti, questa volta dalla parte opposta dell’Atlantico. Con questo obiettivo, Formenti deve però iniziare ad articolare un discorso in parte diverso rispetto a quello di Incantati dalla rete, perché si trova a dover pensare effettivamente il conflitto, ossia a pensare come si possa formare un nuovo ‘blocco sociale’, capace di fronteggiare l’offensiva. E, per farlo, torna ancora una volta a guardare a quegli schemi post-operaisti, con cui intrattiene da più di tre decenni un costante rapporto di dialogo critico. In questo senso, Formenti non può infatti evitare di confrontarsi con le tesi di Empire, che, per un verso, riprendono le vecchie ipotesi degli anni Settanta, mentre, per un altro, le ricollocano in una sorta di neue Darstellung, ossia al livello di quella struttura imperiale le cui basi materiali sono date da un mercato che ha ormai steso le proprie reti su tutto il pianeta. Se Hardt e Negri abbandonano la distinzione fra ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, non per questo emendano effettivamente gli errori della vecchia riflessione post-operaista, perché – grazie all’utilizzo della nozione di ‘lavoro astratto’ – finiscono col ridurre mutamenti culturali complessi alla semplice dimensione economica, e col concepire tutte le nuove relazioni sociali che trovano spazio nella rete a momenti di un ciclo produttivo. Ancora una volta – argomenta Formenti nella propria critica – lo schema della sussunzione reale produce il risultato di occultare tutto ciò che, in realtà, rimane fuori: «le attività in questione – riproduzione e cura, chiacchiere, relazioni quotidiane, gioco, divertimento, esperienze emotive, creazione artistica, ecc. – non vengono unificate dal modo di produzione, come avveniva con le vecchie attività professionali omologate dalla catena di montaggio fordista, al contrario: esse sono tanto più funzionali al nuovo modo di produrre quanto più conservano le loro differenze. Per tacere del fatto che, in molti casi, i processi di decentramento produttivo favoriscono addirittura il ritorno di modelli produttivi e relazionali sociali di tipo capitalistico» (ibi, pp. 233-234). Naturalmente, Empire non si limita a riprendere lo schema della ‘sussunzione reale’, perché, in effetti, provvede anche a ricalibrarlo grazie all’adozione di una nozione foucaltiana, o, meglio, all’idea del «biopotere», che trova le sue origini nel pensiero del filosofo francese, ma che Hardt e Negri ridefiniscono sostanzialmente. L’esito di questa operazione non ne muta comunque il significato di fondo, e per questo Formenti può tornare a ribadire i motivi della propria critica: «alla fine di tutti questi giochi di prestigio, condotti a colpi di astrazioni teoriche, ci ritroviamo orfani di qualsiasi soggetto concreto in grado di opporre resistenza alla colonizzazione capitalistica delle relazioni sociali. Il variegato, idiosincratico, riottoso, combattivo universo di individui, comunità, culture, strati professionali, movimenti, ecc. […] sembra svanire di colpo, sostituito da una massa indifferenziata di lavoratori intellettuali subordinati al capitale, peggio, sostituito da una massa di individui astratti la cui stessa soggettività appare come un prodotto del biopotere capitalista» (ibi, p. 236). Ma la distanza critica da Empire non può investire anche l’immagine della moltitudine, anche perché – come si è visto – Formenti in Incantati dalla rete aveva adottato proprio questa nozione per rappresentare in termini metaforici il magma del ‘sincretismo possibile’. Coerentemente, Formenti non può che rigettare la visione di Hardt e Negri anche sotto questo profilo, perché la moltitudine di cui delineano i contorni i due autori di Empire risulta «di volta in volta astratto contenitore concettuale e/o come coacervo di singolarità individuali, per cui appare condannata a restare priva di contenuti, e ad assumere senso politico solo se giustapposta all’idea, non meno vuota e astratta, di Impero» (ibi, p. 255). Invece che a una figura così evanescente come quella di «moltitudine», Formenti si volge a un’«analisi concreta di soggetti e pratiche: da un lato, blocco sociale della Net Economy come convergenza fra movimenti di emancipazione individuale (recupero del liberalismo) e nuove forme di solidarietà e cooperazione (recupero del comunitarismo), dall’altro possibili alleanze di tale blocco con le resistenze locali ai processi di globalizzazione» (ibi, pp. 255-256).
Quando disegna la sagoma di questa alleanza, Formenti pensa probabilmente a quell’articolato fronte di soggetti che ha preso consistenza dopo il vertice di Seattle, che è stato protagonista della contestazione del G8 di Genova, e che sembra – mentre Mercanti di futuro viene licenziato – possa definire ulteriormente il proprio profilo nel corso delle mobilitazioni pacifiste. Per molti versi, le drammatiche giornate genovesi del luglio 2001 non sanciscono invece il battesimo del fuoco per un nuovo movimento, ma di fatto costituiscono il culmine di una parabola destinata a declinare nei mesi seguenti, senza trovare un effettivo radicamento e un reale potere di incidere, non solo a livello politico. Se quell’incerto ‘movimento dei movimenti’ riesce a fornire solo una pallida rappresentazione di quello che poteva essere – per usare le parole di Formenti – un nuovo ‘sincretismo’, il suo principale fallimento consiste nel non riuscire a trovare un collegamento con il mondo del lavoro e con la realtà di una condizione giovanile destinata a rivelarsi sempre più come dominata dalla dimensione della precarietà. Il rapido mutamento dello scenario politico e la maturazione di quella crisi economica globale che esploderà fra il 2007 e il 2008 inducono anche Formenti a un graduale ripensamento, che, a poco a poco, dissolve ogni residua traccia di quel (misurato) ottimismo sulle potenzialità di un controllo ‘dal basso’ della rivoluzione digitale. Il primo passo è costituito da una serie di interventi apparsi fra il 2003 e il 2006, e poi raccolti nel volume Se questa è democrazia. Paradossi politico-culturali dell’era digitale (Manni, Lecce, 2009), in cui Formenti inizia a prendere le distanze dall’ipotesi che le nuove tecnologie possano dar vita a forme di rappresentanza politica ‘post-democratica’. Ma il secondo passo – ancora più radicale – è compiuto con Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media (Cortina, Milano, 2008), un libro che può essere forse interpretato come una sorta di riavvicinamento di Formenti alle sue originarie matrici teoriche, che troverà peraltro un’ulteriore conferma in Felici e sfruttati.
Nelle pagine introduttive di Cybersoviet, Formenti torna infatti sulle ipotesi conclusive di Mercanti di futuro per prendere atto del fallimento del blocco sociale cui aveva affidato la causa di un rinnovamento delle istanze critiche della rivoluzione digitale: «la Net Economy è sì rinata dalle ceneri della crisi, ma ciò non ha favorito la ricomposizione del blocco sociale su cui si era fondata la sua prima fase; al contrario, da un lato, l’alleanza fra knowledge workers e imprenditoria di Internet (che nel frattempo ha visto colossi emergenti come Google sostituire la galassia delle startups nel ruolo di protagonisti) si è definitivamente rotta, dall’altro lato, il processo di commercializzazione/normalizzazione di Internet (pilotato dalla nuova alleanza fra governi e corporation) è proseguito a ritmo accelerato, riducendo drasticamente gli spazi di democrazia partecipativa» (ibi, p. X).
La presa d’atto di una simile sconfitta segna evidentemente un punto di svolta, che non coinvolge solo la visione delle trasformazioni o le possibilità di far rivivere il vecchio consiliarismo nei nuovi cybersoviet, ma anche il modo stesso di raffigurare il ‘blocco sociale’, il nuovo ‘sincretismo’. E, sotto questo profilo, sono molto significative le frasi – interlocutorie, problematiche – con cui si chiude il volume: «È arrivato il momento di decretare la fine di quella breve, convulsa e appassionante stagione che, dall’inizio degli anni Ottanta a oggi, sembrava aver aperto una ‘finestra’ per trasformare la rivoluzione tecnologica in rivoluzione sociale, culturale e politica? Forse non ancora, ma la possibilità che nuovi orizzonti di speranza si dischiudano a breve-medio termine dipende dal realizzarsi di due condizioni che, allo stato dei fatti, appaiono alquanto improbabili. La prima condizione è che i lavoratori della conoscenza sviluppino una qualche consapevolezza dei propri ‘interessi di classe’, nonché della necessità di allearsi con le masse dei lavoratori del terziario ‘arretrato’ e con quanto resta della classe operaia ‘tradizionale’. La seconda condizione è che l’egemonia della cultura neoliberale e neoliberista non resti schiacciante e incontrastata. In assenza di tali condizioni, sarà assai difficile ottenere risultati sul fronte della lotta per la ‘costituzionalizazione’ dei diritti e dei doveri dei cittadini della rete; e sarà ancora più difficile contrastare le ragioni della sicurezza e del controllo, e il rischio che tanto la sfera pubblica quanto la sfera privata vengano riassorbite nella sfera della produzione e dello scambio. Allo stato dei fatti, purtroppo, le culture della Rete non sembrano avere la minima consapevolezza di tale rischio; al contrario, si rafforza continuamente la diffidenza nei confronti di qualsiasi tipo di ‘ingerenza politica’ (anche se non governativa) negli affari di Internet. Ma restare fedeli al mito anarcoliberista – in un momento in cui il potere si concentra sempre più nelle mani dei giganti della Net Economy che cavalcano le tecnologie del Web 2.0 – significa consegnare ciò che resta della rivoluzione nelle mani del mercato» (ibi, pp. 272-273).
Nelle pagine introduttive di Cybersoviet, Formenti torna infatti sulle ipotesi conclusive di Mercanti di futuro per prendere atto del fallimento del blocco sociale cui aveva affidato la causa di un rinnovamento delle istanze critiche della rivoluzione digitale: «la Net Economy è sì rinata dalle ceneri della crisi, ma ciò non ha favorito la ricomposizione del blocco sociale su cui si era fondata la sua prima fase; al contrario, da un lato, l’alleanza fra knowledge workers e imprenditoria di Internet (che nel frattempo ha visto colossi emergenti come Google sostituire la galassia delle startups nel ruolo di protagonisti) si è definitivamente rotta, dall’altro lato, il processo di commercializzazione/normalizzazione di Internet (pilotato dalla nuova alleanza fra governi e corporation) è proseguito a ritmo accelerato, riducendo drasticamente gli spazi di democrazia partecipativa» (ibi, p. X).
La presa d’atto di una simile sconfitta segna evidentemente un punto di svolta, che non coinvolge solo la visione delle trasformazioni o le possibilità di far rivivere il vecchio consiliarismo nei nuovi cybersoviet, ma anche il modo stesso di raffigurare il ‘blocco sociale’, il nuovo ‘sincretismo’. E, sotto questo profilo, sono molto significative le frasi – interlocutorie, problematiche – con cui si chiude il volume: «È arrivato il momento di decretare la fine di quella breve, convulsa e appassionante stagione che, dall’inizio degli anni Ottanta a oggi, sembrava aver aperto una ‘finestra’ per trasformare la rivoluzione tecnologica in rivoluzione sociale, culturale e politica? Forse non ancora, ma la possibilità che nuovi orizzonti di speranza si dischiudano a breve-medio termine dipende dal realizzarsi di due condizioni che, allo stato dei fatti, appaiono alquanto improbabili. La prima condizione è che i lavoratori della conoscenza sviluppino una qualche consapevolezza dei propri ‘interessi di classe’, nonché della necessità di allearsi con le masse dei lavoratori del terziario ‘arretrato’ e con quanto resta della classe operaia ‘tradizionale’. La seconda condizione è che l’egemonia della cultura neoliberale e neoliberista non resti schiacciante e incontrastata. In assenza di tali condizioni, sarà assai difficile ottenere risultati sul fronte della lotta per la ‘costituzionalizazione’ dei diritti e dei doveri dei cittadini della rete; e sarà ancora più difficile contrastare le ragioni della sicurezza e del controllo, e il rischio che tanto la sfera pubblica quanto la sfera privata vengano riassorbite nella sfera della produzione e dello scambio. Allo stato dei fatti, purtroppo, le culture della Rete non sembrano avere la minima consapevolezza di tale rischio; al contrario, si rafforza continuamente la diffidenza nei confronti di qualsiasi tipo di ‘ingerenza politica’ (anche se non governativa) negli affari di Internet. Ma restare fedeli al mito anarcoliberista – in un momento in cui il potere si concentra sempre più nelle mani dei giganti della Net Economy che cavalcano le tecnologie del Web 2.0 – significa consegnare ciò che resta della rivoluzione nelle mani del mercato» (ibi, pp. 272-273).
Se le pagine di Cybersoviet risultano già impregnate di un certo fastidio nei confronti delle celebrazioni del potenziale democratico del web, ormai del tutto superate da una sostanziale ‘normalizzazione’, i toni polemici diventano ancora più forti – e pressoché onnipresenti – in Felici e sfruttati. Ma sarebbe sbagliato considerare il ‘ripensamento’ di Formenti solo come il riflesso intellettuale del moto pendolare della storia, per cui siamo destinati ogni volta a riscoprire ciò che in fondo era già noto alle generazioni che ci hanno preceduto, che abbiamo preferito – o dovuto – dimenticare. In Felici e sfruttati non è infatti difficile ritrovare il filo che Formenti ha continuato ad assolvere dentro il labirinto degli anni Ottanta e Novanta, dentro le illusioni e le speranze talvolta contraddittorie di quei decenni, e forse non è neppure così faticoso riconoscere oggi, in quell’intero, tortuoso percorso, l’ostinata ricerca di un modo nuovo di pensare, rappresentare, incarnare i conflitti della società ‘postmoderna’. Da questo punto di vista, non può passare inosservato come nelle prime pagine di Felici e sfruttati tornino ancora ad affiorare il volto severo di Menenio Agrippa e lo spettro della plebe ritirata sull’Aventino, che già si erano affacciati in Prometeo e Hermes. Se la grande narrazione della fine delle ‘grandi narrazioni’ aveva infatti sostenuto che l’ingresso nella ‘società postmoderna’ aveva definitivamente espulso dalla scena della storia (o della ‘fine della Storia’) l’eterna contrapposizione fra i ricchi e i poveri, la realtà del nuovo millennio ha mostrato come la coltre di quella suggestiva rappresentazione fosse estremamente fragile, tanto da apparire oggi persino inconsistente. «Nel primo decennio del XXI secolo» - scrive infatti Formenti, abbandonando le cautele del paludato bon ton accademico - «due catastrofiche crisi finanziarie – prima l’esplosione della bolla dei titoli tecnologici del 2000, poi la frana dei subprime iniziata nel 2008 e tuttora in atto – sembrano poter fare piazza pulita di questa paccottiglia ideologica. In barba alle prediche dei nuovi Agrippa, la cruda realtà del conflitto sociale torna a mostrare il proprio volto. La forbice fra ricchi e poveri si apre oltre ogni limite di decenza (al confronto, la distribuzione totale delle risorse in base al principio paretiano dell’80/20 sembra un paradiso egualitario); la classe media viene schiacciata e colpita duramente, a partire da quei knowledge workers che erano stati indicati come le élite del futuro; la New Economy si riorganizza attorno a un pugno di imprese giganti, tagliando fuori dal mercato le start-up, la ‘leggerezza’ dei bit si dimostra fin troppo volatile, dissolvendosi assieme ai miliardi di dollari bruciati dalle borse impazzite e alle stock options che avrebbero dovuto rimpiazzare i salari, trasformando tutti in imprenditori e rentier; lo smantellamento del welfare e le riforme del mercato del lavoro, realizzati con la benedizione delle socialdemocrazie occidentali, trascinano nella povertà milioni di persone, rimaste senza occupazione o costrette ad accettare lavori dequalificati e mal retribuiti e a sprofondare nel precariato; e via elencando, in una progressione infernale che avrebbe dovuto tappare la bocca ai teorici del win win (tutti vincono), versione postmoderna dell’apologo di Agrippa, in base alla quale il mostruoso arricchimento dei manager della New Economy consentirebbe anche a tutti gli altri di migliorare le proprie condizioni di vita» (ibi, p. 8).
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