Pagine

domenica 26 febbraio 2012

Il mercato contro la democrazia. A proposito di André Orléan e del "Manifesto degli economisti sgomenti"



 
di Damiano Palano


It’s the economy, stupid! Questa frase, adottata come slogan elettorale da Bill Clinton nella sua prima campagna presidenziale, è diventata, nel corso di un ventennio, ben più che familiare a chiunque segua – persino un po’ svogliatamente – i dibattiti politici e giornalistici. In effetti, proprio a partire dagli anni Novanta è divenuto abituale riferirsi alla quotidiana pressione esercitata dai mercati sul potere degli Stati nazionali, e lo slogan clintoniano fissava, in modo senza dubbio efficace, proprio la convinzione che le strutture economiche, le transazioni finanziarie, il ruolo della imprese multinazionali siano ‘vincoli’ sostanzialmente immodificabili e inaggirabili (oltre che solo parzialmente ‘addomesticabili’) da parte della politica, e che pertanto le democrazie siano costrette a prendere atto che – al di sopra del loro potere ‘sovrano’ – stanno altri attori, forse non propriamente ‘sovrani’, ma comunque capaci di influenzare le scelte politiche e di sottrarsi al controllo degli Stati. Anche la percezione del ruolo ‘sovrano’ del mercato è diventata più o meno un luogo comune, così come l’idea che i mercati agiscano sui singoli Stati nazionali e sulle scelte delle leadership democraticamente elette, mentre la convinzione che la democrazia risulti ‘svuotata’ dell’economia globale e dai suoi attori è ormai diventata quasi triviale, da non apparire sorprendente per nessuno. Ciò nonostante, molti osservatori hanno individuato nelle dinamiche della crisi finanziaria contemporanea un vero e proprio salto di qualità, che va ad approfondire quello squilibrio fra politica e mercato che le dinamiche della ‘globalizzazione’ hanno consolidato da più di un ventennio.
Intervenendo per esempio pochi giorni dopo l’invio della lettera del Governatore della Banca Centrale Europea al Governo italiano, nell’agosto 2011, Roberto Esposito ha intravisto nella crisi odierna i tratti di una sfida cruciale posta dai mercati alla politica: «Mai la politica è apparsa così indifesa rispetto all’andamento delle borse, o addirittura a bande di speculatori che scommettono sul fallimento di interi Stati, rischiando di fatto di provocarlo. Che ciò possa accadere attraverso un insieme di dispositivi finanziari capaci di aggredire un obiettivo sensibile in maniera simultanea da molteplici parti, è un ulteriore sintomo della debolezza della politica, non solo rispetto all’economia, ma anche all’apparato tecnologico che ormai fa tutt’uno con essa. Stretta in tale morsa, la sovranità statale appare ridotta ai minimi termini, se persino la prima potenza mondiale è soggetta a spinte che mostra di non saper controllare adeguatamente. In alcuni casi si direbbe che gli Stati non siano in grado di decidere neanche i tempi della propria resa» (R. Esposito, Non rassegnarsi al mercato sovrano, in «la Repubblica», 13 agosto 2011, p. 1).
C’è d’altronde un fatto sicuramente nuovo nella situazione di questi ultimi anni: un fatto che investe in particolare il ruolo delle istituzioni europee e soprattutto la convinzione riposta nella loro possibile azione. Negli anni Novanta (e almeno fino al 2005), alle letture dedicate alla globalizzazione e alla (più o meno lineare) conseguenza dello ‘svuotamento’ della democrazia, facevano seguito, quasi invariabilmente, ferme dichiarazioni di fiducia rivolte all’Unione Europea, considerata come l’àncora capace di dare stabilità ai piccoli e traballanti Stati del Vecchio continente anche nei mari tempestosi dell’economia globale. Legioni di economisti, giuristi e politologi hanno così continuato, per circa due decenni, a spalmare la melassa della retorica europeista sulla realtà dei meccanismi istituzionali dell’Ue: meccanismi evidentemente molto lontani dal configurare l’ombra di una democrazia (e che solo generosamente qualcuno ha avuto il coraggio di definire come una «democrazia composita»), oltre che molto lontani dal garantire una reale efficienza e una reale coerenza al governo dell’Unione. Neppure la più robusta corazza ideologica può però riuscire oggi a mascherare una realtà evidente a chiunque: una realtà in cui gli Stati membri – e soprattutto le principali potenze dell’area dell’euro – assumono il ruolo di un autentico ‘Direttorio’, mentre la Commissione arretra sempre più verso le quinte di un palcoscenico dove si alternano i toni della farsa a quelli della tragedia. E in cui la sospirata governance europea si ‘dissolve’ nell’aria, insieme a tutte le formule costruite in vent’anni da scienziati sociali entusiasticamente accorsi a indossare l’abito di vestali della ‘tecnocrazia’ di Bruxelles. Oggi – per usare le parole di Guido Rossi, nel momento per ora più critico della crisi europea, quello compreso fra la cancellazione del referendum greco sugli aiuti comunitari e il varo, in Italia, dell’esecutivo ‘tecnico’ guidato da Mario Monti – è diventato chiaro cosa si nasconda davvero dietro le immagini più confortanti della governance europea: «La tragedia dell’Europa è che tale governance non esiste e che le istituzioni dell’Unione non godono di sufficiente autorevolezza, sicché il risultato è che le singole parti urlano, impongono e l’insieme tace e subisce. Il deficit dei meccanismi istituzionali ha il suo punto massimo nello sconcertante ruolo che ha assunto la Bce, divenendo il vero strumento di politica economica non solo dell’Unione bensì anche dei singoli Stati, se è vero che nessuno si vergogna di dire che la manovra italiana è stata dettata da una lettera della stessa Bce. Si tratta tuttavia di una superpotenza non legale, senza contare che l’intero degrado del meccanismo istituzionale dovrebbe vedere competente la Corte di giustizia europea» (G. Rossi, Il deficit di democrazia fa più danni del debito, in «Il Sole-24 Ore», 11 settembre 2011, p. 1). Ma, in questa crisi, non emergono solo i ritardi e le insufficienze delle istituzioni comunitarie, perché – in modo ancora più netto – emerge l’insufficienza della politica e dei suoi strumenti dinanzi alla realtà delle dinamiche economiche. Il contrasto fra le logiche prioritarie dell’Unione e il carattere democratico delle decisioni europee ha assunto proporzioni drammatiche nel caso del referendum greco sul piano della Bce, prima indetto dal governo di Atene e in seguito cancellato per diretto intervento di Francia e Germania, per i timori della «vendetta dell’agorà» contro il «cieco governo tecnocratico-finanziario» (G. Rossi, L’Europa tecnocratica, la ‘vendetta dell’agorà’, in «Il Sole 24 Ore», 6 novembre 2011). E, come ha scritto Frank Schirrmacher sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung»: «È sempre più chiaro che quello che l’Europa sta vivendo al momento non è un episodio, bensì un conflitto di potere fra il primato dell’economia e il primato della politica. Il ‘politico’ ha già perso massicciamente terreno, e ciò è indicato dal fatto che tutti i concetti politici che sono stati associati all’Europa unita, sono sparsi al vento come cenere» (Demokratie ist Ramsch, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 1 novembre 2011). In modo ancora più radicale, Vittorio Parsi ha scritto che la cancellazione del referendum greco sugli aiuti dell’Ue può essere paragonata alla Conferenza di Monaco del 1938, con cui le grandi potenze imposero alla Cecoslovacchia di cedere i Sudeti alla Germania di Hitler per salvaguardare la pace mondiale. Allo stesso modo, oggi, i ‘grandi’ della comunità internazionale impongono ai greci di rinunciare alla loro ‘sovranità, o quantomeno alla loro democrazia. L’alternativa – sostiene invece Parsi – non è fra la salvaguardia del mercato, da un lato, e, dall’altro, la difesa della democrazia: «o riusciamo a salvare insieme mercato e democrazia, politica ed economia, oppure in seguito e a causa delle ferite e umiliazioni che imponiamo alla democrazia finirà con il morire anche il mercato: ma non gli speculatori, ovviamente, che sanno fare i propri interessi in qualunque sistema economico, tanto in pace quanto in guerra» (V.E. Parsi, Ma non sia un altro ’38, in «Avvenire», 6 novembre 2011, p. 1).

Dopo l’ennesimo – forse definitivo – attacco sferrato dall’Ue contro la Grecia in queste ultime settimane, è davvero difficile non concordare con tutte queste diagnosi, sia nel momento in cui si soffermano sui limiti strutturali dell’Ue, sia nel momento in cui segnalano la necessità di difendere la democrazia dal ricatto dei mercati e dalle decisione delle grandi potenze. Ma – è bene dirlo – l’idea di difendere la democrazia dal potere distruttivo del mercato va a confliggere con quella ‘grande narrazione’ che ha dominato il dibattito politico e intellettuale post-bipolare. Una ‘grande narrazione’ che – come scrive Aldo Schiavone – «pretendeva che l’anarchia capitalistica globale che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni fosse l’unica risposta possibile, e che l’assoluta anomia dei mercati coincidesse con il migliore mercato pensabile»; quasi che – continua Schiavone – «la globalizzazione dovesse inevitabilmente portare con sé, quale conseguenza inevitabile, una totale assenza di regole, e un ritrarsi sconfitto della politica da ogni luogo che contasse per dare una forma alle nostre vite» (A. Schiavone, Se il crollo dei mercati trasforma la democrazia, in «la Repubblica», 21 agosto 2011, p. 1). Ma, se il fascino di quella narrazione appare quantomeno offuscato, risulta in realtà piuttosto complicato comprendere se, quando e in che modo la ‘politica’ possa davvero tornare a esercitare un ‘governo’ sul mercato globale. In questo senso, per quanto si possa senz’altro concordare (almeno in parte) con Schiavone quando scrive che «la rivoluzione tecnologica ha trasformato le basi sociali delle nostre democrazie», e che si è dissolto il tessuto democratico che «aveva al suo centro il vecchio lavoro produttivo di merci materiali» e che «aveva come punto di riferimento un capitale poco mobile, fortemente radicato nel territorio e nella sua storia demografica e sociale» (ibidem), diventa molto più difficile seguirne il discorso quando evoca la realtà del nuovo lavoro: un lavoro «ad alta intensità tecnica e conoscitiva» e che richiede per svilupparsi «una relazione strettissima fra innovazione tecnologica e trasformazione finanziaria dell’economia», fra «lavoro e capitale finanziario» (ibidem), e su cui diventa possibile far leva per pensare un nuovo governo sul mercato. Tanto che chiamare – come fa Schiavone – la politica a «disegnare lo scenario che ci aspetta» (ibidem), finisce col suonare solo come un motivo rituale, non molto diverso in fondo da quella che faceva da immancabile corollario alla celebrazione del ruolo dell’Ue. Soprattutto perché non si capisce bene quali possano essere oggi i soggetti politici realmente in grado di «disegnare lo scenario che ci aspetta» (dal momento che persino quella che fino a pochi anni fa veniva descritta come l’unica e incontrastata «superpotenza globale» appare come quasi totalmente priva di risolutivi strumenti di azione). 

In effetti, evocare la ‘politica’ come strumento capace di regolare l’economia, come strumento per ‘controllare’ i mercati, o per mettere un freno al panico finanziario (o all’azione degli «speculatori»), rischia di diventare poco più di un vano esercizio retorico. Perché significa trascurare la portata delle trasformazioni che sono avvenute a livello economico negli ultimi trent’anni, e che ovviamente hanno massicce ricadute sulla realtà delle nostre democrazia. Per comprendere alcune componenti di queste trasformazioni risulta per molti versi imprescindibile il lavoro svolto in questi anni dallo studioso francese André Orléan, directeur de recherche al Cnrs (Centre National de la Recherche Scientifique), di recente insignito del prestigioso premio Paul-Ricœr per il suo libro L’Empire de la valuer. Refonder l’economie (Seuil, 2011). Una delle tesi principali di Orléan – di cui è stata pubblicata dall’editore Ombre corte di Verona una raccolta di interventi proprio sulla crisi finanziaria (Dall’euforia al panico, a cura di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli) – consiste nell’idea secondo cui il mercato finanziario non si regge su basi ‘oggettive’, ma solo su ‘convenzioni’, che gli operatori adottano per compiere le loro scelte e che la ‘scienza economica’ considera fondate. Ciò ha ovviamente una serie di conseguenze di non poco conto sulla dinamica della crisi contemporanea e sullo stesso tipo di rapporti che intercorrono fra Stato e mercato. In effetti, il problema dello strapotere dei mercati tende a essere considerato in termini impropri, se si immagina il ‘mercato’ nei termini in cui ne parlavano, per esempio, Adam Smith o Friedrich von Hayek. Come osserva in questo senso lo stesso Orléan in un’interessante intervista rilasciata a Frédéric Joignot e pubblicata sull’inserto culturale di «le Monde»: «Quando si dice ‘i mercati’, non si parla affatto dell'economia di mercato, né del mercato dei beni. Si parla dei mercati finanziari. Se ne parla come se riassumessero l'intera economia, e come se fossero razionali e stabili. Se fossero in grado di produrre stime accurate dei valori e dei prezzi, il loro ruolo sarebbe utile. Il problema è che non lo sono. Sono, da questo punto di vista, molto diversi dai mercati dei beni. Questi si occupano di beni reali, con un’utilità che i consumatori possono giudicare, mentre i mercati finanziari si basano su delle valutazioni soggettive, altamente speculative. Si tratta di mercati di promesse. Si comprano e vendono le aspettative. La loro logica è di natura mimetica: ogni investitore si posiziona in funzione di quello che gli altri faranno. Sono molto simili a quei media che cercano di scoprire non le informazioni importanti, ma quelle suscettibili di essere apprezzate dal pubblico. Per questo motivo, un mercato finanziario è per sua natura mobile, instabile, pieno di deviazioni incontrollate. Così produce inevitabilmente delle bolle che esplodono quando lo scarto rispetto alla realtà diventa troppo grande per essere negato. La teoria liberale vorrebbe farci credere che i mercati finanziari forniscono valori pertinenti, dei prezzi obiettivi, e che alla fine l’autoregolazione riuscirà a imporsi. È così che la finanziarizzazione è stata venduta alle popolazioni. Questo edificio è stato completamente smentito dalle crisi che si sono succedute, dopo il 1987 fino allo tsunami finanziario del 2007 e alla crisi odierna» («Le marché gouverne», in «culture&idees - le monde», 21 gennaio 2012, p. 1).

Questa stessa lettura viene ripresa, oltre che negli scritti teorico-analitici di Orléan, anche nel Manifeste d’économistes atterrés, apparso in Francia nel 2010 e pubblicato in italiano proprio in questi giorni (Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi, minimum fax, pp. 126, euro 7.50). Nel manifesto – steso da un gruppo di economisti di cui, oltre a Orléan, fanno parte Philippe Askenazy, Thomas Coutrot, Henri Sterdyniak – vengono innanzitutto smontate alcune delle «false certezze» sulla crisi, la prima delle quali è proprio che i mercati finanziari siano efficienti, ma alla quale se ne accompagna una seconda, forse ancora più rilevante sotto il profilo politico, ossia la convinzione che i mercati finanziari favoriscano la crescita economica. Infatti, l’integrazione finanziaria ha modificato la stessa logica d’impresa, schiacciando la prospettiva temporale sul breve periodo con cui l’azionista valuta la redditività del proprio investimento finanziario. Come scrivono gli ‘economisti sgomenti’: «L’integrazione finanziaria ha aumentato notevolmente il potere della finanza perché ha unificato e centralizzato a livello globale la proprietà dei capitali. Essa determina oggi gli standard di redditività che vengono richiesti all’insieme dei capitali. Il progetto iniziale era che i mercati finanziari avrebbero sostituito le banche nel finanziare gli investimenti, ma tale progetto è fallito, al punto che oggi, nel complesso, sono le imprese a finanziare gli azionisti e non il contrario. La governance aziendale è stata profondamente trasformata per soddisfare gli standard di redditività imposti dal mercato. Con l’affermazione del concetto di creazione di valore azionario si è imposta una nuova visione dell’impresa e del suo management, in cui l’impresa viene concepita come un’entità al servizio degli azionisti. L’idea di un interesse comune tra i diversi partecipanti all’impresa è scomparsa. I dirigenti delle imprese quotate in borsa perseguono oggi il principale ed esclusivo obiettivo di soddisfare il desiderio di arricchimento degli azionisti. Di conseguenza, essi cessano di essere dei dipendenti, come mostrano gli aumenti eccessivi delle loro retribuzioni. Come sostenuto dalla teoria dei rapporti di agenzia, l’obiettivo è quello di far sì che l’interesse dei manager converga con quello degli azionisti» (ibi, pp. 16-17). Ciò ha inevitabilmente degli effetti dirompenti sotto il profilo politico e sociale: «Di fronte a questo potere, gli interessi dei salariati, così come la sovranità politica, sono stati messi ai margini. Tale squilibrio ha condotto a un’irragionevole richiesta di profitti che ostacola la crescita economica e alimenta un aumento delle disuguaglianze di reddito. Da una parte, l’esigenza di una redditività elevata frena il livello degli investimenti: maggiore è il rendimento richiesto, più difficile diventa trovare progetti che siano abbastanza competitivi da soddisfare tali esigenze. Così, i tassi di investimento rimangono storicamente bassi in Europa e negli Stati Uniti. Dall’altra parte, queste esigenze causano una costante pressione al ribasso sui salari e sul potere d’acquisto, cosa che non favorisce certo la domanda. La frenata simultanea degli investimenti e dei consumi porta a un livello di crescita e a una disoccupazione endemica. Questa tendenza è stata contrastata nei paesi anglosassoni attraverso un aumento del debito delle famiglie e attraverso bolle speculative che, creando una ricchezza illusoria, favoriscono l’aumento dei consumi senza aumento dei salari, ma si concludono con un crollo dell’economia» (ibi, p. 17).
L’elenco delle «false certezze» messe in fila dagli «economisti sgomenti» è piuttosto lungo, e, sebbene i loro rilievi non siano certo particolarmente eterodossi, si tratta proprio delle ‘convinzioni’ che vengono quotidianamente propalate, sia dagli osservatori ‘imparziali’ sia dagli stessi operatori politici, e, soprattutto, delle ‘certezze’ che ispirano gli interventi volti a fronteggiare la crisi. Più precisamente, alcune «false certezze» riguardano i debiti pubblici e l’origine della loro crescita, un tema che si è prestato – e si presta tuttora – a una serie di letture quantomeno deformate, che attribuiscono la crescita del debito (soprattutto nell’Eurozona) all’incremento sproporzionato della spesa sociale. In realtà, le cose stanno diversamente, almeno se si considera l’andamento della spesa pubblica dall’inizio degli anni Novanta. Come scrivono in questo senso i quattro studiosi: «l’aumento del debito pubblico, in Francia come in molti altri paesi europei, era inizialmente moderato e, prima della recessione, non dipendeva da un aumento della spesa pubblica – dato che al contrario, in proporzione al Pil, la spesa pubblica in Europa si è mantenuta stabile, se non in calo, a partire dai primi anni Novanta – ma dall’erosione delle entrate pubbliche. Quest’ultima era dovuta a una debole crescita economica e alla controrivoluzione fiscale condotta da molti governi negli ultimi venticinque anni. Nel lungo termine, la contro-rivoluzione fiscale ha alimentato la crecita del debito passando da una recessione a un’altra. Considerato che nel frattempo nessuna armonizzazione fiscale ha avuto luogo, in Europa gli stati hanno avviato una concorrenza fiscale fra di loro, abbassando le imposte sulle imprese, sui redditi elevati e sui patrimoni» (ibi, pp. 22-23).

In realtà, sempre a proposito del debito pubblico, viene smentita anche un’altra «certezza», anch’essa di enorme impatto emotivo: l’idea che la crescita del debito pubblico implichi un trasferimento di ricchezza a danno delle generazione, e che per questo – come avviene in una famiglia in cui il padre si sia indebitato fino al collo per sostenere un tenore di vita dissoluto – sia necessario prendere atto che ‘abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità’. Ma la dinamica macroeconomica non funziona come l’economia domestica, e il trasferimento di ricchezza realizzato con il debito pubblico – un trasferimento che pure esiste – non avviene dai padri ai figli, bensì da alcuni strati sociali ad altri: e cioè, dai contribuenti, ossia dai lavoratori e dalle imprese che pagano le tasse, agli azionisti, ossia a coloro che prestano soldi allo stato. Questo meccanismo in Italia ha avuto una funzione formidabile, perché, se si volesse esaminare in modo approfondito la storia del nostro paese nel corso degli ultimi trent’anni, proprio il debito pubblico – a partire dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta – ha rappresentato non solo un formidabile strumento di redistribuzione della ricchezza (di cui ha naturalmente beneficiato anche il vecchio ‘bot people’ dell’era craxiana), ma anche un eccezionale meccanismo che ha consentito alle imprese (alle grandi imprese in particolare), uscite indebolite dalla crisi degli anni Settanta, di recuperare mediante la rendita finanziaria quella redditività persa sul mercato dei beni. In termini storici, come osservano gli «economisti sgomenti», la radice di questo meccanismo può essere ritrovata nella svolta con cui gli Stati Uniti decisero, a partire dagli anni Ottanta, di incentivare la crescita riducendo l’imposizione fiscale. Anche gli Stati europei, nella convinzione (raramente confermata dalle evidenze empiriche) che la diminuzione delle tasse favorisca la crescita, hanno imitato la politica americana. Ma il risultato è stato che, per finanziare la spesa pubblica, si sono dovuti rivolgere al mercato: «Tali politiche hanno costretto i governi a prendere a prestito denaro dalle famiglie più ricche e dai mercati per finanziare i deficit così creati. Si potrebbe a questo proposito parlare di ‘effetto jack-pot’: con i soldi risparmiati sulle tasse, i ricchi hanno potuto acquistare i titoli del debito pubblico emessi per finanziare il deficit causato dalla riduzione delle tasse. È sorprendente come i leader politici siano riusciti a convincere che i lavoratori, i pensionati e i malati siano responsabili del debito pubblico. […] Nel complesso, si è messa in moto una forma di redistribuzione verso l’alto, dalle classi più povere alle più ricche, attraverso il debito pubblico, la cui controparte è sempre la rendita privata» (p. 28). Da questa dinamica deriva un’ulteriore conseguenza, che aiuta quantomeno a smontare un’altra «falsa certezza», ossia che la riduzione del debito richiede un taglio della spesa pubblica: in realtà, infatti, se il debito pubblico dipende da un lato dal livello dei deficit primari, dall’altro dipende – soprattutto in questa fase storica – dalla differenza tra il tasso d’interesse e il tasso di crescita dell’economia. Ed è evidente che un sensibile rallentamento della crescita – o addirittura una vera e propria ‘recessione’, come quella che l’Italia ha vissuto negli ultimi anni, e come quella che si appresta a vivere nel 2012, non può che ridurre gli introiti fiscali, aumentando così lo scarto rispetto ai costi del debito. E, dato che una brusca e radicale riduzione della spesa pubblica può (molto probabilmente) determinare effetti recessivi (soprattutto se attuata contemporaneamente in tutti i paesi di una zona fortemente integrata e per molti versi ‘chiusa’ al proprio interno), la previsione sugli effetti di una misura del genere non è certo positiva: «L’unico effetto di una massiccia e simultanea riduzione della spesa pubblica in tutti i paesi europei sarebbe così una recessione ancora più forte e un ulteriore aumento del debito pubblico» (p. 25).
Naturalmente, il debito pubblico ha radici profonde e non è causato dall’introduzione dell’euro. Ma, senza dubbio, la creazione dell’Eurozona ha modificato, nel corso di dieci anni, la situazione in cui si trovavano molti paesi del Vecchio continente. I motivi per cui la moneta unica è stata considerata dalle leadership europee come uno strumento prezioso sono noti. Per un verso, i paesi forti – come principalmente la Germania – vedevano nell’euro un modo per ridurre il peso del marco e, così, per attenuare la concorrenza ‘sleale’ di quei paesi che potevano ricorrere alla svalutazione delle loro monete nazionali; dall’altro, paesi come l’Italia, con un debito pubblico molto elevato, vedevano nella moneta unica la possibilità di accedere al mercato del credito con tassi molto più bassi rispetto al passato, e così l’occasione per riuscire a mettere ordine nei conti pubblici. Se queste erano le prospettive con cui si guardava all’Eurozona, non si può dire che non si siano effettivamente realizzate, almeno fino al momento dell’esplosione della crisi. Ma, a un decennio di distanza, è però necessario riconoscere che non tutti i paesi europei si sono avvantaggiati allo stesso modo del nuovo quadro economico e che, anzi, l’ago della bilancia del potere reale ha iniziato a pendere sempre di più in una direzione. I motivi sono naturalmente molti, ma probabilmente alla base di questa situazione stanno sia le diverse strategie che le leadership nazionali hanno adottato per rispondere alla creazione della moneta unica, in una condizione di crescita molto bassa (in cui si trova l’Europa dalla fine degli anni Novanta), sia soprattutto il profilo economico di ciascun paese. Se le politiche adottate nei singoli paesi sono andati più o meno nella medesima direzione, gli effetti sono stati molto diversi, e soprattutto quei paesi che, come l’Italia, sono stati penalizzati dalla rigidità monetaria e fiscale, si sono dovuti rivolgere, per riconquistare competitività, al fattore lavoro, senza che questo abbia prodotto risultati positivi. Perché questa competizione ha avuto, sostanzialmente, un unico vincitore: «È stata promossa la flessibilità del lavoro e la moderazione salariale, ridotta la quota dei salari sul reddito totale e accresciuto il livello delle disuguaglianze. Questa corsa al ribasso è stata vinta dalla Germania, che è stata capace di ottenere importanti surplus commerciali a spese dei suoi paesi vicini e, in modo particolare, a spese dei suoi lavoratori, imponendo un basso costo del lavoro e delle prestazioni sociali e garantendosi un vantaggio commerciale sui suoi vicini, incapaci di trattare i propri lavoratori altrettanto duramente. Il surplus commerciale della Germania è ottenuto a discapito della crescita degli altri paesi. Deficit commerciali e di bilancio di alcuni paesi non sono altro che la controparte inevitabile dei surplus di altri… gli stati membri non sono stati in grado di definire una strategia coordinata» (ibi, p. 37).
Benché non tutte le misure proposte dai quattro economisti possano risultare pienamente convincenti, e nonostante anche alcuni aspetti del loro discorso possano apparire contestabili, è difficile negare che il quadro generale che descrivono non sia efficace e non colga la sostanza di una crisi che, naturalmente, non è soltanto europea, ma che investe soprattutto l’Europa e le istituzioni dell’Unione. Ciò che però è più sorprendente, a più di un anno dal momento in cui è apparso il Manifesto, è che – sebbene molte di quella certezze che erano contestate dagli «sgomenti» vengano ormai riconosciute come ‘false’ da parecchi osservatori e, persino, da diversi operatori politici – le misure adottate continuano a essere le stesse. In altre parole, benché molti ormai tendano a riconoscere che l’origine della malattia non sta, per esempio, nell’elevato costo del lavoro o nella crescita della spesa sociale, ma semmai proprio negli effetti innescati dall’eccesso di flessibilità sul mercato del lavoro, le linee d’azione continuano a essere indirizzate sulle medesime coordinate che hanno guidato le politiche europee negli vent’anni. Anzi, gli «economisti sgomenti» erano addirittura facili profeti nel momento in cui prevedevano che la crisi avrebbe offerto «alle èlite finanziarie e ai tecnocrati europei l’opportunità di mettere in opera ‘la strategia dello shock’, radicalizzando l’agenda neoliberista» (p. 42). E, in effetti, le misure adottate negli ultimi dodici mesi sono andate proprio nella direzione che i quattro economisti temevano, ossia verso un inasprimento del Patto di stabilità e crescita, come nel caso della richiesta di introdurre la clausola del pareggio di bilancio nelle carte costituzionali dei paesi membri, o nel caso della volontà della Commissione europea di giungere alla riduzione del debito al 60% del Pil. Ma queste misure – segnalano gli «sgomenti» - non hanno molte probabilità di successo, per cinque motivi principali: a) la riduzione della spesa compromette gli investimenti in settori cruciali per la crescita europea (per esempio la ricerca e l’istruzione); b) la riduzione della spesa pubblica destinata alle famiglie determinerà una riduzione della domanda effettiva, con un ulteriore aggravamento della crisi; c) i singoli Stati non hanno una reale intenzione di procedere verso un’effettiva armonizzazione fiscale, indispensabile per esercitare un controllo sui flussi finanziari (oltre che sui redditi elevati); d) per effetto delle politiche di bilancio restrittive, il gettito fiscale diminuirà, il rapporto fra il debito e il Pil aumenterà (o non diminuirà) e, così, i mercati non saranno affatto ‘rassicurati’; e) la ferrea disciplina di Maastricht potrebbe innescare, oltre a un indebolimento della coesione sociale, risposte nazionaliste nei singoli paesi, mettendo a rischio persino la medesima costruzione europea.

Queste previsioni vengono riprese e aggiornate in Changer d’economie! Nos propositions pour 2012 (in uscita per Les Liens qui libèrent), ma è piuttosto evidente che proprio i rischi segnalati un anno fa dagli «atterrés» sono destinati a segnare i nostri prossimi mesi (e si veda a questo proposito anche l’intervista ad Askenazy sui rischi delle politiche di austerità, in «culture&idees - le monde», 28 gennaio 2012). Perché, trascorsa la ‘luna di miele’ con il governo presieduto da Mario Monti, e sempre che il timore di essere soppiantati dai ‘tecnici’ non spinga i politici professionisti a ‘staccare la spina’, magari lasciando cadere nel fango la bandiera della ‘rivoluzione liberale’ per inalberare il vessillo (meno compromesso) del ‘popolo’ strangolato dai ‘poteri forti’, i nodi non potranno che tornare a incastrarsi fra i denti del pettine. Per effetto della recessione, il rapporto fra il debito e Pil non potrà che crescere, e non potrà che aumentare ulteriormente il bisogno dello Stato di ricorrere al prestito, e così la sua esposizione agli attacchi speculativi, alle convenzioni aleatorie degli investitori, alle valutazioni delle agenzie di rating. Tutto questo renderà sempre più chiaro anche al fatidico uomo della strada che l’Europa non si trova di fronte a una situazione di crisi temporanea o congiunturale, ma dinanzi a una guerra, che, ovviamente, non va combattuta con strumenti ordinari, ma con gli strumenti ‘straordinari’ che sono richiesti da un conflitto di portata globale. E compiendo quei sacrifici ‘straordinari’ che una guerra impone a ogni cittadino. Ciò che forse scopriremo troppo tardi è però che in questa guerra l’Europa combatte contro se stessa, e non contro un nemico esterno. E che ciò che il conflitto lascerà sul tappeto sarà proprio il cadavere della nostra democrazia. O almeno di quella forma politica che abbiamo chiamato per qualche decennio con questo antico nome, e che ha almeno parzialmente – e in modo imperfetto – realizzato l’ambizione di tenere insieme libertà politica, diritti sociali e benessere e economico.

Damiano Palano

 
 
Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.

Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.

Nessun commento:

Posta un commento