di Damiano Palano
Segue da
Il nuovo odio per la democrazia 1/4
Il nuovo odio per la democrazia 2/4
Il nuovo odio per la democrazia 3/4
4. La democrazia e il potere
Se i bersagli polemici di Rancière sono ben chiari quando si rivolge contro il contemporaneo «odio per la democrazia», sono altrettanto nitidi anche quando il filosofo francese prende in esame il pensiero radicale. Ed è facile scorgerne una prima traccia negli appunti critici che Rancière dedica alla riflessione sulla biopolitica o alle ipotesi di autori come Giorgio Agamben. Nell’Odio per la democrazia, per esempio, accenna proprio ad Agamben, che «faceva dello ‘stato d’eccezione’ il contenuto della nostra democrazia» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 24), notando peraltro che, «se non viviamo in una democrazia», «non viviamo nemmeno in un campo, come sostengono certi autori che ci vedono tutti sottomessi alla legge d’eccezione del governo biopolitico» (ibi, p. 89). Non si tratta infatti di considerazioni incidentali, perché Rancière si è soffermato in diverse occasioni su una critica all’impostazione di Agamben. In Who is the Subject of the Rights of Man? esamina con una certa attenzione la proposta avanzata in Homo sacer, e, in particolare, ritiene che l’ipotesi di Agamben – che combina la critica dei «diritti umani» avanzata da Hannah Arendt, con la teoria dello «stato di ecezione» di Carl Schmitt e, infine, con la nozione di «biopolitica» illustrata da Michel Foucault negli anni Settanta – finisca di fatto col costringere la politica in una sorta di «trappola ontologica». La critica del diritto umanitario svolta da Agamben, così come la sua fusione del potere sovrano con il biopotere, elimina ‘ontologicamente’ la politica, ossia la capacità del demos di rompere l’ordine simbolico. Se per Agamben il diritto umanitario allude infatti all’estensione del potere sovrano sulla «nuda vita», e dunque alla realtà di un potere capace di decidere sulla determinazione stessa fra zoé e bios, Rancière ritiene invece che questa operazione sia possibile solo presupponendo che il popolo sia un soggetto assolutamente passivo, o, al limite, che tutte le sue richieste vadano paradossalmente a rafforzare un dispositivo di dominio. Ma tutto il discorso di Agamben, così come le sue conclusioni, scaturisce dal fatto che lo studioso italiano – come scrive Rancière - «dimentica completamente la logica della soggettivazione politica», dimentica cioè che la politica è una sfera in cui si incontrano la logica della polizia e la logica della politica. In altri termini, allora, «i Diritti dell’Uomo sono i diritti del demos, che è il nome generico dei soggetti politici, cioè dei soggetti che, in specifiche scene di dissenso, decretano la paradossale qualificazione di questo supplemento» (J. Rancière, Dissensus. On Politics and Aestethics, Continuum, London, 2010, p. 71).
Se da un lato critica la riflessione di Agamben per il suo pessimismo ‘ontologico’, Rancière non manca di indirizzare più di qualche fugace rilievo anche al post-operaismo italiano, e non è da questo punto affatto casuale che il suo pamphlet sull’«odio per la democrazia» si concluda proprio con un attacco a Empire di Michael Hardt e Antonio Negri. Infatti, Rancière non può che ritrovare nel discorso sviluppato da Empire il vizio originario della visione marxista della rivoluzione. Un vizio che, innanzitutto, attiene alla modalità di intendere la classe operaia nei termini di un soggetto capace di riassumere in sé non un interesse parziale, ma la causa dell’intero genere umano, e che rimanda dunque all’idea che proprio la rivoluzione comunista possa porre termine, insieme alla storia del conflitto di classe, alla politica stessa, a quel «disaccordo» potenziale che, invece, per Rancière è incardinato nell’eguaglianza degli esseri umani. Ma si tratta soprattutto di un vizio che attiene alla convinzione che il conflitto e il soggetto conflittuale debbano prendere forma ‘inevitabilmente’ dallo sviluppo delle forze produttive: una convinzione che, nell’impianto teorico di Empire, si traduce nell’idea che la «moltitudine» viva già – almeno a livello potenziale – nei reticoli della produzione immateriale, nel flusso inarrestabile del capitalismo postmoderno. Ed è invece proprio contro questa convinzione che si scaglia Rancière, perché, ai suoi occhi, la democrazia, ossia la potenza disordinante del demos, e non può essere mai il prodotto dello sviluppo, non può essere in alcun caso il risultato di contraddizioni ‘strutturali’:
«Capire che cosa vuol dire democrazia significa rinunciare a questa fede. L’intelligenza collettiva prodotta da un sistema di dominio non è mai solo l’intelligenza di quel sistema. La società ineguale non porta nel suo grembo nessuna società dell’uguaglianza. La società dell’uguaglianza è solo l’insieme delle relazioni egualitarie che si tracciano qui e ora attraverso atti singolari e precari. La democrazia è nuda nel suo rapporto col potere della ricchezza e col potere della filiazione che oggi lo asseconda e o lo sfida. Non è fondata in nessuna natura delle cose e non è garantita da nessuna forma istituzionale. Non è portata da nessuna necessità storica e non ne porta nessuna. È affidata solo alla costanza dei propri atti. La cosa non può non fare paura e quindi suscita odio in chi è abituato a esercitare il magistero del pensiero. Ma in chi sa condividere con chiunque il potere uguale dell’intelligenza può suscitare coraggio, e quindi gioia» (ibi, pp. 115-116)
Per gli stessi motivi per cui critica la visione della moltitudine proposta da Empire, Rancière si discosta nettamente anche dalla riflessione sulla biopolitica e sul biopotere condotta da Hardt e Negri. In sostanza, in questo caso, la visione positiva, affermativa della biopolitica, che prende forma dentro i reticoli del biopotere, riproduce non solo uno schematismo deterministico, ma finisce col dimenticare la specificità della soggettivazione politica. Nelle voci che presentano la biopolitica in una veste positiva, nota infatti, «c’è il tentativo di fondare un’idea di biopolitica in una ontologia della vita, identificata con una certa radicalità di autoaffermazione», sebbene, in realtà si tratti di «un tentativo di identificare la questione della soggettivazione politica con quella delle forme dell’individuazione personale e collettiva» (Biopolitics or Politics, in J. Rancière, Dissensus, cit., p. 94). Il terreno della soggettivazione politica per Rancière è invece un altro, perché chiama in causa una rottura del sensibile che non può discendere in modo ‘spontaneo’ o ‘naturale’ da alcun assetto sociale, economico e politico. E, così, esclude che «sia possibile estrarre dalla nozione di biopotere – un termine che designa una forma di preoccupazione e un modo di esercizio del potere – una nozione di biopolitica come modo specifico di soggettivazione politica» (ibi, p. 96).
Quando mette in guardia dalla tentazione di immaginare in termini deterministici la genesi di un nuovo soggetto conflittuale, certo Rancière coglie un limite reale del discorso sviluppato da Hardt e Negri. In effetti, laddove descrivono la moltitudine, Hardt e Negri sembrano pensare che un simile soggetto viva già dentro la struttura della cooperazione determinata dalla sussunzione reale del lavoro, e proprio in questo senso tendono a trascurare i caratteri problematici della «soggettivazione», oltre che le linee interne di strutturazione della forza lavoro contemporanea (e proprio su questo limite ho cercato di attirare l’attenzione nel saggio Fino alla fine del mondo. Lo Stato nello spazio imperiale, in D. Palano, Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea, Liguori, Napoli, 2010, pp. 169-255). Ma, a ben vedere, anche nel discorso sviluppato da Rancière non è così difficile rinvenire un limite teorico altrettanto significativo: un limite molto diverso da quello che contrassegna la proposta di Hardt e Negri, e in qualche misura addirittura speculare rispetto al rischio di ‘determinismo’, e ciò nondimeno foriero di conseguenze meno rilevanti.
In effetti, quando pensa alla democrazia e all’azione disordinante della politica, Rancière evoca l’idea di una rottura dell’ordine simbolico i cui caratteri appaiono molto vicini a quelli di un’esplosione ‘evenemenziale’. In altre parole, anche Rancière – allineandosi a diversi esponenti della filosofia radicale transalpina degli ultimi trent’anni – sembra pensare al conflitto come all’irruzione dell’evento nel regno della continuità storica, e cioè come a un evento che rompe la coerenza di un ordine simbolico, aprendo nuove prospettive, enunciando un diverso ordine. In molte di queste riflessioni, un ruolo fondamentale, nel definire il paradigma stesso dell’evento, viene assegnato naturalmente al «Maggio» del 1968, o, meglio, a una rappresentazione della rivolta di quei giorni su cui si depositano le forti connotazioni di una mitizzazione postuma (e forse persino nostalgica). E, come ha notato Diego Melegari, spesso l’«insistenza sulla purezza dell’evento», oltre a scontare un difetto di storicizzazione, finisce con l’accompagnarsi alla «nota più inquietante del suo probabile ‘riassorbimento’», se non proprio alla «consapevolezza di una certa prossimità tra la sua intima indecibidibilità e la moltiplicazione di forme differenziate, magari conflittuali, della sua ‘perdita’, cioè della sua messa in valore spettacolarizzata e sistemica» (D. Melegari, Una rivoluzione senza storia. Tre percorsi su Maggio ’68 e filosofia francese, in La rivoluzione dietro di noi, a cura di Marco Baldassarri e Diego Melegari, Manifestolibri, Roma, 2008, p. 105).
È stato fra l’altro Eric Hazan, in un’intervista a Rancière, a suggerire che anche il filosofo francese concepisce la politica nei termini di una rottura temporanea, destinata a essere rapidamente riassorbita, come, per esempio, quando, nelle Dix théses sur la politique, scrive che «la politica accade come un accidente sempre provvisorio nella storia delle forme di dominio» (J. Rancière, Aux bords du politique, Gallimard, Paris, 2004), o quando, alla conclusione de Il disaccordo, afferma che «la politica, nel suo carattere specifico, è cosa rara», e che «è sempre locale e occasionale» (J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 148). Dinanzi a queste osservazioni, Rancière ha in realtà negato di concepire la politica come una rottura episodica e destinata a essere riassorbita. E in questo senso ha affermato, proprio replicando ad Hazan:
«Penso di non aver mai parlato di apparizioni improvvise, brevi e senza domani. Non propongo una visione della storia nella quale ci sarebbero delle emergenze e dove in seguito tutto cadrebbe di nuovo nell’appiattimento. […] Non volevo dire che l’uguaglianza esiste solo sulle barricate e che una volta distrutte le barricate è finita, si ritorna all’atonia. Non sono un pensatore dell’evento, dell’apparizione improvvisa, ma piuttosto dell’emancipazione come qualcosa che ha una tradizione, una storia che non è fatta solamente di grandi azioni eclatanti ma di una ricerca per creare forme comuni che non siano quelle dello Stato, del consenso, ecc. Sicuramente ci sono degli avvenimenti che scandiscono, che aprono delle temporalità: per esempio i tre giorni del luglio 1830 hanno aperto uno spazio nel quale in seguito si sono riversate le associazioni operaie, le insurrezioni del 1848 e la Comune» (J. Rancière, I democratici contro la democrazia, intervista a cura di Eric Hazan, in G. Agamben et al., In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma, Roma, 2010, p. 124).
Nonostante Rancière possa negare di essere definito come un «pensatore dell’evento», e benché non abbia esplicitamente avvalorato l’immagine del «Maggio» come evento, come rottura capace di interrompere la continuità storica e l’ordine simbolico esistente, è però molto probabile che le sequenze storiche della rivolta studentesca e operaia del Sessantotto costituiscano l’episodio cruciale del suo itinerario teorico, oltre che l’occasione in cui si manifesta il distacco dallo strutturalismo althusseriano (ho cercato di argomentare questa lettura, in modo più completo, in Lo scandalo dell’eguaglianza. Alcuni appunti sull’itinerario teorico di Jacques Rancière, in «Filosofia politica», n. 3, 2011). E proprio le caratteristiche di questa genesi finiscono con l’imprimere alla riflessione di Rancière una curvatura specifica: una curvatura che tende a ritrovare proprio nella dimensione della ‘rottura’ il dato qualificante, e irriducibile, della politica. In seguito all’enfasi sulla dimensione ‘evenemenziale’, anche nel discorso di Rancière la rottura dell’ordine simbolico e dunque la stessa immagine della politica vengono però legate all’espressione di un soggetto – o, meglio, di una soggettivazione – del tutto evanescente: a una soggettivazione che non solo non appare radicata nella strutturazione storica, materiale, di un soggetto concreto, ma che non appare neppure in grado di incidere in modo duraturo sulle relazioni di potere, dal momento che – ricostruendo il discorso di Rancière – pare proprio che essa debba svanire improvvisamente così come è comparsa.
Naturalmente, una simile impostazione produce molte conseguenze, e – insieme ai molti meriti – porta con sé anche una serie di limiti. Uno di questi risiede nella difficoltà – si potrebbe dire, anzi, nel disinteresse – a indagare realmente le relazioni di potere. Per quanto le riserve di Rancière nei confronti delle diverse riflessioni sulla biopolitica e sul biopotere (di cui sono indicative le critiche ad Hardt e Negri e ad Agamben) presentino più di qualche elemento convincente, il suo ragionamento non riesce però a dissolvere interamente la sensazione che la ferma opposizione a qualsiasi determinismo tenda a risolversi in un vuoto di determinazione materiale. In altre parole, non riescono a dissolvere l’impressione che la distinzione tra polizia e politica – nel momento in cui scinde l’esercizio del potere che proviene ‘dall’alto’, dall’insorgenza della contestazione ‘dal basso’ – finisca col dipingere i concreti soggetti politici come soggetti privi di storia e di strutturazione interna. Da questo punto di vista, la distinzione introdotta da Rancière, se da un lato coglie certo un’ambivalenza cruciale dentro la polisemia del termine «politica», dall’altro sembra assegnare alla politica posta in essere dalla soggettivazione una sorta di ‘verginità’. Una verginità che non significa soltanto che si tratta si soggetti ‘nuovi’, senza storia, che in precedenza non erano presenti sulla scena, ma che configura quei soggetti anche come del tutto privi di quelle ‘incrostazioni’ che caratterizzano la polizia: ossia, una strutturazione interna, linee gerarchiche, una divisione del lavoro, oltre che – ovviamente – principi che stabiliscono un ordine, concettualmente non differente da quello che sostiene l’attività di governo della polizia. Ma, dato che i soggetti evocati da Rancière sono privi di strutturazione, dato che sono privi di identità consolidate, dato che la loro unica manifestazione è l’irruzione improvvisa sul proscenio della continuità storica, allora è anche scontato a Rancière sfuggano i meccanismi di quella lotta sotterranea che i soggetti conducono al di sotto della ribalta strettamente politica, e di quella lotta che avviene talvolta persino dentro i soggetti. È allora scontato – o quantomeno comprensibile – che Rancière si disinteressi della dinamica conflittuale che – oltre l’evento – si produce dentro la continuità storica. Ma l’effetto inevitabile è che, in questo modo, Rancière non è in grado di cogliere effettivamente né la novità della biopolitica, né la trasformazione delle tecnologie del biopotere, né il fatto che i conflitti contemporanei non possono che prendere corpo – seppur in modo certo non deterministico – proprio dentro i reticoli della produzione biopolitica. E non è neppure in grado di riconoscere che, probabilmente, per comprendere realmente le radici del contemporaneo «odio per la democrazia», per ricostruire davvero la fisionomia dei processi di soggettivazione (reali o potenziali che siano), è indispensabile scavare proprio al di sotto del palcoscenico in cui si gioca il quotidiano spettacolo politico. Perché è al di sotto di quella superficie – dentro la trama delle relazioni di potere di cui la società postmoderna risulta intessuta – che prendono forma i nuovi processi di soggettivazione. Processi che – oggi come ieri, ma forse più ancora di ieri – richiedono la formazione di simboli, repertori d’azione e nuovi immaginari. E che proprio per questo procedono problematicamente, lentamente, seguendo spesso percorsi intricati.
Damiano Palano