martedì 31 gennaio 2012

L’ultimo eroe. La psicologia della corruzione parlamentare (a partire da alcuni vecchi romanzi). Sul numero 1/2011 del "Giornale di Storia Costituzionale"



Esce in questi giorni il numero 1/2011 del "Giornale di storia costituzionale".
Nella rubrica testi&pretesti, è ospitata una rilettura di alcuni vecchi 'romanzi parlamentari'.



Abstract
The last hero. The psychology of parliamentary corruption in Gerolamo Rovetta’s pages
by Damiano Palano

In this article, the author examines the representations of parliamentary corruption provided by Italian novels in late Nineteenth and early Twentieth Century. The starting point is a reading of Gerolamo Rovetta’s novel, La moglie di Sua Eccellenza. The protagonist of this novel is a senior Minister of Northern Italy, who becomes a victim of the ambitious young wife, which is a member of the decadent aristocracy of the Southern Italy. The author of this article argues that the analogy between the Deputy Chamber and the ‘Femal’ is a constant element in the 'parliamentary novels' of D'Annunzio, Fogazzaro, Pirandello, Serao, and especially Emile Zola. This analogy was very suggestive, and had a great fortune, but it’s also rather ambiguous. Implicitly, it suggests a misleading explanation of corruption, because it seeks the causes of political corruption not in the social structure of Italian patronage, but in the psychological dynamics of Deputy Chamber.


L’ultimo eroe.
La psicologia della corruzione parlamentare nelle pagine di Gerolamo Rovetta.
di Damiano Palano

In questo articolo, l’autore esamina le rappresentazioni della corruzione parlamentare fornite dai romanzi italiani della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Il punto di partenza dell’analisi è, in particolare, una rilettura delle pagine del romanzo di Gerolamo Rovetta La moglie di sua Eccellenza. Il protagonista della storia è un anziano uomo politico dell’Italia settentrionale, che diventa la vittima delle ambizioni della giovanissima moglie, una esponente della decadente aristocrazia del Sud. L’autore dell’articolo sostiene che l’analogia fra la psicologia della Camera dei Deputati e la psicologia della donna è un elemento comune ai ‘romanzi parlamentari’ di D’Annunzio, Fogazzaro, Pirandello, Matilde Serao , e soprattutto di Emile Zola. Questa analogia è molto suggestiva, e ha avuto una grande fortuna anche in seguito, ma è anche piuttosto ambigua. Implicitamente, essa suggerisce una spiegazione fuorviante della corruzione, perché cerca le sue cause nella dinamica psicologica della Camera, e non nella struttura sociale e politica del clientelismo italiano.


venerdì 27 gennaio 2012

A breve in libreria un libro "a partire dalla crisi contemporanea" curato da Alessandro Simoncini e tratto dalla prima edizione di "AltreMenti" Festival

 

Dal Blog di AltreMenti Festival

http://www.altrementifestival.org/

A breve in libreria il libro tratto da AltreMenti festival

Già, proprio così: a distanza di due anni dalla prima edizione di AltreMenti festival, nei prossimi mesi -forse in tempo utile per metterlo in vendita durante il festival di marzo- farà la sua comparsa il testo dal titolo Una rivoluzione dall’alto.  A partire dalla crisi globale.Il testo, curato dal Professor. Alessandro Simoncini ed edito da Mimesis, è stato ideato a partire da quattro interventi del primo AltreMenti festival: quelli di Roberto Esposito (dal titolo “La crisi immunitaria della società globale”), Sandro Mezzadra (“Nella crisi del lessico politico moderno”), Anselm Jappe (“Crisi finanziaria, cirisi economica o crisi del capitalismo?”) e Alex Foti (“La grande recessione, la grande biforcazione”).
A partire da queste riflessioni, che danno l’avvio alle due parti in cui è suddiviso il libro (“Sul concetto di crisi” e “Una crisi del capitalismo”), sono state aggiunte un’introduzione del curatore Alessandro Simoncini (“Rivoluzione dall’alto. Crisi, neoliberismo, governo”) e interventi di Massimiliano Tomba (“Immagini della crisi e tempo storico. A partire dalla Marx renaissence”), Franco Berardi Bifo (“Sciame/interruzione”), Riccardo Bellofiore, Aldo Pardi (“Apocalissi mancate. Del mito della crisi e dei suoi paradossi”), Damiano Palano (“Capitalismo, crisi e democrazia. Appunti sulla distruzione creatrice contemporanea”) e una postfazione di Gianluca Bonaiuti.
La versione originale degli interventi dei nostri quattro ospiti del 2010, che ha dato avvio al libro, è ascoltabile sul sito Don Chisciotte.
Chi volesse prenotare una copia del libro può inviarvi una mail all’indirizzo
info@associazionedonchisciotte.org con oggetto “prenotazione Una rivoluzione dall’alto”.
Un grande ringraziamento va a Alessandro Simoncini, che con questo libro dà ancora più peso al nostro sforzo organizzativo.


 


lunedì 23 gennaio 2012

L'eterno revival. Il mondo impolitico di Walter Veltroni




di Damiano Palano

Quando «l’Unità» decise di distribuire come allegato al giornale la fedele riproduzione dei vecchi album di figurine Panini, alcuni degli storici lettori del quotidiano rimasero disorientati, se non addirittura indispettiti. Una simile scelta, però, non era soltanto l’ennesima tappa della guerra degli inserti, che i quotidiani italiani avevano da poco iniziato a combattere per arginare l’emorragia di copie vendute. E non era neppure una trovata occasionale per rilanciare un giornale schiacciato dal peso di una spaventosa situazione di bilancio. Da quella scelta trapelavano infatti una specifica visione del mondo e i tratti di una vera e propria politica culturale. Allegare al giornale fondato da Antonio Gramsci gli album Panini, con le figurine dei calciatori degli anni Sessanta e Settanta, significava aprire quello che era stato un simbolo del Partito comunista italiano alla cultura ‘pop’, alla cultura dei beni di consumo di massa. E significava, dunque, rompere con alcune vecchie convinzioni della cultura di sinistra: sia con l’idea ‘alta’ della cultura popolare come espressione autonoma dei ceti subalterni, sia con la concezione della cultura come esito di una lotta fra gruppi per la conquista dell’egemonia nella società.
D’altronde, quella scelta editoriale esprimeva in modo paradigmatico la sensibilità estetica del nuovo direttore del giornale, Walter Veltroni. Una sensibilità di cui i più attenti lettori dei suoi saggi sugli anni Sessanta e delle sue rubriche cinematografiche avevano già iniziato a decifrare da alcuni anni le principali coordinate, ma che sarebbe riaffiorata pienamente nella produzione narrativa di Veltroni, in particolare nei due best seller La scoperta dell’alba Noi. Ora quella stessa sensibilità emerge anche nell’ultima fatica letteraria di Veltroni, L’inizio del buio (Rizzoli, 2011)un libro che segue in parallelo il rapimento di Roberto Peci, da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la tragedia di Vermicino, di cui fu protagonista il piccolo Alfredino Rampi. Per molti versi, L’inizio del buio si colloca all’interno di uno dei filoni più frequentati da Veltroni, in cui la biografia romanzata di personaggi esemplari diventa l’occasione per raccontare – in modo ovviamente personale – una porzione della storia recente. Ed è infatti proprio in questo filone che – a parte i due romanzi citati, i racconti di Senza Patricio (Rizzoli, 2004), il monologo poetico Quando cade l’acrobata, entrano i clown (Einaudi, 2010) – si inseriscono anche le biografie di Berlinguer (La sfida interrotta, Baldini & Castoldi, 1995), di Robert Kennedy (Il sogno spezzato, Baldini & Castoldi, 1993), di Luca Flores (Il disco del mondo, Rizzoli 2007), episodi di un’instancabile attività di poligrafo, di cui possono essere ricordati – oltre a una serie imprecisata di prefazioni – anche testi come Il sogno degli anni ’60 (Savelli, 1981), Il calcio è una scienza da amare (Savelli, 1982), Io e Berlusconi (e la Rai) (Editori Riuniti, 1990), I programmi che hanno cambiato l’Italia (Feltrinelli, 1992), Certi piccoli amori (Sperling & Kupfer, 1994, raccolta delle sue memorabili recensioni cinematografiche sul «Venerdì» di «Repubblica»), Certi piccoli amori 2 (Sperling & Kupfer, 1997), La bella politica (Rizzoli, 1995), Forse Dio è malato. Diario di un viaggio africano (Rizzoli, 2000), Che cos’è la politica (Rizzoli, 2007), La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi (Rizzoli, 2007).
In molti si sono interrogati sulla prolificità di Veltroni come scrittore, oltre che sulle ambizioni che spingono un navigato uomo politico a sperimentare quasi ogni genere letterario. Ovviamente, non si tratta del primo leader di partito che punta a darsi una veste intellettuale e a firmare libri in prima persona, e, d’altronde, all’interno del partito da cui Veltroni proviene, un’adeguata riflessione culturale rappresentava un bagaglio pressoché indispensabile per raggiungere una posizione di rilievo. Anche di recente, importanti esponenti della sinistra italiana hanno consegnato le loro riflessioni alle dense pagine di autobiografie spesso ricche di spunti importanti, soprattutto per chi intende riflettere sull’auto rappresentazione del ‘militante’ novecentesco (o almeno di una sua frazione significativa), ed esempi di questa memorialistica sono offerti da volumi, a loro modo importanti, come La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda (Einaudi), Volevo la luna di Pietro Ingrao (Einaudi), Il sarto di Ulm di Lucio Magri (il Saggiatore). Ma anche questa auto rappresentazione subisce trasformazioni nel corso del tempo, e non può che riflettere il mutamento del clima politico, oltre che – probabilmente – lo scadimento culturale delle leadership contemporanee. E proprio la scelta della narrativa, rispetto all’autobiografia, costituisce un buon indice di una simile trasformazione.
Per lungo tempo, l’immagine del militante – e del dirigente comunista – fu segnata dall’abnegazione nei confronti di una causa sostenuta con rigore, dalla tenacia anche dinanzi alle prove più dure della storia, dall’adesione alla ferrea disciplina di partito (anche a dispetto di contrasti più o meno visibili), ma le cose mutarono notevolmente già nel corso degli anni Settanta, in coincidenza con la segreteria di Berlinguer. «Tra i comunisti italiani», ha scritto a questo proposito Giovanni De Luna, «questo tipo di auto rappresentazione cominciò a incrinarsi nella seconda metà degli anni 70, con i libri di Giovanni Amendola (Un’isola e Una scelta di vita) e i loro toni a volte elegiaci, a volte epici. Poi, alla fine degli anni 80, quando il Pci si schiantò contro il muro della Storia (quella drammaticamente concreta delle macerie berlinesi), i prodromi intravisti in Amendola diventarono una valanga. La memoria dei dirigenti comunisti implose su se stessa, i ‘monumenti’ si sgretolarono lasciando affiorare un nuovo registro narrativo, racconti intimistici, rinchiusi in un recinto privato, in cui alla fine (come nel caso dei primi due segretari del Pd, Veltroni e Franceschini) sembra che i romanzi stiano scalzando lo stesso modello autobiografico» (G. De Luna, La sinistra unita al muro del pianto, in «TuttoLibri-La Stampa», 16 maggio 2009, p. VIII).
Se l’impegno narrativo di Franceschini, cui allude De Luna, può essere considerato come il segno di un mutamento culturale, è piuttosto evidente che il caso di Veltroni – per la massa quantitativa dei suoi scritti, e per la ricerca di una specifica cifra stilistica, che accomuna tutta la sua intera produzione – ha una rilevanza assai superiore. A ben guardare, d’altro canto, in tutte le operazioni più strettamente ‘culturali’ avviate da Veltroni – dalle figurine Panini, alle recensioni cinematografiche, dalla storia di Alfredino Rampi fino alla produzione più spiccatamente narrativa – si intravede chiaramente quella stessa cifra stilistica che emerge dall’attività politica dell’ex leader del Pd e dal suo tentativo di costruire un nuovo immaginario per la sinistra italiana: un immaginario che sia in grado di confrontarsi con la trasformazione dei linguaggi della politica e con la fine delle ideologie, ma al tempo stesso di tenere insieme il magmatico, lacerato, disperso popolo degli elettori di sinistra. È così probabilmente a questo immaginario – alle sue modalità di costruzione, ma anche alle sue tappe di sedimentazione nel sentire comune – che è opportuno guardare, per comprendere davvero le motivazioni che stanno alla base della decadenza italiana (una decadenza che viene prima, non solo logicamente, rispetto alla decadenza della politica italiana).
Da questo punto di vista, il primo romanzo di Veltroni, La scoperta dell’alba, restituisce nel modo migliore il paradigma di un atteggiamento emotivo, culturale e politico nei confronti della Storia e del mondo. In quel libro, l’archivista Giovanni Astengo ha una famiglia felice, una moglie con una carriera avviata e due figli amatissimi. Ma qualcosa minaccia la felicità di Astengo, una «paura» indeterminata, generica, che affiora già in un dialogo – a suo modo formidabile – fra il protagonista e il figlio, che, nella sua grottesca solennità, mostra già come le ambizioni letterarie di Veltroni si combinino tanto con l’abuso insistito del luogo comune, quanto con una strabiliante ingenuità stilistica:

«Sai, papà, ho visto una foto di tutti voi il giorno dell’inaugurazione della casa di campagna. I grandi sembrano di un altro tempo se li confronti con le foto della festa per la mia nascita, meno di vent’anni dopo. Vestiti diversi, occhiali diversi, capelli diversi. Come se la società fosse andata veloce, così come era andata veloce dal dopoguerra al Sessantotto. Correvate, correvano. E il vento si vedeva nei vostri capelli, nei costri vestiti. Invece se vi guardo oggi e vi confronto con una foto alla metà degli anni Ottanta mi sembra che voi grandi siate uguali. Avete più tecnologie ma il vostro linguaggio, quello dei vostri vestiti e dei vostri atteggiamenti, persino dei vostri corpi, indica un rallentamento. Le cose sono cambiate poco. D’altra parte, quasi trent’anni dopo, che cosa ne è della luna, dello spazio, dell’uomo che conquistava nuove frontiere? Siamo in una simulazione virtuale, papà. Come quelle di Disneyland. Siamo convinti di andare a velocità supersonica ma siamo fermi. E alla porta delle nostre case bussano le epidemie dei polli. E ci mettono paura».
«È la paura, Lorenzo, che domina la nostra vita. Paura degli attentati, paura delle malattie, paura della natura. Paure dovunque. Anche piccole. Paura che avendo messo tutta la vita nella memoria di un computer un virus, stavolta telematico, ce la consumi lasciandoci vuoti, nudi, senza tracce. E una sensazione di oppressione, di controllo. Qualcuno può sapere che spese abbiamo fatto, le malattie che abbiamo, può leggere le nostre e-mail, può sapere dove siamo grazie al cellulare. Siamo tutti registrati alla locanda della paura» (pp. 40-41).

Se questo dialogo contiene – con i suoi limiti e soprattutto la sua enfasi sovrabbondante – tutto il mondo di Veltroni, le matrici divengono ancora più esplicite quando riaffiora il trauma non rimarginato che lacera la memoria di Astengo: la scomparsa del padre, un professore universitario di Architettura, avvenuta circa trent’anni prima e rimasta senza spiegazione. In un giorno d’estate, Astengo ritorna nel casale di campagna della sua famiglia, abbandonato da anni, e diventa ben presto chiaro che quella gita è destinata a trasformarsi in un viaggio nella memoria. L’archivista ritorna infatti nei luoghi di un’infanzia felice e ritrova l’albero in cui lo zio – gita dopo gita – segnava la misura della sua crescita. E quando Astengo riconosce l’albero, il lettore non può certo non cogliere quali siano le date della prima e dell’ultima misura:

«Un passo, una sosta. Mentre i flash della memoria mi inebetivano e mi sentivo, insieme, bambino e vecchio. Eccolo l’albero. Era sulla sinistra della casa. I rami, un’infinità, sembrava lo piegassero. Ed era, come tutto, assai più piccolo di quanto la mia memoria ricordasse. Trovai le iscrizioni, ancora leggibili. Cominciavano dal marzo del 1968, quando avevo quattro anni e finivano, nel febbraio del 1977. Un mese prima. E l’albero, in fondo, aveva ragione. Anche la mia normale crescita si era fermata lì, e quel segno sull’albero indicava l’ultima nostra visita, tutti insieme, alla ‘casa del sertão’» (p. 52).

La prima data si riferisce al momento in cui la casa viene inaugurata, mentre la seconda è quella dell’ultima gita, precedente di un mese la scomparsa del padre di Astengo, il quale, improvvisamente, in un giorno di marzo, non torna più a casa, senza dare alcuna notizia alla famiglia. Ma, ovviamente, come il lettore intuisce, quelle due date indicano anche altro. Benché le agitazioni studentesche e le occupazioni di sedi universitarie abbiano già iniziato a prendere piede nell’autunno del 1967, nel mese di marzo del 1968 gli scontri fra studenti e polizia a Valle Giulia, sede della Facoltà romana di Architettura, fanno scoprire alla stampa nazionale quello che sarebbe poi divenuto il «Sessantotto». Nel febbraio del 1977, invece, si consuma la parabola del movimento del «Settantasette», che vede l’episodio culminante – almeno sotto il profilo mediatico – nella contestazione del comizio di Luciano Lama alla Sapienza. La coincidenza delle date non è ovviamente casuale, ma il mistero che si cela dietro questa corrispondenza fra biografia individuale e storia politica è destinato a svelarsi gradualmente. La vicenda compie un passaggio cruciale quando Astengo – con un’invenzione memorabile di Veltroni – impugna un vecchio telefono di bachelite e compone il numero della propria casa di trent’anni prima. Naturalmente, per una sorta di incantesimo, alla chiamata risponde la voce di un ragazzino di dodici o tredici anni, che non è altri che lo stesso Astengo, ma l’Astengo di trent’anni prima, e per la precisione dei primi mesi del 1977. Così, l’archivista ha l’occasione per tornare a quei giorni, e per capire finalmente perché suo padre sia scomparso da casa. Incomincia così una sorta di indagine, che si protrae per diversi giorni e che lo conduce a una scoperta sconvolgente. Il padre non scompare casualmente il 12 marzo del 1977, proprio nel giorno in cui a Roma, sotto una pioggia battente, si svolge il corteo di protesta per la morte dello studente bolognese Francesco Lorusso. Astengo scopre infatti che il padre ha ispirato un attentato mortale contro il Preside della Facoltà di Architettura, in passato suo amico ma diventato in seguito acerrimo rivale accademico. Il padre è in rapporto con una cellula terroristica, che ha organizzato e realizzato l’attentato al Preside, ma le sue motivazioni – scopre Astengo – sono esclusivamente personali, legate a pure rivalità professionali, e non hanno nulla di politico. Una volta scoperta la cellula terroristica, nel timore di essere coinvolto, il vecchio Astengo fugge, senza lasciare tracce e senza fornire alcuna spiegazione neppure alla famiglia. 
Il viaggio di Veltroni-Astengo dentro la memo-ria si conclude con questa scoperta, e il trauma così sembra risolversi. Come dice il protagonista nelle ultime pagine: «Ora so. Ora il mosaico può ricom-porsi. Ora tutto quello che mi volava dentro, fram-mentato e puntuto, raggiunge il fondo, come un di-luvio di petali di fiori neri. Non mi importa ciò che so, che mi fa orrore e miseria. Mi importa di sapere, mi importa di aver visto la luce» (p. 149). Ma, in realtà, non è significativa tanto la composizione del mosaico, quanto la modalità stessa con cui quel mo-saico viene composto, e con cui i frammenti di una memoria incompleta, lacerata, vengono rimessi in ordine.
Christian Raimo, in un breve ma denso articolo apparso su «alfalibri», si è interrogato sulle motiva-zioni che alimentano la bulimia poligrafica dell’ex leader del Pd, e ne ha fornito una spiegazione estremamente interessante, suggerita proprio dall’Inizio del buio (o, meglio, dalle sue prime pa-gine). Prima di giungere alla soluzione, Raimo si era chiesto più volte quali fossero i moventi che stavano dietro l’attività letteraria di Veltroni, e soprattutto dietro quell’insistenza così maniacale per personaggi – veri o immaginari – segnati da una fi-ne improvvisa o da esperienze traumatiche: «Perché Veltroni aveva bisogno di scrivere? Perché aveva bisogno di mettere in fila tutti quei morti: i desapa-recidos, i morti dell’Heysel, Bob Kennedy, Berlinguer, Luca Flores, i morti degli anni di piombo e ora, nell’ultimo uscito, Alfredino Rampi e Roberto Peci?». Raimo ritiene che la risposta dell’insistenza di Veltroni su tanti drammi, su tante morti, vada rinvenuta in un tratto psicologico, che diventa però qualcosa di più: «Questa sua insistenza sulle trage-die non porta mai a nessuna elaborazione. Nella sua visione del mondo, il male non ha senso (non tollera alcuna spiegazione politica, sociale, di teodicea, di psicologia sociale). Il male arriva e le persone ne sono in balia. Il buonismo è una sorta di utopia leibniziana, quella di vivere nel meno peggiore dei mondi possibile. Un’altra conclusione è che nella sua visione non si distingue l’elemento immaginario da quello reale. Il continuo ricorso a una narrazione ipotetica, il prevalere di una memoria emotiva sulla ricostruzione storica, definiscono una visione in-fantile, priva di quel principio di realtà, che seppure permette di salvare un bambino dalla violenza del reale quando si manifesta, rischia per un adulto di trasformarsi in una prigione mentale, in un sogno nostalgico in cui appunto non c’è differenza tra i propri desideri e quelli degli altri» (C. Raimo, Il dolore non è un ciao. Walter, perché scrivi?, in «al-falibri», ottobre 2011, p. 7).
Per quanto solo accennata, la chiave di lettura indicata da Raimo apre una prospettiva estrema-mente efficace non soltanto per comprendere il fenomeno di quella sorta di eterno e goffo Peter Pan, che ormai da due decenni è un protagonista fisso del teatrino politico italiano, oltre che uno dei più note-voli esemplari dell’esposizione teratologica che è divenuto il nostro Parlamento. La chiave di lettura indicata da Raimo – nel momento in cui riesce a portare alla luce il ‘trauma’ originario alla base di tutta la ‘poetica’ veltroniana – è forse in grado anche di aiutare a comprendere i motivi del successo di un politico ‘senza qualità’ e senza carisma, che, nonostante tutto, è riuscito a rimanere in sella per decenni, passando peraltro indenne da tutte le catastrofi di cui è stato spesso diretto protagonista e artefice. L’idea suggerita da Raimo riesce infatti anche a illuminare qualcosa che va ben al di là del ‘fenomeno Veltroni’, qualcosa che appartiene allo Zeitgeist, al nostro modo di intendere la Storia e i suoi drammi, e dunque (inevitabilmente) anche la Politica.
 Non è d’altronde certo casuale che l’infanzia di Astengo – o almeno la sua infanzia felice – si svolga nel periodo che va dal 1968 al 1977. Non è casuale che la brusca interruzione di quella fase sia segnata dall’irruzione del terrorismo. E, infine, non è neppure casuale che proprio in quel momento emerga una fatale lacerazione col Padre, il quale – proprio in quelle drammatiche giornate di marzo – si rivela molto diverso da come era stato immaginato fino a quel momento. Nella vicenda di Astengo, si può infatti leggere in filigrana la stessa biografia intellettuale e politica di Veltroni, il rim-pianto nostalgico verso un’infanzia ‘leggera’, bruscamente interrotta non soltanto dal dramma del terrorismo e degli ‘anni di piombo’, ma soprattutto dalle conseguenze che ne derivano: la scoperta della vera identità del padre è infatti la scoperta che ciò che viene imputato alla follia dei terroristi non è qualcosa di interamente estraneo, ma è davvero un elemento che è possibile ritrovare nell’«album di famiglia»; è cioè un elemento incardinato in profondità nella storia del movimento dei lavoratori, nella storia del socialismo e – va da sé – nella stessa identità del Partito comunista italiano. Ma la scoperta di quella ‘parte maledetta’ è un trauma che, in realtà, non viene mai interamente superato. È un trauma che costringe Astengo/Veltroni in una con-dizione di perenne infantilismo, in una condizione in cui il dolore, le lacerazioni, le violenze diventano di fatto spiegabili solo all’interno di un mondo in cui non si muovono forze storiche, politiche, reali, ma solo forze prive di storicità, prive di tragicità, esclusivamente ‘morali’, che si muovono dentro la dicotomia di bene e male, di giusto e ingiusto, di felicità e dolore. Tanto Astengo quanto Veltroni si muovono infatti in un mondo simbolico infantile e ‘destoricizzato’, un mondo in cui la violenza non ha senso, in cui la complessità della Storia si trasforma nella ricerca infantile di una felicità intesa come il regno dei piccoli piaceri e dell’assenza di sofferenze. In questo mondo infantile, la politica non può che perdere del tutto la propria componente ‘tragica’ e diventare soltanto la speranza di una possibile ‘felicità’, mentre i progetti politici sono sostituiti dai buoni sentimenti e il miraggio di una trasformazione sociale – più o meno radicale – lascia il posto al revival. 
Per molti versi, è infatti proprio il revival, il rimpianto nostalgico di un passato de-storicizzato, il motivo che accomuna l’intera produzione del politico romano. Tutti i libri di Veltroni sono ricchi, addirittura strabordanti (in modo spesso fastidioso), di riferimenti a libri, film, canzoni, lasciati cadere sulla pagina con noncuranza, eppure non senza ag-gettivazioni invariabilmente entusiastiche (perché i libri sono sempre ‘formidabili’ e i film ‘grandiosi’). Ma tutti questi riferimenti sono effettivamente affastellati l’uno sull’altro, come frammenti di una me-moria in cui non esistono un ‘prima’ e un ‘dopo’, in cui tutto è collocato in un flusso costante, in cui non si cresce mai realmente e si resta sempre in una condizione emotiva di nostalgia. Da questo punto di vista, alcuni passaggi di Noi – l’ambizioso romanzo con cui Veltroni, ponendosi nel solco del Thomas Mann dei Buddenbrook, del Federico de Roberto dei Viceré, del Tomasi di Lampedusa del Gattopardo, ha ripercorso la storia della famiglia Noi (sic) lungo alcuni passaggi della seconda metà del Novecento (l’estate del 1943, la primavera del 1963, l’autunno del 1980) – restituiscono forse nel modo più chiaro il ruolo cui assolve il revival all’interno del meccanismo veltroniano della memoria. Non si tratta infatti soltanto di un elemento della caratterizzazione storica, di cui lo scrittore si serve per ricrea-re un ambiente, un’epoca, un clima emotivo. Nel mondo di Veltroni, il revival equivale all’immersione in una sorta di fluido amniotico in cui è possibile trovare riparo dall’incombenza del trauma. È il rifugio da un mondo ostile, dalla tragedia, dalla violenza. E non è certo casuale che la memoria sia sempre – o in modo privilegiato – la memoria dell’infanzia, come nel caso del tredicenne Astengo. 
Anche i protagonisti di Noi sono infatti quattro ragazzi: il quattordicenne Giovanni, che assiste alla caduta del fascismo, al bombardamento di Roma, alla deportazione degli ebrei; il tredicenne Andrea, che nel 1963 attraversa l’Italia in compagnia del padre; l’undicenne Luca, che nell’Italia cupa del terrorismo, fissa le conversazioni domestiche su un registratore a cassette; l’adolescente Nina, che nel 2025, guarda alla storia della sua famiglia. L’appassionato cultore del trash contemporaneo potrebbe trovare nelle pagine di Noi delle autentiche perle, ma anche al più distratto lettore non può sfuggire l’insistenza con cui Veltroni riempie la scena di oggetti, di sequenze film, di brani musicali, di fotografie. Perché di fatto, in questo romanzo, del tutto privo di una storia, l’ordito narrativo è costituito semplicemente dal gusto esibito del revival, dalla rievocazione di un clima mediante la manipolazione di oggetti di consumo. Tutti i prodotti che Veltroni chiama in causa non sono infatti evocati per il loro significato, per il loro reale valore. Compaiono per un attimo, solo come ‘oggetti di consumo’, solo come tasselli della cultura di massa, se-dimentati nella memoria di ciascun individuo. E, considerati sempre nello strato più superficiale, rimangono solo frammenti fuggevoli, privi di una reale profondità.
Forse il più emblematico dei quadri di Noi rimane quello del 1980, perché si tratta del periodo simbolicamente più rilevante per Veltroni, quello in cui, definitivamente perdute le speranze del boom, si consuma il dramma del terrorismo. Con gli occhi del piccolo Luca, si assiste agli scontri fra i due ge-nitori, che rappresentano in sostanza le due anime dei giovani degli anni Settanta: da un lato, quelli che guardano con partecipazione e sconforto alla crisi della sinistra extra-parlamentare, e, dall’altro, quelli che si gettano con entusiasmo nel ‘nuovo che avanza’. I dialoghi fra i due – che, prevedibilmente si svolgono non a Roma, ma a Milano – dovrebbero restituire così il dissidio fra l’Italia degli anni Set-tanta e gli anni Ottanta, ma, al di là di questo, l’impasto di retorica e trivialità che li caratterizza riesce a fornire la migliore esemplificazione dello stile veltroniano. Alla moglie che lo accusava di perdere tempo a rincorrere i sogni spezzati della giovinezza, il padre – che è Andrea Noi, il protago-nista del quadro precedente, ormai adulto – rispon-de:

«Vuoi dire che sono un fallito? O che hanno fallito le nostre idee? Sono due cose diverse, se permetti. E comunque erano anche le tue idee. Non scordartelo. Stasera sei stata dura e sincera, meglio così. Ma ora ti posso dire la mia. Anche tu stai parlando di te stessa. Io forse sarò rimasto troppo uguale ma tu ti sei trasformata troppo. Ti ricordi C’eravamo tanto amati?. “Volevamo cambiare il mondo e il mondo ha cambiato noi”. Che ti è successo? Noi vorremmo forse ritrovare il passato ma tu invece sembri la nemica della tua giovinezza, sembra che usi argomenti per giustificare la rinuncia a quei sogni e a quei pensieri. Come se volessi dire a te stessa che sei un’altra persona. E forse questo ti fa odiare tutto quello che ha popolato finora la tua vita, me compreso.
È vero, porti a casa più soldi tu di me. In fondo, però, questo è anche uno dei grandi meriti di quelle idee che oggi ti fanno ribrezzo. Prima non sarebbe successo. Tu sei una donna in carriera e io un idealista che usa il gettone del telefono. E se fosse questo il Sessantotto, per tutti? Tutti sputano su quella data e quello che è stato, ma ciascuno ha goduto della rivoluzione che ha prodotto nei costumi. In politica uno schifo, ma quanto a libertà personali, un tripudio. Tu ti occupi di pubblicità, ma lo puoi fare perché non si va più a letto dopo Carosello. Perché è cambiato il modo di vivere, di consumare, sono cambiate le ambizioni. Questa tua nuova televisione, la neonata di questi giorni, che per te sembra quasi contare più di Luca… […] questa tua nuova televisione, è anche lei il prodotto del Sessantotto, pure se è fatta dai nuovi ricchi. La tua carriera di esperta di marketing è diventata l’unica ragione della tua vita. Non credo siano i soldi, credo sia la magica eccitazione che dà il potere, l’adrenalina che evidentemente si sprigiona quando si ottiene una promozione o quando un tuo collega inciampa» (W. Veltroni, Noi, Rizzoli, Milano, 2009, pp. 217-218).

Se simili dialoghi, al di là delle peculiarità stilistiche di Veltroni, non fanno altro che riprendere i motivi obbligati di una certa cinematografia intimista, che fra anni Ottanta e Novanta, divenne l’unica alternativa ai prodotti dei fratelli Vanzina e di Neri Parenti, è ancora più importante il modo con cui il presente si riflette negli occhi di Luca. E, da questo punto di vista, è davvero paradigmatico un passaggio in cui Luca e il padre, un sabato pomeriggio, sono in un ristorante dove hanno da poco finito di mangiare e stanno per andare al cinema:

«Mentre stava per cominciare, Luca estrasse dalla tasca il cubo di Rubik. Lo prese tra le mani, con il desiderio di far coincidere due cose belle: il racconto del padre e il gioco che gli aveva regalato lo zio. D’altra parte faceva così nei suoi momenti preferiti. Quando vedevano le partite della nazionale, quelle sì in diretta anche se con l’esclusione della zona nella quale si giocava, Luca si riforniva di ogni ben di Dio. Gli immancabili Urrà Saiwa, in quantità industriale, i Flipper all’arancio, i biscotti Trésor e Togo e soprattutto una intera divisione di Carrarmato Perugina, preferibilmente al latte, e Ciocorì a volontà. Vedere la partita o un film o leggere un fumetto era per Luca, senza discussione, il modo migliore di pensare che la vita è bella. 
In quel ristorante, mentre i camerieri sollevavano le sedie sui tavoli a gambe per aria, lui ora si sentiva felice. Aveva il cubo di Rubik da girare e rigirare, dello zucchero in bustine da far scivolare nella bocca e suo padre che stava per raccontare le sue gesta. Tra venti minuti, un film. Si poteva sperare di più? Sì, pensò, sapendo chi gli mancava. Ma allontanò da sé il pensiero, perché voleva godersi quell’istante di felicità» (ibi, p. 261).

È quasi scontato ritrovare in questi passi di Veltroni un tentativo di ‘civettare’ con uno dei passi più noti della Recherche proustiana, quello in cui, proprio nelle pagine iniziale, viene evocato il ricordo della madelaine (con gli allusivi e ambigui significati che ad esse sono associati), e in effetti, anche in questo caso, a dispetto dell’inevitabile scarto stilistico, i dolciumi – ingurgitati in modo quasi bulimico da Luca – a fissare i contorni di un rifugio infantile. Ma, ovviamente, quei particolari dolciumi – richiamati con l’ossessiva esibizione della marca – sono anche il riflesso della memoria di un individuo che, prima ancora di essere un ragazzino con proprie passioni e propri problemi, è un consumatore ingordo di Urrà Saiwa, di Togo e di Ciocorì. È cioè una memoria che è sempre e soltanto la memoria superficiale del revival, la memoria in cui gli stati d’animo sono legati alle merci, agli Urrà Saiwa e al cubo di Rubik. Ma è anche è una memoria che, per quanto fuggevole, frammentaria, banalizzata, fissa l’attimo di felicità del giovane consumatore, colto – satollo e soddisfatto – nella serena quiete del sabato pomeriggio. Ed è piuttosto emblematico che, al di fuori di questa felicità, il piccola Luca incontri solo il dramma della separazione fra i due genitori, la violenza del terrorismo (immancabile nelle pagine di Veltroni), a addirittura la morte di John Lennon.
L’insistenza sul revival non è d’altro canto un elemento che affiora solo nella produzione narrativa di Veltroni, perché, a ben vedere, occupa un posto chiave nella stessa formazione politico-intellettuale dell’ex sindaco di Roma. In una famosa battuta di Aprile, Nanni Moretti imputa le sconfitte del centro-sinistra alle carenze culturali del gruppo dirigente della Fgci romana, che negli anni Settanta, mentre l’Italia scendeva in piazza, si ritrovava ogni sera davanti alla tv per seguire Happy days, e cioè proprio il telefilm che – ricostruendo in una versione quantomeno edulcorata, con il giubbotto di Fonzie e i banconi di Arnold’s, l’America tra gli anni Cinquanta e Sessanta – delineò il canone del revival postmoderno. Ma, al di là della battuta di Moretti (e al di là dell’effettiva influenza di Happy Days sulla formazione veltroniana), è davvero possibile ritrovare tutto il mondo di Veltorni – seppure in nuce – proprio nell’universo simbolico della Fgci romana degli anni Settanta, allora guidata da Gianni Borgna, instancabile organizzatore di kermesse culturali e futuro storico della canzone italiana. Come ha scritto Andrea Romano a proposito della temperie che caratterizza la sezione romana della Fgci negli Settanta, in cui Veltroni si forma politicamente e in cui definisce il proprio mondo: «Vogliono ‘stare nel movimento’ non tanto per imbastire un dialogo tattico o strategico con la galassia dei gruppetti extraparlamentari, ma perché attratti dalle manifestazioni più nazionalpopolari e meno ortodosse della cultura di sinistra. E in particolare da tutto ciò che sa di anni Sessanta, il decennio che comincia proprio in quell’ambiente ad acquistare i tratti mitologici di un’età dell’oro così distante dalle cupezze di quei giorni. Quello dei figgicciotti romani dei primi anni Settanta è un movimentismo libertario che, se proprio deve schierarsi tra le correnti interne al Pci, sceglie Pietro Ingrao contro ogni moderatismo in odore di socialdemocrazia. Ma più che dalle elaborazioni ingraiane sulle masse e il potere sono affascinati da Gino Paoli e Pierpaolo Pasolini. Perché la loro ricerca li spinge verso una mescolanza di alto e basso, di sentimento popolare e cultura patrizia, nella convinzione che sia questo il binario giusto per intercettare il nuovo attivismo dei giovani romani di quegli anni» (A. Romano, Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti, Mondadori, Milano, 2007, p. 39). Da allora in avanti, Veltroni ha conservato le medesime coordinate, dilatando però fino ai suoi estremi sviluppi la vocazione al revival e facendone addirittura la base di un nuovo immaginario politico.
Per tenere il passo con l’emergere della «politica pop», Veltroni non usa infatti il repertorio usurato delle vecchie identità politiche del Novecento, con le sue bandiere e le sue sacre icone. Utilizza invece proprio il revival, l’espressione forse paradigmatica del postmoderno. Utilizza cioè la cultura di massa – le mode, la musica, il cinema, la letteratura – come materiali per dar forma a un’identità collettiva. Riutilizza la memoria del passato recente, sedimentata dai mezzi di comunicazione. Quella stessa memoria cui attinge il genere televisivo (e cinematografico) del revival, e che consente non solo di rievocare il passato grazie a frammenti musicali di canzoni dimenticate, ma anche di compiere agevolmente i più arditi salti temporali e tematici, con la finalità di ottenere la riproduzione – fulminante, ma inevitabilmente fugace – di uno stato emotivo. E, ovviamente, una memoria in cui può confluire un po’ tutto, affastellato come in un baule di ricordi d’infanzia, in cui gli oggetti sono tenuti insieme solo dai fili sottili della nostalgia. Come nelle trasmissioni televisive dedicate al revival, la memoria può così accogliere frammenti provenienti da un passato semplificato, decontestualizzato, de-storicizzato, di cui Happy days diventa effettivamente la cifra paradigmatica. E diventa possibile collocare i fratelli Kennedy esattamente accanto alle figurine Panini, ed Enrico Berlinguer vicino alle gemelle Kessler. Perché, come ha scritto Edmondo Berselli, l’immaginario veltroniano è davvero «un blob magmatico, che ingloba Salinger e Baricco, Il giovane Holden e Castelli di rabbia, uno spazio in cui si contemplano i totem della passione popolare progressista, da Bob Dylan a De André, good vibrations californiane più un tocco di nazionalpopolare, di neorealismo, di commedia all’italiana» (E. Berselli, Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica, Mondadori, Milano, 2008, p. 115).
Al di là degli esiti più che discutibili sotto il profilo estetico, sarebbe semplicistico archiviare la proposta veltroniana come una ‘trovata’ e un espediente propagandistico, o scambiare i suoi romanzi solo per i maldestri esperimenti di una sorta di novello Theodore Fontane. Dentro quella proposta – e dentro tutti i suoi limiti –  si possono infatti rinvenire molti dei tratti dalla condizione emotiva del nostro tempo. Tratti che non sono tanto le prove della decadenza dell’Italia o della crisi delle culture politiche italiane, quanto, soprattutto, i segnali di una condizione sentimentale diffusa, che traduce la prospettiva della decadenza su un piano esistenziale, prima ancora che politico. Dentro quell’immaginario – che il progetto veltroniano cerca di afferrare, e di trasformare nello strumento di una contesa elettorale –  si trova anche la cifra ‘sentimentale’ del nostro tempo. Probabilmente, il revival è davvero la più autentica espressione dello Zeitgeist contemporaneo, perché, per molti versi, traduce in modo efficace, non solo sotto il profilo estetico, quella specifica forma di nostalgia – molto diversa dalla nostalgia moderna – che cresce nella stagione della fine del «Progresso», un fenomeno che coinvolge l’intero Occidente, ma che assume in Italia un profilo specifico. 
Dopo il 1989, almeno per l’immaginario occidentale, la «Storia» si è effettivamente fermata, come voleva la contestata profezia di Fukuyama, principalmente perché si è esaurito l’immaginario – otto e novecentesco – proiettato sull’idea di una società in costante trasformazione e sul progetto di un futuro da realizzare, anche pagando il prezzo di sacrifici, conflitti, guerre. Negli ultimi vent’anni, non si è arrestata la successione degli eventi storici e dei progressi tecnologici, ma, più semplicemente, si è rapidamente logorata la vecchia fiducia nel «Progresso». Per molti versi, l’Occidente non sa infatti pensare il futuro se non nei termini di una preservazione del presente, di una dilatazione del suo benessere economico, di una conservazione delle sue forme politiche e della sua posizione internazionale. E, così, noi non riusciamo a ipotizzare scenari alternativi alla conservazione del presente, se non ricorrendo all’immaginario apocalittico o alle previsioni terrificanti di un ritorno della ‘barbarie’. Al di là delle suggestioni di un nuovo ‘Tramonto dell’Occidente’, il punto forse più significativo è però che questa trasformazione culturale precede, per molti versi, la ‘relativizzazione’ politica ed economica dell’Occidente cui stiamo assistendo in questi anni, e cui probabilmente continueremo ad assistere nei prossimi decenni. E, dunque, produce un vuoto di visione politica con cui tutti i paesi occidentali – e soprattutto quelli del Vecchio continente – devono fare i conti. Ma, pur essendo un fenomeno ampio, la crisi delle culture progressiste innesca conseguenze che diventano in Italia ancora più evidenti che in altri paesi. 
I motivi per cui la ‘fine del progresso’ produce in Italia implicazioni così forti sono molti, ma uno dei principali è probabilmente l’inesistenza di una vera e propria cultura ‘conservatrice’. In modo piuttosto evidente, la destra italiana è conservatrice (ma non totalmente) solo nei primi decenni della storia unitaria, mentre – com’è ovvio – non lo sono per nulla né le formazioni nazionaliste che prendono forma attorno al Primo conflitto mondiale, né il fascismo, prima e dopo la presa del potere. Dopo il ’45, non è propriamente ‘conservatrice’ neppure la Democrazia cristiana, che punta piuttosto a un rinnovamento radicale della società italiana e, in nome della fedeltà all’atlantismo, può rileggere anche il patriottismo in una chiave notevolmente diversa da quella di una celebrazione della nazione (resa ovviamente complicata dall’eredità fascista e dall’avventura della guerra). E, infine, non è neppure ‘conservatrice’ Forza Italia, perché punta piuttosto a dipingersi come portatrice di una radicale ‘rivoluzione’ della società italiana, capace di lacerare i vincoli burocratici e ideologici del passato, oltre che di scardinare gli antidiluviani rituali della ‘vecchia’ politica. Tutte queste forze, in modo diverso, accettano la prospettiva del ‘progresso’ e la considerano qualificante del loro progetto politico. In altri termini, tutte queste forze – certo in modo diverso – promettono un progresso allettante, segnato da una crescita dei consumi e del benessere, oltre che una ‘rottura’ con il passato, rivendicata con forza almeno sotto il profilo simbolico. Fino al 1989, quella visione del progresso trae inoltre alimento dal contrasto con il progresso promesso dai regimi del socialismo reale, che avevano invece prodotto risultati ben diversi, in termini di libertà politiche e di effettivo benessere economico. Dopo l’Ottantanove, il successo della via occidentale al benessere fa calare il sipario sul progetto di un progresso ‘alternativo’ rispetto a quello consentito dalle liberaldemocrazie capitaliste. Ma, al tempo stesso, lasciando l’Occidente privo di uno sfidante, deve anche spogliare la lotta per progresso degli abiti solenni di uno scontro epocale fra progetti politici radicalmente alternativi, trasformando il futuro in un eterno presente, e la fiducia nel progresso nella semplice speranza di una dilatazione del benessere.
Ma la fine del ‘Progresso’ ha, com’è ovvio, implicazioni ancora più distruttive sulle culture politiche della sinistra italiana. E, d’altronde, interviene ben prima del fatale crollo del Muro berlinese. Per quanto concerne l’Italia, infatti, la ‘fine della Storia’ può essere collocata probabilmente proprio alla fine degli anni Settanta, nel momento in cui il padre di Astengo scompare, perché proprio in quel passaggio l’intero immaginario della sinistra italiana incomincia ad andare in pezzi. In quel momento, diventa chiaro non solo che la strategia del ‘compromesso storico’ si è risolta in larga in un fallimento e che la ‘via italiana al socialismo’ è destinata a rimanere un sogno, ma anche che il progetto di trasformazione della società italiana elaborato dal Pci non troverà mai una realizzazione. Al tempo stesso, con la marcia dei quarantamila, il 14 ottobre del 1980, si conclude definitivamente la stagione di mobilitazione collettiva iniziata nel ‘68-’69, e, più in generale, emerge con chiarezza il fatto che i rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro stanno mutando, che i luoghi concentrati del lavoro si stanno disgregando, che i processi di ristrutturazione stanno modificando, insieme alla geografia produttiva, la stessa antropologia del lavoratore, sempre più irriducibile a quella degli anni Sessanta. In questo momento, senza elaborare di fatto il lutto del fallimento di un sogno, la sinistra italiana e suoi intellettuali prendono rapidamente commiato anche dalla visione positiva del conflitto che avevano coltivato per quasi un secolo. In concomitanza con la lotta al terrorismo, con la necessità di tracciare chiaramente una linea rispetto ai cultori della violenza e rispetto a qualsiasi ipotesi che legittimi – anche implicitamente – la violenza, l’ambigua connessione fra politica e conflitto non può che essere tagliata di netto. Così, non può che essere abbandonata del tutto anche la fatale, equivoca convinzione che il conflitto – sociale, economico, politico – possa in qualche caso rappresentare un fattore di progresso. Ma, abbandonata l’idea del conflitto e tramontata l’ipotesi di una trasformazione in senso ‘socialista’ della società italiana, la cultura della sinistra italiana non può che trovare proprio nell’immagine del «progresso» - un progresso ormai edulcorato, privo di elementi di conflitto, di fatto destoricizzato, trasformato in una forza ‘impolitica’ – l’ultimo appiglio in grado dare stabilità a un’identità collettiva sempre meno compatta. E, allora, non è affatto casuale che la «gioiosa macchina da guerra», la coalizione guidata da Achille Occhetto nel 1994 nelle prime elezioni della ‘Seconda Repubblica’, non trovi di meglio che attaccarsi proprio all’icona – sempre più sbiadita, sempre meno credibile – del «progresso». Dietro quell’insegna, si ritrova però la realtà di un’evoluzione che accompagna il Pci per tutti gli anni Ottanta, e che scandisce le tappe dell’allontanamento dal vecchio patrimonio del ‘comunismo italiano’. Proprio mentre viene accantonato il vecchio armamentario ideologico, e mentre l’ipotesi di un’alternativa di governo diventa sempre meno credibile, il Pci deve infatti spostare su un altro terreno la propria ‘diversità’. Senza potersi più rappresentare come alternativo dal punto di vista ideologico, sociale ed economico, deve così gradualmente fondare la propria alterità sul piano morale, sul piano del rigore etico di una classe politica irriducibilmente ‘diversa’. Non è probabilmente fortuito, in questo senso, che Berlinguer enunci la celebre «questione morale» proprio al principio degli anni Ottanta, nel momento in cui il Pci appare privo di sbocchi politici e in cui appare più incisivamente incalzato dal progetto modernizzatore del Psi di Craxi. Ma non è neppure fortuito che, da allora in avanti, l’enunciazione di una ‘diversità morale’ rispetto agli avversari rimanga l’unico rilevante collante in grado tenere insieme, seppur sempre più debolmente, quello che, enfaticamente, si ama ancora oggi definire come il «popolo della sinistra».
Lo spostamento delle identità e delle contrapposizioni sul registro morale è d’altronde uno degli aspetti della ‘fine della Storia’. Ed è proprio in questo quadro che l’attrazione per il revival diventa irresistibile, seppur secondo declinazioni differenti. Venuta meno l’ipotesi di una trasformazione radicale da realizzare nel futuro, il passato acquista un valore fondamentale per la definizione delle identità, anche se – come avviene effettivamente nella logica del revival – si tratta di un passato interamente schiacciato sul presente. Sono del tutto emblematici, sotto questo profilo, i dibattiti storiografici e le polemiche sull’«uso pubblico della storia». Di queste discussioni, non è sorprendente solo il fatto che, negli ultimi vent’anni, siano diventati onnipresenti, o la circostanza che il passato venga utilizzato per dare forma a un’identità politica. Più ancora di questi aspetti, è significativo che al cuore delle controversie non stia la valutazione di determinate scelte politiche, bensì la connotazione morale dei protagonisti. I dibattiti su Mussolini, sulla resistenza, sugli anni Settanta, non sono infatti dibattiti sulle cause o sugli esiti ‘politici’ di quei processi inevitabilmente complessi, bensì, quasi senza eccezioni, sulla dimostrazione che i protagonisti dell’una o dell’altra parte politica operavano secondo criteri distanti dalla morale condivisa. Perché, proprio dimostrando che alcuni risultarono colpevoli di comportamenti immorali, efferati, brutali, diventa possibile attribuire alla parte politica opposta una patente di moralità. All’interno di una simile rilettura del passato, è evidente che il dibattito storiografico, lungi dal poter produrre qualsiasi memoria condivisa, tende ad assumere i contorni di una rissa sgangherata. Ma, al tempo stesso, è anche evidente come la complessità delle dinamiche del passato venga costretta dentro le maglie anguste di interpretazioni moralistiche, e, soprattutto, come la storia venga purgata dell’effettivo contenuto politico. Non tanto perché in politica non contino le regole etiche, quanto perché la politica non può che essere – soprattutto nelle sue fasi più drammatiche – anche la sfera delle decisioni tragiche. Come ha scritto a questo proposito De Luna: «La storia è uscita dal bagaglio culturale dei politici e non c’è più quel ‘bisogno di storia’ che fu all’origine del boom editoriale degli Anni 70. Non ci si percepisce più nella storia, non ci si percepisce più all’interno di quel circuito virtuoso tra passato, presente e futuro, in cui si studiava il passato per capire il presente e progettare il futuro. Ora il passato è muto, il futuro spaventa, tutto è schiacciato su un presente abnorme, dilatato e siamo immersi in uno ‘spirito del tempo’ segnato da un sapere appiattito sulla semplificazione, sul rifiuto della complessità, su una sorta di approccio usa e getta alla cultura che produce un senso comune affollato di stereotipi, per una conoscenza senza spessore, facile da consumare e dimenticare («Tuttolibri-La Stampa», 14 marzo 2011). 
Una delle conseguenze è che l’Italia sembra condannata a non avere una memoria condivisa su nessuna delle pagine della sua storia unitaria, dal risorgimento al fascismo, dalla resistenza agli anni Settanta. Ancora più rilevante è però che l’Italia sia destinata a ricordare il passato solo nella forma del revival: solo come un insieme di frammenti decontestualizzati, tenuti insieme da una condizione emotiva, interamente schiacciata sul presente. Non sono infatti solo Astengo e Veltroni a vivere in un mondo ‘destoricizzato’, in un mondo in cui si è destinati a non diventare mai padri e in cui la violenza, il dramma, la sofferenza sono invariabilmente ricondotti all’interno delle coordinate di una visione infantile del processo storico. Quella che emerge dai romanzi e dai saggi di Veltroni è solo una versione pop dello Zeitgeist contemporaneo, di quello Zeitgeist in cui tutti noi – bene o male – siamo immersi e che riaffiora inesorabilmente anche nel nostro stesso modo di pensare il mondo. Perché tutti noi viviamo nel mondo infantile di Veltroni, in un mondo ‘post-storico’ e ‘post-politico’: un mondo in cui l’esaurimento delle tradizioni politiche novecentesche ci rende incapaci di pensare il futuro in termini di progresso, o che quantomeno ci induce a concepire il progresso soltanto come la preservazione del presente, delle sue forme politiche, del suo benessere economico. Un simile Zeitgeist non soltanto finisce col rimuovere il futuro e con ridurlo alla dilatazione del presente, ma finisce anche con l’eliminare il passato. Da un lato, il passato lacerato da conflitti, divisioni, tragedie, dolori, diventa ‘inspiegabile’, o spiegabile solo con il ricorso all’irruzione post-storica del Male assoluto e della Violenza, e proprio per questo non può tradursi in una memoria condivisa. Dall’altro, la ricerca di un’identità post-storica, impolitica, post-politica, può giungere soltanto dalla memoria superficiale del revival, dalle schegge della memoria televisiva, dalla nostalgia per il bianco e nero degli anni Sessanta, dal mondo ingenuo e composto di Carosello, dalle canzonette di Gianni Morandi, dai colori artefatti delle figurine Panini. Dal momento che la Storia, con i suoi drammi, è definitivamente espulsa dal nostro orizzonte, e dato che il passato e il futuro sono assorbiti da un presente dilatato fino all’eternità, allora la nostra identità non può che essere quella di un’illimitata adolescenza. Un’adolescenza prolungata fino al confine estremo della senilità, in cui è rimossa la possibilità stessa di elaborare il lutto e di metabolizzare i traumi della Storia. E in cui – come Astengo, come Veltroni – siamo condannati a trovare un rifugio dalle paure del mondo solo nel rimpianto di un’infanzia irrimediabilmente perduta. 

Damiano Palano






Vedi anche
La virtù impolitica del moralismo
Il fascino discreto della questione morale. L'intervista di Berlinguer sulla 'questione morale' trent'anni dopo
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domenica 15 gennaio 2012

Il nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 4/4



di Damiano Palano

Segue da
Il nuovo odio per la democrazia 1/4
Il nuovo odio per la democrazia 2/4
Il nuovo odio per la democrazia 3/4

4. La democrazia e il potere

Se i bersagli polemici di Rancière sono ben chiari quando si rivolge contro il contemporaneo «odio per la democrazia», sono altrettanto nitidi anche quando il filosofo francese prende in esame il pensiero radicale. Ed è facile scorgerne una prima traccia negli appunti critici che Rancière dedica alla riflessione sulla biopolitica o alle ipotesi di autori come Giorgio Agamben. Nell’Odio per la democrazia, per esempio, accenna proprio ad Agamben, che «faceva dello ‘stato d’eccezione’ il contenuto della nostra democrazia» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 24), notando peraltro che, «se non viviamo in una democrazia», «non viviamo nemmeno in un campo, come sostengono certi autori che ci vedono tutti sottomessi alla legge d’eccezione del governo biopolitico» (ibi, p. 89). Non si tratta infatti di considerazioni incidentali, perché Rancière si è soffermato in diverse occasioni su una critica all’impostazione di Agamben. In Who is the Subject of the Rights of Man? esamina con una certa attenzione la proposta avanzata in Homo sacer, e, in particolare, ritiene che l’ipotesi di Agamben – che combina la critica dei «diritti umani» avanzata da Hannah Arendt, con la teoria dello «stato di ecezione» di Carl Schmitt e, infine, con la nozione di «biopolitica» illustrata da Michel Foucault negli anni Settanta – finisca di fatto col costringere la politica in una sorta di «trappola ontologica». La critica del diritto umanitario svolta da Agamben, così come la sua fusione del potere sovrano con il biopotere, elimina ‘ontologicamente’ la politica, ossia la capacità del demos di rompere l’ordine simbolico. Se per Agamben il diritto umanitario allude infatti all’estensione del potere sovrano sulla «nuda vita», e dunque alla realtà di un potere capace di decidere sulla determinazione stessa fra zoé e bios, Rancière ritiene invece che questa operazione sia possibile solo presupponendo che il popolo sia un soggetto assolutamente passivo, o, al limite, che tutte le sue richieste vadano paradossalmente a rafforzare un dispositivo di dominio. Ma tutto il discorso di Agamben, così come le sue conclusioni, scaturisce dal fatto che lo studioso italiano – come scrive Rancière - «dimentica completamente la logica della soggettivazione politica», dimentica cioè che la politica è una sfera in cui si incontrano la logica della polizia e la logica della politica. In altri termini, allora, «i Diritti dell’Uomo sono i diritti del demos, che è il nome generico dei soggetti politici, cioè dei soggetti che, in specifiche scene di dissenso, decretano la paradossale qualificazione di questo supplemento» (J. Rancière, Dissensus. On Politics and Aestethics, Continuum, London, 2010, p. 71).
Se da un lato critica la riflessione di Agamben per il suo pessimismo ‘ontologico’, Rancière non manca di indirizzare più di qualche fugace rilievo anche al post-operaismo italiano, e non è da questo punto affatto casuale che il suo pamphlet sull’«odio per la democrazia» si concluda proprio con un attacco a Empire di Michael Hardt e Antonio Negri. Infatti, Rancière non può che ritrovare nel discorso sviluppato da Empire il vizio originario della visione marxista della rivoluzione. Un vizio che, innanzitutto, attiene alla modalità di intendere la classe operaia nei termini di un soggetto capace di riassumere in sé non un interesse parziale, ma la causa dell’intero genere umano, e che rimanda dunque all’idea che proprio la rivoluzione comunista possa porre termine, insieme alla storia del conflitto di classe, alla politica stessa, a quel «disaccordo» potenziale che, invece, per Rancière è incardinato nell’eguaglianza degli esseri umani. Ma si tratta soprattutto di un vizio che attiene alla convinzione che il conflitto e il soggetto conflittuale debbano prendere forma ‘inevitabilmente’ dallo sviluppo delle forze produttive: una convinzione che, nell’impianto teorico di Empire, si traduce nell’idea che la «moltitudine» viva già – almeno a livello potenziale – nei reticoli della produzione immateriale, nel flusso inarrestabile del capitalismo postmoderno. Ed è invece proprio contro questa convinzione che si scaglia Rancière, perché, ai suoi occhi, la democrazia, ossia la potenza disordinante del demos, e non può essere mai il prodotto dello sviluppo, non può essere in alcun caso il risultato di contraddizioni ‘strutturali’:

«Capire che cosa vuol dire democrazia significa rinunciare a questa fede. L’intelligenza collettiva prodotta da un sistema di dominio non è mai solo l’intelligenza di quel sistema. La società ineguale non porta nel suo grembo nessuna società dell’uguaglianza. La società dell’uguaglianza è solo l’insieme delle relazioni egualitarie che si tracciano qui e ora attraverso atti singolari e precari. La democrazia è nuda nel suo rapporto col potere della ricchezza e col potere della filiazione che oggi lo asseconda e o lo sfida. Non è fondata in nessuna natura delle cose e non è garantita da nessuna forma istituzionale. Non è portata da nessuna necessità storica e non ne porta nessuna. È affidata solo alla costanza dei propri atti. La cosa non può non fare paura e quindi suscita odio in chi è abituato a esercitare il magistero del pensiero. Ma in chi sa condividere con chiunque il potere uguale dell’intelligenza può suscitare coraggio, e quindi gioia» (ibi, pp. 115-116)

Per gli stessi motivi per cui critica la visione della moltitudine proposta da Empire, Rancière si discosta nettamente anche dalla riflessione sulla biopolitica e sul biopotere condotta da Hardt e Negri. In sostanza, in questo caso, la visione positiva, affermativa della biopolitica, che prende forma dentro i reticoli del biopotere, riproduce non solo uno schematismo deterministico, ma finisce col dimenticare la specificità della soggettivazione politica. Nelle voci che presentano la biopolitica in una veste positiva, nota infatti, «c’è il tentativo di fondare un’idea di biopolitica in una ontologia della vita, identificata con una certa radicalità di autoaffermazione», sebbene, in realtà si tratti di «un tentativo di identificare la questione della soggettivazione politica con quella delle forme dell’individuazione personale e collettiva» (Biopolitics or Politics, in J. Rancière, Dissensus, cit., p. 94). Il terreno della soggettivazione politica per Rancière è invece un altro, perché chiama in causa una rottura del sensibile che non può discendere in modo ‘spontaneo’ o ‘naturale’ da alcun assetto sociale, economico e politico. E, così, esclude che «sia possibile estrarre dalla nozione di biopotere – un termine che designa una forma di preoccupazione e un modo di esercizio del potere – una nozione di biopolitica come modo specifico di soggettivazione politica» (ibi, p. 96).
Quando mette in guardia dalla tentazione di immaginare in termini deterministici la genesi di un nuovo soggetto conflittuale, certo Rancière coglie un limite reale del discorso sviluppato da Hardt e Negri. In effetti, laddove descrivono la moltitudine, Hardt e Negri sembrano pensare che un simile soggetto viva già dentro la struttura della cooperazione determinata dalla sussunzione reale del lavoro, e proprio in questo senso tendono a trascurare i caratteri problematici della «soggettivazione», oltre che le linee interne di strutturazione della forza lavoro contemporanea (e proprio su questo limite ho cercato di attirare l’attenzione nel saggio Fino alla fine del mondo. Lo Stato nello spazio imperiale, in D. Palano, Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea, Liguori, Napoli, 2010, pp. 169-255). Ma, a ben vedere, anche nel discorso sviluppato da Rancière non è così difficile rinvenire un limite teorico altrettanto significativo: un limite molto diverso da quello che contrassegna la proposta di Hardt e Negri, e in qualche misura addirittura speculare rispetto al rischio di ‘determinismo’, e ciò nondimeno foriero di conseguenze meno rilevanti.
In effetti, quando pensa alla democrazia e all’azione disordinante della politica, Rancière evoca l’idea di una rottura dell’ordine simbolico i cui caratteri appaiono molto vicini a quelli di un’esplosione ‘evenemenziale’. In altre parole, anche Rancière – allineandosi a diversi esponenti della filosofia radicale transalpina degli ultimi trent’anni – sembra pensare al conflitto come all’irruzione dell’evento nel regno della continuità storica, e cioè come a un evento che rompe la coerenza di un ordine simbolico, aprendo nuove prospettive, enunciando un diverso ordine. In molte di queste riflessioni, un ruolo fondamentale, nel definire il paradigma stesso dell’evento, viene assegnato naturalmente al «Maggio» del 1968, o, meglio, a una rappresentazione della rivolta di quei giorni su cui si depositano le forti connotazioni di una mitizzazione postuma (e forse persino nostalgica). E, come ha notato Diego Melegari, spesso l’«insistenza sulla purezza dell’evento», oltre a scontare un difetto di storicizzazione, finisce con l’accompagnarsi alla «nota più inquietante del suo probabile ‘riassorbimento’», se non proprio alla «consapevolezza di una certa prossimità tra la sua intima indecibidibilità e la moltiplicazione di forme differenziate, magari conflittuali, della sua ‘perdita’, cioè della sua messa in valore spettacolarizzata e sistemica» (D. Melegari, Una rivoluzione senza storia. Tre percorsi su Maggio ’68 e filosofia francese, in La rivoluzione dietro di noi, a cura di Marco Baldassarri e Diego Melegari, Manifestolibri, Roma, 2008, p. 105).
È stato fra l’altro Eric Hazan, in un’intervista a Rancière, a suggerire che anche il filosofo francese concepisce la politica nei termini di una rottura temporanea, destinata a essere rapidamente riassorbita, come, per esempio, quando, nelle Dix théses sur la politique, scrive che «la politica accade come un accidente sempre provvisorio nella storia delle forme di dominio» (J. Rancière, Aux bords du politique, Gallimard, Paris, 2004), o quando, alla conclusione de Il disaccordo, afferma che «la politica, nel suo carattere specifico, è cosa rara», e che «è sempre locale e occasionale» (J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 148). Dinanzi a queste osservazioni, Rancière ha in realtà negato di concepire la politica come una rottura episodica e destinata a essere riassorbita. E in questo senso ha affermato, proprio replicando ad Hazan:

«Penso di non aver mai parlato di apparizioni improvvise, brevi e senza domani. Non propongo una visione della storia nella quale ci sarebbero delle emergenze e dove in seguito tutto cadrebbe di nuovo nell’appiattimento. […] Non volevo dire che l’uguaglianza esiste solo sulle barricate e che una volta distrutte le barricate è finita, si ritorna all’atonia. Non sono un pensatore dell’evento, dell’apparizione improvvisa, ma piuttosto dell’emancipazione come qualcosa che ha una tradizione, una storia che non è fatta solamente di grandi azioni eclatanti ma di una ricerca per creare forme comuni che non siano quelle dello Stato, del consenso, ecc. Sicuramente ci sono degli avvenimenti che scandiscono, che aprono delle temporalità: per esempio i tre giorni del luglio 1830 hanno aperto uno spazio nel quale in seguito si sono riversate le associazioni operaie, le insurrezioni del 1848 e la Comune» (J. Rancière, I democratici contro la democrazia, intervista a cura di Eric Hazan, in G. Agamben et al., In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma, Roma, 2010, p. 124).

Nonostante Rancière possa negare di essere definito come un «pensatore dell’evento», e benché non abbia esplicitamente avvalorato l’immagine del «Maggio» come evento, come rottura capace di interrompere la continuità storica e l’ordine simbolico esistente, è però molto probabile che le sequenze storiche della rivolta studentesca e operaia del Sessantotto costituiscano l’episodio cruciale del suo itinerario teorico, oltre che l’occasione in cui si manifesta il distacco dallo strutturalismo althusseriano (ho cercato di argomentare questa lettura, in modo più completo, in Lo scandalo dell’eguaglianza. Alcuni appunti sull’itinerario teorico di Jacques Rancière, in «Filosofia politica», n. 3, 2011). E proprio le caratteristiche di questa genesi finiscono con l’imprimere alla riflessione di Rancière una curvatura specifica: una curvatura che tende a ritrovare proprio nella dimensione della ‘rottura’ il dato qualificante, e irriducibile, della politica. In seguito all’enfasi sulla dimensione ‘evenemenziale’, anche nel discorso di Rancière la rottura dell’ordine simbolico e dunque la stessa immagine della politica vengono però legate all’espressione di un soggetto – o, meglio, di una soggettivazione – del tutto evanescente: a una soggettivazione che non solo non appare radicata nella strutturazione storica, materiale, di un soggetto concreto, ma che non appare neppure in grado di incidere in modo duraturo sulle relazioni di potere, dal momento che – ricostruendo il discorso di Rancière – pare proprio che essa debba svanire improvvisamente così come è comparsa.
Naturalmente, una simile impostazione produce molte conseguenze, e – insieme ai molti meriti – porta con sé anche una serie di limiti. Uno di questi risiede nella difficoltà – si potrebbe dire, anzi, nel disinteresse – a indagare realmente le relazioni di potere. Per quanto le riserve di Rancière nei confronti delle diverse riflessioni sulla biopolitica e sul biopotere (di cui sono indicative le critiche ad Hardt e Negri e ad Agamben) presentino più di qualche elemento convincente, il suo ragionamento non riesce però a dissolvere interamente la sensazione che la ferma opposizione a qualsiasi determinismo tenda a risolversi in un vuoto di determinazione materiale. In altre parole, non riescono a dissolvere l’impressione che la distinzione tra polizia e politica – nel momento in cui scinde l’esercizio del potere che proviene ‘dall’alto’, dall’insorgenza della contestazione ‘dal basso’ – finisca col dipingere i concreti soggetti politici come soggetti privi di storia e di strutturazione interna. Da questo punto di vista, la distinzione introdotta da Rancière, se da un lato coglie certo un’ambivalenza cruciale dentro la polisemia del termine «politica», dall’altro sembra assegnare alla politica posta in essere dalla soggettivazione una sorta di ‘verginità’. Una verginità che non significa soltanto che si tratta si soggetti ‘nuovi’, senza storia, che in precedenza non erano presenti sulla scena, ma che configura quei soggetti anche come del tutto privi di quelle ‘incrostazioni’ che caratterizzano la polizia: ossia, una strutturazione interna, linee gerarchiche, una divisione del lavoro, oltre che – ovviamente – principi che stabiliscono un ordine, concettualmente non differente da quello che sostiene l’attività di governo della polizia. Ma, dato che i soggetti evocati da Rancière sono privi di strutturazione, dato che sono privi di identità consolidate, dato che la loro unica manifestazione è l’irruzione improvvisa sul proscenio della continuità storica, allora è anche scontato a Rancière sfuggano i meccanismi di quella lotta sotterranea che i soggetti conducono al di sotto della ribalta strettamente politica, e di quella lotta che avviene talvolta persino dentro i soggetti. È allora scontato – o quantomeno comprensibile – che Rancière si disinteressi della dinamica conflittuale che – oltre l’evento – si produce dentro la continuità storica. Ma l’effetto inevitabile è che, in questo modo, Rancière non è in grado di cogliere effettivamente né la novità della biopolitica, né la trasformazione delle tecnologie del biopotere, né il fatto che i conflitti contemporanei non possono che prendere corpo – seppur in modo certo non deterministico – proprio dentro i reticoli della produzione biopolitica. E non è neppure in grado di riconoscere che, probabilmente, per comprendere realmente le radici del contemporaneo «odio per la democrazia», per ricostruire davvero la fisionomia dei processi di soggettivazione (reali o potenziali che siano), è indispensabile scavare proprio al di sotto del palcoscenico in cui si gioca il quotidiano spettacolo politico. Perché è al di sotto di quella superficie – dentro la trama delle relazioni di potere di cui la società postmoderna risulta intessuta – che prendono forma i nuovi processi di soggettivazione. Processi che – oggi come ieri, ma forse più ancora di ieri – richiedono la formazione di simboli, repertori d’azione e nuovi immaginari. E che proprio per questo procedono problematicamente, lentamente, seguendo spesso percorsi intricati.

Damiano Palano


lunedì 9 gennaio 2012

La soglia biopolitica. Appunti su una discussione contemporanea 4/4


di Damiano Palano

segue da:
La soglia biopolitica 1/4
La soglia biiopolitica 2/4
La soglia biopolitica 3/4


4. L’orizzonte del post-umano

Pur nella varietà delle singole proposte, la prospettiva del post-human, mentre accoglie la portata delle trasformazioni biopolitiche, ne enfatizza gli elementi positivi, non solo perché ritiene che la modificazione dell’essere umano mediante la tecnologia possa contribuire a un miglioramento della vita individuale e collettiva, ma anche perché pensa che si tratti di mutamenti sostanzialmente ‘neutrali’, ossia che possono essere controllati ‘democraticamente’. All’interno di questa prospettiva, che articola una variante specifica della biopolitica affermativa, in cui si collocano per esempio il Manifesto Cyborg di Donna Haraway, le tesi di Peter Sloterdijk e il programma delineato da Roberto Marchesini, lo scenario aperto della biopolitica è dunque ambivalente, aperto a molteplici sviluppi, ma spesso questa potenzialità viene considerata con un ottimismo sostenuto dalle strenua convinzione nella capacità degli esseri umani di controllare le conseguenze più inquietanti delle nuove tecnologie. Articolando proprio una simile tesi, Gaspare Polizzi ha osservato, per esempio, che sullo scenario del post-umano aleggia lo spettro di un’élite politica che «progetta, con le più raffinate biotecnologie oggi disponibili, la selezione biologica su larga scala della popolazione dominante, attrezzandola con le migliori risorse dell’ingegneria genetica», e riesce così a dar vita a «un popolo post-umano che diviene dominante e conquista l’intero pianeta, rendendo schiavi altri popoli, resi incapaci di ogni reazione» (G. Polizzi, Vite degne di essere vissute. Note sulla prospettiva «post-umana», in «alfabeta2», n. 8, 2011, p. 32). Ma – avverte Polizzi – un simile spettro non può oscurare le possibilità strabilianti aperte dalla «svolta post-umana»:

«Una svolta post-umana, oppure oltre-umana, che renda possibile la cura e la guarigione permanente da malattie ereditarie (anemia falciforme, corea di Huntington, emofilia, sindrome di Doen, talassemia), o la guarigione, con l’installazione di protesi neurologiche permanenti, di gravi malattie degenerative del sistema nervoso centrale o periferico (basti pensare all’Alzheimer o al Parkinson). O ancora che possa intervenire sui portatori di importanti handicap conducendoli a condizioni di normalità (e non è necessario scomodare la velocità post-umana di Pistorius). Non sono neppure da sottovalutare le possibilità di espansione delle potenzialità cognitive e dell’azione che scaturirebbero da una svolta post-umana. […] Molti di noi condividerebbero l’entusiasmo espresso di recente da Luigi Luca Cavalli Sforza […], sulla possibilità, non remota, di inserire un chip nel cervello con i contenuti mnemonici di un’intera biblioteca (ibidem).

In una visione come quella delineata da Polizzi, lo spettro di una sorta di élite biopolitica, capace di impugnare le biotecnologie per farne uno strumento di dominio e oppressione, non è allora molto più che uno scenario per la science fiction, quasi una caricatura degli incubi distopici del Novecento. «Se ci sarà, come possibile, una svolta evolutiva profonda nella storia dell’umanità», scrive per esempio, «abbiamo almeno il 50% di chance di dominarla a nostro vantaggio», e il problema sta semmai nel «rendere democratica e plurale ogni scelta che concerna l’umano, impedendo i silenzi delle élite o l’emergere di turbamenti strumentalmente religiosi» (ibidem). E, così, l’ombra sinistra che lo sterminio nazista delle «vite indegne di essere vissute» ancora oggi proietta sulle ipotesi di ‘eugenetica’ potrebbe finalmente lasciare il posto a una ‘umanizzazione’ di quelle stesse vite. «Le vite indegne di essere vissute», conclude infatti Polizzi, «potrebbero allora trovare proprio in una svolta evolutiva dell’umanità una sorte opposta a quella riservata loro dai criminali nazisti, rendendo più degna la facies umana» (ibidem).
Pur con un ragionamento ben più raffinato rispetto a quello seguito da Sartori, l’argomentazione di Polizzi non giunge in fondo a risultati differenti, e non manca di individuare neppure i medesimi bersagli polemici indicati dal politologo nei suoi interventi in tema di bioetica. Ma non si tratta né di eccezioni, né di esaltazioni acriticamente ottimistiche, perché, ovviamente, sono visioni che colgono – anche se in grado differente – le potenzialità negative della trasformazione biopolitica. Piuttosto, puntando lo sguardo sui benefici che nel breve o medio periodo possono giungere, alla vita di ciascun individuo, dalla «svolta post-umana», si scagliano contro quei pregiudizi umanistici, religiosi, politici, ideologici, che appaiono soltanto come i residui – ‘reazionari’, più ancora che semplicemente ‘conservatori’ – di una cultura ormai superata dall’evoluzione tecnologica. E, così, le conseguenze più radicali possono essere proiettate in un futuro tanto remoto da non risultare troppo preoccupante, come faceva per esempio Sloterdijk in uno dei suoi interventi sul destino della natura umana:

«Se poi lo sviluppo a lungo termine condurrà anche alla riforma genetica dei caratteri della specie, se una futura antropotecnica giungerà fino a un’esplicita pianificazione della caratteristiche umane, e se l’umanità, dal punto di vista della specie, potrà compiere il sovvertimento del fatalismo della nascita in una nascita opzionale e in una selezione prenatale, tutte queste sono questioni nelle quali inizia ad albeggiare l’orizzonte dell’evoluzione, anche se in modo ancora confuso e inquietante» (P. Sloterdijk, Regole per il parco umano, in Id., Non siamo stati ancora salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano, 2004, p. 260).

Dentro una simile ottica, non è troppo difficile scorgere una serie di ambiguità di non poco conto, che illustrano peraltro il carattere sempre problematico di ogni discorso che si collochi in questo campo. Nel ragionamento di Polizzi, per esempio, il passaggio intorno alla necessità di rendere «democratica e plurale ogni scelta che concerna l’umano» non può che sollevare qualche domanda. Il sostantivo «democrazia» è ormai talmente abusato da essere diventato una coperta logora e buona per tutti gli usi, e allora l’invito di Polizzi non può che apparire quantomeno scontato. Ma, qualora l’aggettivo «democratica» venga adottato per indicare la volontà della maggioranza, ciò sembra avallare l’idea di una «svolta post-umana» condotta pur in presenza del dissenso delle minoranze, mentre, nel caso in cui «democratica» venga accostato – come fa Polizzi – all’aggettivo «plurale», il risultato sarebbe opposto, ossia quello di pensare a una scelta che tenga conto anche della pluralità delle voci e, dunque, delle minoranze. In quest’ultimo caso, però, non si potrebbero certo escludere anche quelle visioni del mondo che – come le religioni, interpretate da Polizzi come strumenti impugnati da élite interessate – si oppongono, sulla base di considerazioni valoriali, alla «svolta post-umana». Questi sono comunque solo alcuni dei nodi che non possono essere risolti dall’evocazione ‘politicamente corretta’ di scelte ‘democratiche’ e ‘plurali’. Un altro, ancora più intricato, è ovviamente quello in cui si trovano aggrovigliati il ‘sapere’ e il ‘potere’. Anche chiamando in causa il demos, anche cioè pensando a una scelta effettivamente ‘democratica’ sul «post-umano», è piuttosto evidente che non si può arginare uno dei dati di fatto delle liberal-democrazie, ossia il fatto che il ‘cittadino-elettore’ è sostanzialmente disinformato, che ha un’informazione – nei migliori dei casi – parziale e intermittente, che si limita a filtrare l’enorme flusso di comunicazioni che riceve sulla base delle proprie consolidate identificazioni politiche, partitiche, ideologiche. Ma tutto questo non può che diventare ancora più complicato quando, dal terreno della politica in senso stretto, si passa al terreno biopolitico, perché in ambiti come quelli cui allude l’idea di una «svolta post-umana» le conoscenze non sono soltanto più complesse, ma sono di fatto monopolio di quel campo – intangibile per i più – che è il sapere medico: sono cioè monopolio di quell’insieme di ‘tecnici’ – non solo medici in senso stretto – cui ciascuno di noi consegna senza esitazioni la propria salute, con una ‘fede’ incrollabile, e comunque molto più solida della fiducia nutrita nei confronti di ogni altra forma di conoscenza umana. Il punto è che, dinanzi a questa evidente distanza, la scelta ‘democratica’ e ‘plurale’ non può che essere condotta sulla base di considerazioni, per così dire, puramente ‘utilitaristiche’, senza alcun riguardo per l’effettiva costruzione di vincoli, controlli e meccanismi che consentano di esercitare un ‘potere’ adeguato a quello del sapere medico. Ed è proprio dentro questa logica che si insinua la forza di un meccanismo inesorabile. Quello stesso meccanismo innescato dalla promessa di redenzione delle «vite indegne di essere vissute». Perché quella promessa non solo legittima il potere a intervenire per rendere «degna» la vita, ma – più o meno implicitamente – presuppone che esista davvero una linea che distingue la vita «degna» e la vita «indegna»: una linea che, a ben vedere, viene tracciata proprio da una politica in cui il sapere di governo si fonde e confonde con il sapere medico.
Molte delle ambiguità che segnano la prospettiva del post-umano, ma che in fondo attraversano la nostra condizione quotidiana, sono portate alla luce da La salute ad ogni costo. Medicina e biopotere (M. Benasayag, La salute ad ogni costo. Medicina e biopotere, Vita e Pensiero, Milano, 2010), un denso, lucido, prezioso volume di Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista già autore di testi estremamente interessanti come L’epoca delle passioni tristi (M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005) ed Elogio del conflitto (M. Benasayag – A. del Rey, Saggiatore, Milano, 2008). In La salute ad ogni costo (steso in collaborazione con A. del Rey), Benasayag prende infatti di mira la promessa del post-umano, o, meglio, la promessa che le nuove conoscenze mediche possano liberarci dalla costitutiva fragilità del nostro corpo. La preoccupazione per la nostra salute e la sorveglianza che ciascuno di opera sul proprio corpo non è infatti, nella lettura di Benasayag, solo una moda o una conseguenza dell’istinto di sopravvivenza, bensì il riflesso di un mutamento più profondo che investe le nostre società e che rimanda proprio all’estensione di quello che Foucault definì come «biopotere», ossia «una forma di potere post-moderna che si esercita sulla vita e spiega il posto centrale attribuito alla medicina nelle nostre società» (M. Benasayag, La salute ad ogni costo, cit., p. 8.). Benché non si renda conto della portata di questo mutamento, ciascuno di noi rafforza il dispositivo, nel momento stesso in cui consegna la tutela proprio corpo e della propria salute a quel sapere specializzato che è il sapere medico: «se si tratta di evitare a ogni costo i pericoli che minacciano la nostra salute, i tecnici della salute diventano i nostri referenti privilegiato, in grado di proteggerci, guarirci, metterci sull’avviso e sorvegliarci, orientarci o, almeno, permetterci ci credere che potremo, se saremo obbedienti, non soffrire (troppo)» (pp. 8-9). Ma la preoccupazione che ciascuno di noi ha – comprensibilmente – per la propria salute finisce col rafforzare la logica al fondo della presa in carico della vita da parte del potere. E la medicina occupa un ruolo particolarmente significativo, dal momento che si pone all’incrocio fra la tecnica «disciplinare», che si occupa del disciplinamento del corpo dei singoli alfine di renderlo malleabile e docile, e la «biopolitica», che attiene invece alla vita della popolazione nel suo complesso. Come scrive sotto questo profilo Benasayag:

«L’importanza assunta dalla medicina con l’emergere del biopotere si spiega proprio per il legame che essa stabilisce tra i processi biologici – che interessano la popolazione – e i processi organici – che interessano gli individui. Grazie al suo esercizio de facto, partecipa sia alla produzione che alla giustificazione di quelle norme che, da un lato, si presentano come una risposta alla domanda di salute degli individui e, dall’alto, nutrono le nuove ‘strategie’ di potere, regolazione e gestione delle popolazioni. E proprio attraverso le norme che essa giustifica e produce, le tecniche di ‘disciplina’ si vedono in un certo senso duplicate da tecniche di gestione e di regolazione, che estendono l’inquadramento della vita dall’individuo alla popolazione, dall’organico al biologico. Così la medicina nell’epoca del biopotere rende possibile la circolazione fluida della disciplina dei corpi alla gestione delle popolazioni e dalla gestione delle popolazioni alla disciplina dei corpi individuali. E può acquisire nuovi effetti di potere, molto più potenti, in quanto i suoi consigli, le sue prescrizioni e le sue tecniche di cura sono diventati normativi» (pp. 11-12).

Naturalmente, Benasayag non punta a sostenere che, dietro il discorso medico, si nasconda un disegno lineare di assoggettare la vita a fini utilitaristico, perché l’affermazione del dispositivo segue un itinerario molto più articolato, un itinerario in cui si incontrano, da un lato, il rifiuto della fragilità da parte dei pazienti e, dall’altro, la partecipazione dei medici all’inquadramento delle vite all’interno di norme sanitarie. L’intento di Benasayag è piuttosto segnalare come la trasformazione del sapere medico sia comprensibile come esito alla crisi contemporanea della medicina: una crisi determinata dalla condizione paradossale per cui la medicina, proprio nel momento in cui dispone di maggiore conoscenze, si trova sempre più lontana dal raggiungimento dell’obiettivo di eliminare la malattia. Proprio la malattia, scrive infatti Benasayag, «è divenuta l’ombra inevitabile della medicina e, come ogni ombra, anche questa a volte la segue, a volte la precede, a volte si confonde con essa» (p. 14). Il disordine ecologico, lo sviluppo demografico, i flussi migratori producono, come inevitabile corollario, nuove malattie, che «fanno del compito di guarire una ‘fatica di Sisifo’, un eterno ricominciare, ponendo di fatto la medicina in una posizione definitivamente tangente rispetto all’obiettivo di sradicare la malattia» (ibidem). Ma il fallimento della medicina finisce col mutare il suo profilo e per ridefinirne il ruolo, all’interno del dispositivo bio-politico. Dopo aver preso atto dell’impossibilità di eliminare la malattia, la medicina viene a occuparsi del trattamento di un corpo di cui è impossibile una definitiva guarigione.
Nella sua analisi, Benasayag coglie il mutamento di prospettiva della medicina in cinque diversi campi – il trattamento dell’handicap, la cura del cancro, le cure palliative, la classificazione delle turbe psichiche, il problema del morbo di Alzheimer – ma la logica che intravede è in fondo la medesima. Quando riconosce che la malattia non può essere eliminata, che al massimo si può gestire la vita prima della morte (come nel caso dell’Aids), allora la medicina viene a occuparsi della gestione della malattia, a livello individuale e a livello sociale. Da questo punto di vista, il caso del cancro è particolarmente significativo: si tratta infatti di una malattia che, benché possa certo essere curata nel momento in cui si manifesta, non è stata per ora debellata; inoltre, non esistono neppure significative probabilità che si trovi nel prossimo futuro una cura in grado di debellarla completamente, così come sono state debellate altre grandi malattie nel passato. Proprio dinanzi a questo fallimento, la medicina cambia la prospettiva, nel senso che tende a occuparsi non più solo del malato, bensì della vita della popolazione nel suo insieme, indicando stili di vita adeguati, in grado di ‘responsabilizzare’ il singolo sulla condotta individuale. Come sintetizza Benasayag:

«Se viene a mancare la promessa di sradicare la malattia (promessa in nome della quale si esigeva l’obbedienza dei malati potenziali), ecco allora che bisogna (qui ci troviamo, beninteso, nell’ambito delle strategie senza strateghi) fabbricarne una nuova, che esprima in termini di sicurezza delle popolazioni (del corpo sociale). Se, per la medicina disciplinare, l’obiettivo era il controllo della vita del malato, nel passaggio verso il biopotere il cancro serviràcome alibi e scusa per gestire e controllare le popolazioni. Nel primo caso, l’obiettivo era la salute degli individui; nel secondo, diventa gestione sanitaria, sociale ed economica della popolazione. Da qui in poi, l’obbedienza sarà richiesta in nome di questo nuovo paradigma che, per parte sua, permetterà di responsabilizzare le popolazioni, sempre più bersagliate» (ibi, pp. 37-38).

Il paradosso di questo meccanismo – in cui si consuma il fallimento dell’ambizione medica – è che i programmi di prevenzione, benché abbia successo nell’influenzare il comportamento dei singoli, si rivelano inefficaci rispetto all’obiettivo primario della diminuzione dell’insorgere della malattia. E non potrebbe essere diversamente dato che – non solo secondo Benasayag – le cause all’origine del cancro sono ambientali, più che strettamente individuali. Di fronte a un problema che richiederebbe dunque misura sociali, urbanistiche e inevitabilmente politiche, la risposta del biopotere è dunque una responsabilizzazione del singolo: una responsabilizzazione che tende a trasferire le ‘colpe’ della malattia dalle condizioni ambientale sulla condotta – ‘irresponsabile’ – del malato. In altre parole, come scrive Benasayag, alla radice di questa forma di biopotere sta una sorta di dépistage:

«Il carattere disciplinare della consegne sanitarie caratteristiche del biopotere risiede nel fatto che, come nella vecchia figura giuridica che afferma che l’‘ignoranza della legge non è una scusante’, coloro che non seguono le consegne sanitarie formulate per il loro bene ne pagheranno le conseguenze, sia in termini di salute che sul piano economico. Più ancora, diventeranno dei nemici della società, non solo dei malati, perché mettono in pericolo la società tanto da un punto di vista sanitario quanto da un punto di vista economico o, meglio, da entrambi i punti di vista. Nel dispositivo del biopotere, il malato può dunque ritrovarsi molto facilmente a vestire i panni del deviante: le campagne di prevenzione, i test di sorveglianza, come pure i protocolli di cura, formattano e normalizzano sempre di più le popolazioni considerate. E così, l’individuo diventa colui che si merita la salute o la malattia, anche quando questo è sempre meno vero» (ibi, p. 45).

Esiti simili possono essere anche ritrovati nel mutamento dello sguardo medico nei confronti dell’handicap, che Benasayag definisce addirittura come il «laboratorio del biopotere». Da una decina d’anni, osserva Benasayag, l’approccio nei confronti dell’handicap da parte della medicina cambia, nel senso viene ad affermare che «non esiste un modo di essere handicappato, esistono solo handicap parziali che disturbano la vita di alcuni individui», e per questo diventa necessario «attaccarsi regionalmente a ciò che viene riconosciuto come handicap, cioè alle ‘competenze negative’» (p. 25). Il corpo viene scomposto in funzioni e organi, Con l’obiettivo di sopperire alle ‘competenze negative’ con l’introduzione di nuove ‘competenze positive’, e sulla base di una visone dell’organismo ‘normale’ costruita mediante la misurazione statistica della ‘norma’ della popolazione. Dopo aver in passato costruito la figura dell’handicap mediante la sua separazione dalla norma, la medicina procedesse ora a dissolvere il confine fra handicap e norma, puntando a isolare quelle ‘competenze negative’ – che costituiscono l’handicap di cui il singolo è portatore – per ‘normalizzarle’ mediante nuove competenze. «D’ora in poi», osserva Benasayag, «tutta una società avrà la possibilità di considerarsi, potenzialmente, dalla parte della norma e del potere», «tutta una società potrà considerarsi anche suscettibile di acquisire, grazie ai progressi della tecnica, competenze in più» (p. 26). Questo meccanismo di «unidimensionalizzazione disciplinare degli handicappati» prelude a una più generale «unidimensionalizzazione dell’insieme della società», e, soprattutto, al suo interno si nasconde però un’implicazione determinante, che conduce ciascun individuo a percepire se stesso come una sorta di «uomo senza qualità», un insieme di funzioni e organi da controllare e sviluppare. Un uomo in cui, peraltro, le ‘competenze positive’ non corrispondono, alle «qualità» cui si riferiva Musil nel suo romanzo, ma «a capacità che sono positive o negative in base al loro possibile utilizzo da parte dell’apparato produttivo» (p. 27). Proprio per questo allora, secondo Benasayag, «mentre offre ad alcuni una sorta di onnipotenza che permette loro di raggiungere il vertice», il modello di società che va prendendo forma, «intima agli altri di accontentarsi di quello che hanno», ma, «a questo punto l’uomo guarda i suoi mezzi e le sue competenze e organizza la propria vita in funzione di essi, più che in funzione del proprio desiderio e dell’epoca in cui vive» (p. 27).
Un esempio emblematico dell’estensione del biopotere alla società è però offerto – con gli scenari che apre, e che già sono in parte realtà – dalla prevenzione dell’handicap. La sorveglianza medica della gravidanza ha la finalità – del tutto razionale – di prevenire che nasca un bambino handicappato, ma innesca un processo di estensione del potere medico sui comportamenti dei genitori e della madre in particolare: un processo di estensione che investe tutte le dimensioni della loro vita. Operando all’interno della cornice del «rischio» (e dunque sulla base della probabilità che il rischio si traduca in realtà), il sapere medico si poggia naturalmente sulle basi della conoscenza tecnica e dei risultati compiuti dalla ricerca scientifica, ma una conseguenza pressoché scontata di questo processo è l’approdo alla pratica di un’«eugenetica soft», che consiste nella decisione di non far nascere un bambino handicappato. «Ecco perché», scrive infatti Benasayag, «non è assurdo dire che il potere della tecnica medica produce una eugenetica soft, che si determina automaticamente per il fatto stesso che si è posti davanti a una simile scelta» (p. 28). Gli effetti sociali di una simile pratica sono prevedibili, e vanno dall’eliminazione delle strutture a sostegno degli handicappati, in virtù della loro diminuzione quantitativa, alla decisione – già adottata negli Stati Uniti – con cui le assicurazioni potrebbero non pagare alcun risarcimento a quei genitori che, pur essendo a conoscenza del rischio statistico di mettere al mondo un figlio handicappato, sono comunque ‘responsabili’ per aver portato avanti la gravidanza. Ma l’aspetto più subdolo del biopotere consiste forse – come scrive Benasayag, in termini che è difficile non condividere – nella sua apparente ‘neutralità’, ossia nel fatto che la penetrazione del potere nella vita avviene sotto le spoglie di una ‘tecnica’, di cui è impossibile negare i benefici:

«Si obietterà, forse, che non bisogna in ogni caso attribuire intenzioni a uno strumento tecnico che, malgrado tutto, è sempre possibile rifiutare. Ma il potere stesso della tecnica, nel nostro caso medica, dipende dal fatto che essa avanza in modo non ideologico. È in questo stato che essa determina una biopolitica, una strategia senza stratega di gestione delle popolazione ‘a rischio’, e così pure dei rischi legati alle popolazioni. Peraltro, è il caso di insisterci, tale potere consiste nel fatto che impone una visione completamente normativa di quel che dobbiamo essere. Ciò che la prevenzione oggi banalizzata mette in luce è il modo unilaterale di considerare l’handicap e la persona handicappata. Abbiamo un bel dichiarare con fierezza che le nostre società post-moderne non hanno un modello d’uomo e che siamo democratici: eppure pratichiamo un’eugenetica vera e propria! Quest’ipocrisia rivela che, ben lungi dai discorsi lenitivi di chi arriccia il naso appena si pronuncia la parola ‘handicappato’ – perché pretende di aver superato quei confini decisamente troppo normativi -, le nostre società post-moderne procedono alla messa in atto di processi ultra-repressivi che tendono a uniformare la vita riconducendola a modelli egemonici. La biodiversità è attaccata anche sul terreno dell’umano. E questo, beninteso, in nome della massimizzazione del bene di tutti, in una società che si appresta a tollerare tutte le differenze… il giorno in cui non ce ne sarà nessuna. Dietro l’‘uomo senza qualità’, si nascondono norme molto precise relative a ciò a cui gli uomini devono servire!» (p. 29).

L’insidiosa penetrazione di un’eugenetica soft riflette però un meccanismo più generale, in cui si può ritrovare la conseguenza più dirompente della costruzione dell’orizzonte del post-umano. Dal momento che il bio-potere procede dalla visione di un «uomo delle competenze», non può che prefigurare il post-umano nei termini di una progressiva «artefattualizzazione della vita»: poiché l’uomo è concepito come un aggregato di competenze che il sapere medico può scomporre e conoscere, poiché è raffigurato «come la superficie liscia (quindi senza qualità), senza rugosità né sporgenze, sulla quale si vanno ad aggregare delle competenze in vista di un ‘rendimento ottimale’», il biopotere può pensare il post-umano come un processo capace di aggiungere sempre nuove funzioni. In questa concezione, in cui è ovviamente assente fin dal principio l’idea che la funzione sia sempre integrata in un organismo, «il tutto dell’organismo è considerato migliorabile all’infinito dalla tecnica», «aggiungere una parte è sempre considerato positivo», e, ovviamente, «le possibilità di modifica dell’organismo aperte dalla tecnica hanno dunque la tendenza ad apparirci spontaneamente sotto la forma di un progresso» (p. 97). Nel concepire la tecnica come neutrale, e nell’immaginare il suo progresso come sempre positivo, il biopotere si trova evidentemente a sottovalutare l’eventualità – tutt’altro che ipotetica – che la tecnica diventi incontrollabile e che possa essere piegata agli usi più inquietanti, senza che d’altronde sia più neppure possibile più opporsi alla sua marcia in nome della vecchia immagine umanistica dell’essere umano. In altre parole, il tratto più insidioso del modo in cui si delinea l’orizzonte del post-umano coincide con la convinzione che le possibilità consegnate dalla tecnica siano, prima ancora che opportune, inevitabili e obbligatorie:

«La caratteristica del biopotere e della sua biopolitica risiede nel fatto che tutto ciò che la tecnica rende possibile, a più o meno breve termine, tende a diventare obbligatorio. La strategia (senza stratega) vuole che la questione della modificazione del vivente (e quindi della specie umana) venga presentata, in modo completamente innocente e neutro, come l’apertura di nuove possibilità che la tecnica metterebbe, gentilmente, a nostra disposizione, e che noi possiamo o meno ‘acquistare’… Cittadini consumatori nell’età del biopotere, quindi consumatori di salute e di vita continuata, crediamo in questo racconto, così come scegliamo, con il nostro libero arbitrio beninteso, di acquistare o meno questa o quella competenza che ci viene offerta sul mercato. E non è certamente in nome di un ipotetico e, soprattutto, astratto ‘carattere sacro della vita’, neanche della vita umana, che potremo orientare o delimitare, o addirittura determinare gli sviluppi della tecnica, perché sappiamo benissimo (fin troppo bene) che la cosa diventerà, un giorno o l’altra, obbligatoria. La tecnica (e in particolare la tecnica applicata ai fenomeni della vita) non produce mai possibilità opzionali: o le possibilità esistono, o non esistono (ancora), ma, se esistono, diverranno obbligatorie. Mentre produce i suoi oggetti, la tecnica produce, anche… soprattutto… una norma» (p. 98).

Per quanto possa dare la sensazione di rimpiangere nostalgicamente il passato, Benasayag è d’altronde ben consapevole che l’avvento del biopotere innesca processi irreversibili, e che la via che conduce a un ritorno alla centralità dell’essere umano è ormai di fatto impraticabile, nel senso che un recupero della concezione umanistica dell’uomo non può rappresentare un argine adeguato e credibile dinanzi alla «dispersione della vita naturale e culturale, che conosce gli esseri solo come aggregati utilizzabili» (p. 96). Nell’epoca del post-umano, ai suoi occhi, «la vera sfida passa attraverso il conflitto che oppone da un lato le tendenze alla dispersione (quelle che costruiscono chimere e artefatti che, così facendo, distruggono dimensioni della vita e della cultura) e, dall’altro lato, lo sviluppo di molteplici correlazioni (uomo/natura/ambiente/tecnica) che forma la nuova unità […] e che non si fonda su di un’angusta visione delle nuove possibilità tecniche» (ibidem). In altre parole, «l’alternativa non è tra la tecnoscienza associata all’economia da un lato e il ritorno alle caverne dell’altro» (p. 99), ma piuttosto – dinanzi alla realtà ormai prossima di una «artefattualizzazione della vita» capace di modificare non solo il fenotipo, ma lo stesso genotipo –di elaborare strategie e riflessioni adeguate a fronteggiare il rischio che l’epoca del post-umano possa essere interamente assorbita dentro la normatività. In questo scenario, i margini di una possibile resistenza non vengono consumati interamente, e – osserva Benasayag - «la costruzione delle entità miste, o addirittura degli ibridi, può essere pensata in progetti di emancipazione», come ritengono le diverse declinazioni affermative della biopolitica. Ma – avverte - «è importante sottolineare che mai costruzione e resistenza sono state così vicine, quasi sinonimi» (p. 102). Il punto cruciale non consiste allora nella negazione del post-umano, bensì nella costruzione di un terreno conflittuale «a partire dal quale la logica utilitaristica del biopotere potrà essere superata». Ciò comporta, però, prendere atto che l’«artefattualizzazione della vita» con cui il bio-potere riduce gli essere umani ad aggregati di organi e funzioni, e con cui punta a ottimizzarne le potenzialità produttive, non è un processo privo di alternative. E, soprattutto, impone di interrogarsi su cosa sia davvero la «vita». «Quel che si chiede» - scrive infatti Benasayag, proprio alla conclusione del suo lavoro - «è infatti sapere in cosa consista quella vita in nome della quale il biopotere avanza, anche quando la trasforma in sopravvivenza… Il punto di vista che pretende di trattare l’insieme del vivente come un aggregato di competenze utilizzabili non è moralmente condannabile. Si tratta di capire che l’utilitarismo, che ama presentarsi come la sola realtà possibile, non lo è» (p. 103).
Ovviamente, la proposta di Benasayag può lasciare insoddisfatti non solo i sostenitori delle potenzialità del post-umano, che ritrovano in una simile impostazione una indebita interferenza nella traiettoria del progresso scientifico, ma anche tutti coloro che – sulla base di opzioni valoriali e prospettive politiche differenti – intravedono risvolti negativi e derive deleterie nell’ipotesi di un’integrazione fra essere umano e macchina, e più in generale nella possibilità di modificare la dotazione di ciascun individuo, o della stessa specie umana, mediante gli strumenti offerti dallo sviluppo tecnologico. Ciò nondimeno, è difficile sostenere che il passaggio oltre la soglia biopolitica, dentro uno scenario in già si profilano i contorni di una sorta di nuova «condizione post-umana», non comporti la necessità, l’urgenza, ma anche la difficoltà di elaborare strategie di resistenza – teoriche e pratiche – a un processo all’apparenza inevitabile. E il fascino del post-umano consiste d’altronde proprio nel suo carattere ‘inevitabile’, perché l’orizzonte della possibile liberazione dal dolore, indicato dalla tecnica e dall’evoluzione del sapere medico, non può non apparirci travolgente, perché non possiamo cedere al suo fascino, e perché non possiamo non adottarne la prospettiva. Per questo, non possiamo che abbandonare ogni residuo scrupolo morale, o aggirare sbiadite tracce di etiche ‘obsolescenti’, forzando i vecchi precetti all’insopprimibile esigenza di proteggere il fragile corpo in cui siamo ospitati. Ma, in questo modo, non possiamo non cedere alla penetrazione del potere nella vita, non possiamo che spianare la strada alla marcia del biopotere proprio dentro la vita.
Il biopotere di oggi, il biopotere che si insinua quotidiana nella nostra vita, è certo diverso da quello di cui Foucault, nel primo volume della sua Storia della sessualità, aveva intravisto le origini intorno alla metà dell’Ottocento. Allora, smontando lo schema della ‘repressione’ sessuale, ereditato dalla Tiefenpsychologie e declinato in mille direzioni dal freudo-marxismo, Foucault puntava a mostrare come l’idea stessa di una ‘liberazione’ delle pulsioni sessuali si inquadrasse coerentemente in quel dispositivo biopolitico che aveva prodotto la «sessualità», come oggetto di studio, di riflessione, di controllo. Oggi, la scomposizione dell’essere umano in un «uomo senza qualità», in un insieme di organi, in una somma di capacità, attiene a una fase molto più avanzata di questo processo. Il biopotere contemporaneo rivela un’«artefattualizzazione della vita» molto più elaborata e complessa, che chiama costantemente, ciascuno di noi, a sorvegliare ‘responsabilmente’ il nostro corpo, i nostri organi, persino il nostro stato psichico, in ogni momento e in ogni fase della nostra esistenza. Ma, nonostante questa modificazione, il meccanismo implacabile rimane lo stesso. Nel momento in cui ci dischiude la speranza di una salvezza dalla malattia, dal dolore, persino nella fase terminale che conduce alla morte, penetra dentro la nostra la vita, la scompone, chiama ciascuno di noi a farsi responsabile custode dell’efficienza del nostro corpo, dei nostri organi, del nostro stato psichico. E l’ironico, terribile paradosso – come scriveva Foucault – è che ci fa credere che ne vada della nostra liberazione.

Damiano Palano