di Damiano Palano
Questo articolo è apparso sulla Rivista di Politica on line.
«L'idraulico / non verrà. L'impercettibile / passo da scroscio a filo, /a scroscio eluderà / senza fine / la tua mano millimetrata» (Fruttero & Lucentini, L'idraulico non verrà, in L'idraulico non verrà, Mario Spagnol, Milano, 1971; II ed. il melangolo, Genova, 1993, p. 9). Il vecchio epigramma di Fruttero e Lucentini non può non tornare alla mente in questa fine 2011. Perché le speranze riposte nell’intervento salvifico di un esecutivo ‘tecnico’ sembrano davvero molto simili alla trepidazione con cui si attende l’arrivo dell’idraulico, dopo che ogni maldestro tentativo di arrestare una perdita d’acqua, o di sturare un lavandino intasato, si è rilevato fallimentare. La fiducia generosamente nutrita nei confronti del governo ‘tecnico’ risulta infatti tanto più elevata quanto più sono cresciute negli ultimi anni la sfiducia, il disincanto, e forse persino il disprezzo, nei confronti di un ceto politico dimostratosi – a dispetto del proprio professionismo – del tutto vicino all’improvvisazione e alla cialtroneria supponente del più imbranato bricoleur della domenica. Naturalmente, l’Italia – con tutti i suoi problemi – non è un tubo che perde o uno scarico intasato, e proprio per questo le soluzioni ‘tecniche’ non saranno né così facili, né così miracolose come si tende a pensare (e a sperare) in questi giorni. Ma la tentazione di pensare che l’Italia possa riuscire a risollevarsi e a risolvere i suoi principali problemi non grazie alla politica, ma ‘nonostante’ la politica (o addirittura togliendola di mezzo, almeno temporaneamente), non ritrova la propria forza solo oggi, in coincidenza con una delle più grandi crisi che l’Italia repubblicana abbia vissuto. Al contrario, si potrebbe dire che l’«eccesso» di politica è una delle chiavi interpretative più fortunate dell’intera storia unitaria, capace in fondo di spiegare i molti tratti dell’«anomalia» italiana. Non è allora così sorprendete che il carattere ‘tecnico’ degli esecutivi torni con singolare regolarità proprio nei momenti più drammatici, che peraltro segnano anche – come nel caso del governo Badoglio, o nel caso del governo Amato (il cui profilo ‘tecnico’ era assai meno netto) – gli snodi di passaggio da una stagione politica all’altra. Perché, in qualche modo, l’esecutivo ‘tecnico’ sembra davvero giocare la parte dell’idraulico, chiamato periodicamente a ‘liberare’ il Paese da quella politica che ne ha intasato i flussi economici e sociali, e che ne ha provocato il ‘ristagno’.
Una simile lettura è alla base anche di Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi (Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 132, euro 14.00), in cui Michele Salvati abbozza un’interpretazione senz’altro ambiziosa, se non del tutto originale, del fallimento della ‘Seconda Repubblica’ e della condizione di ristagno economico che ha contrassegnato l’Italia negli ultimi dieci anni e che è alla radice – almeno in parte – della situazione odierna. L’interpretazione di Salvati è ambiziosa perché non punta l’indice sulla ‘tara genetica’ della ‘Seconda Repubblica’, sul fatto che la sua vicenda sia stata segnata in modo indelebile dalla ‘discesa in campo’ di un magnate della comunicazione, o sulle misure adottate nei quasi diciotto anni trascorsi dal 27 marzo 1994. Salvati, nella sua lettura, va molto più indietro. Non certo perché intenda assolvere da gravi responsabilità gli esecutivi e le forze politiche che hanno governato il Paese negli ultimi due decenni, ma, piuttosto, perché intende mettere in luce il peso che – sull’inefficienza più recente – ha giocato l’eredità dei governi di centro-sinistra, ossia dell’ultimo trentennio della ‘Prima Repubblica’. Da questo punto di vista, l’obiettivo polemico sotteso all’intero volume – che accoglie tre saggi nati da circostanze diverse – è esplicitato da Salvati proprio nelle pagine introduttive: «All’origine» - scrive infatti l’economista – «stava il mio fastidio per un’opinione che andava diffondendosi negli anni scorsi e sosteneva che la ‘colpa’ andava cercata nel bipolarismo esasperato della Seconda Repubblica, mentre la Prima aveva adottato politiche assai migliori. Questo è un falso storico: si può certo discutere se il sistema elettorale maggioritario e il bipolarismo che esso induce siano adatti al nostro paese, ma è molto difficile sostenere che le politiche economiche perseguite nella Prima Repubblica siano state un modello di virtù ed è impossibile negare che essi ci abbiano lasciato in eredità problemi gravissimi. Il debito pubblico anzitutto, ma soprattutto un enorme arretrato di riforme strutturali» (p. 10). Ma, se individua le radici del fallimento della ‘Seconda’ nell’eredità consegnata dalla ‘Prima Repubblica’, Salvati si spinge in realtà ancora più indietro, alla ricerca di radici ancora più profonde, che avrebbero influito negativamente sull’efficienza del sistema politico italiano, oltre che – in modo quasi distruttivo – sullo sviluppo economico del Paese.
Una simile lettura è alla base anche di Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi (Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 132, euro 14.00), in cui Michele Salvati abbozza un’interpretazione senz’altro ambiziosa, se non del tutto originale, del fallimento della ‘Seconda Repubblica’ e della condizione di ristagno economico che ha contrassegnato l’Italia negli ultimi dieci anni e che è alla radice – almeno in parte – della situazione odierna. L’interpretazione di Salvati è ambiziosa perché non punta l’indice sulla ‘tara genetica’ della ‘Seconda Repubblica’, sul fatto che la sua vicenda sia stata segnata in modo indelebile dalla ‘discesa in campo’ di un magnate della comunicazione, o sulle misure adottate nei quasi diciotto anni trascorsi dal 27 marzo 1994. Salvati, nella sua lettura, va molto più indietro. Non certo perché intenda assolvere da gravi responsabilità gli esecutivi e le forze politiche che hanno governato il Paese negli ultimi due decenni, ma, piuttosto, perché intende mettere in luce il peso che – sull’inefficienza più recente – ha giocato l’eredità dei governi di centro-sinistra, ossia dell’ultimo trentennio della ‘Prima Repubblica’. Da questo punto di vista, l’obiettivo polemico sotteso all’intero volume – che accoglie tre saggi nati da circostanze diverse – è esplicitato da Salvati proprio nelle pagine introduttive: «All’origine» - scrive infatti l’economista – «stava il mio fastidio per un’opinione che andava diffondendosi negli anni scorsi e sosteneva che la ‘colpa’ andava cercata nel bipolarismo esasperato della Seconda Repubblica, mentre la Prima aveva adottato politiche assai migliori. Questo è un falso storico: si può certo discutere se il sistema elettorale maggioritario e il bipolarismo che esso induce siano adatti al nostro paese, ma è molto difficile sostenere che le politiche economiche perseguite nella Prima Repubblica siano state un modello di virtù ed è impossibile negare che essi ci abbiano lasciato in eredità problemi gravissimi. Il debito pubblico anzitutto, ma soprattutto un enorme arretrato di riforme strutturali» (p. 10). Ma, se individua le radici del fallimento della ‘Seconda’ nell’eredità consegnata dalla ‘Prima Repubblica’, Salvati si spinge in realtà ancora più indietro, alla ricerca di radici ancora più profonde, che avrebbero influito negativamente sull’efficienza del sistema politico italiano, oltre che – in modo quasi distruttivo – sullo sviluppo economico del Paese.
Nel primo capitolo, Salvati scorge infatti un tratto che accomuna più o meno l’intera storia unitaria, ossia l’impossibilità di una effettiva, reale alternanza al governo. Ciò è vero infatti per i circa sessant’anni che vanno dall’Unità fino al regime fascista, perché la presenza di forze anti-sistema – l’estrema sinistra e le forze cattoliche – finiscono col rendere lo spettro della dialettica parlamentare piuttosto ridotto e, soprattutto, col generare quel «trasformismo» che impedisce una dinamica effettivamente bipartitica. «C’era la possibilità, in Italia, di fare come in Gran Bretagna? C’erano discriminanti culturali e ideologiche cui gli attori fossero sensibili? C’era spazio per due maggioranze alternative e contrapposte? La risposta la danno gli ultimi trent’anni dell’era liberale: la lotta politica, in quegli anni, fu soprattutto una lotta interna all’unica grande maggioranza, mai la formazione di una maggioranza alternativa» (p. 34). Stretto fra minoranze anti-sistema, il regime rappresentativo dell’età liberale – che Salvati chiama per tutte le sue fasi, forse un po’ troppo generosamente, «democrazia» - non è in grado di resistere dinanzi all’allargamento del suffragio, e cede così il passo al regime. Ma una situazione molto simile si riproduce anche dopo il secondo conflitto mondiale, con il «bipartitismo imperfetto» della ‘Prima Repubblica’: «I termini del problema cambiano nel secondo dopoguerra, dopo il passaggio da una democrazia di notabili a una democrazia di partiti. Ma l’esito è simile: la formazione di un ceto di governo permanente, soggetto a periodici assestamenti interni […], ma non il frutto di una scelta degli elettori tra programmi alternativi» (p. 41). Il punto più significativo è costituito dall’allargamento della maggioranza al Partito socialista, con la creazione della formula del centro-sinistra, destinata a governare per un trentennio, fino al tracollo del sistema dei partiti al principio degli anni Novanta. «Governare con coerenza, rispondere con fermezza a domande sociali sempre più pressanti, non era però facile in queste condizioni. Il sindacato, allora in una fase di forte crescita, aveva un facile accesso a tutte le forze di governo. E queste erano tallonate da un’opposizione comunista aggressiva e abile: fuori dall’area delle responsabilità di governo, è vero, ma ben dentro l’area delle sue risorse e decisioni» (p. 44). Più precisamente, scrive Salvati: «le classi dirigenti di questa democrazia imperfetta molte volte non furono all’altezza della situazione e mancarono non poche occasioni di miglioramento economico e sociale. E soprattutto lasciarono in eredità al periodo successivo, alla Seconda Repubblica, problemi molto gravi, di cui quello sul debito pubblico è solo il sintomo più appariscente» (p. 45).
Questa tesi viene ulteriormente ripresa nel secondo capitolo, in cui Salvati tenta di spiegare il ristagno economico degli ultimi dieci anni proprio tornando all’eredità dei governi di centro-sinistra, costruiti sull’alleanza fra Democrazia Cristiana e Partito Socialista, avviati al principio degli anni Sessanta e giunti fino alla fine della ‘Prima Repubblica’. Da questo punto di vista, la posizione di Salvati è chiara, e formulata in modo peraltro esplicitamente scheletrico: «siamo entrati negli ultimi dieci anni in una situazione di rallentamento economico più grave degli altri paesi europei a seguito delle scelte (e delle mancate scelte) delle classi dirigenti del centro-sinistra» (p. 63). In questo modo, Salvati non addossa ogni responsabilità ai partiti che fecero parte delle maggioranze di governo, perché, a ben vedere, non sottrae una quota rilevante di colpe anche all’opposizione comunista, giudicata anzi come «l’elemento determinante di un sistema politico incapace di controllare le tensioni distributive di breve periodo e attuare le necessarie riforme strutturali» (p. 63). In sostanza, le principali responsabilità che Salvati imputa all’ultimo trentennio della ‘Prima Repubblica’ sono due: in primo luogo, il mancato intervento sulle tensioni distributive di breve periodo, che nel resto dei Paesi europei vengono risolte negli Settanta e Ottanta, mentre in Italia si protraggono fino agli anni Novanta; in secondo luogo, l’assenza di quelle riforme strutturali in grado di sostenere lo sviluppo mediante il miglioramento delle condizioni dell’offerta (dal lavoro, alla politica industriale, alla scuola, all’università, ai trasporti, alle infrastrutture, ecc.). E la causa di queste due colpe è da ritrovare proprio nella ‘classe dirigente’ italiana: «una classe dirigente travolta dal conflitto distributivo di breve periodo e in cui prevalgono visioni ideologiche e conflittuali circa le riforme di lungo periodo!» (p. 66).
La tesi di Salvati è naturalmente tanto suggestiva, quanto – almeno espressa in questi termini – piuttosto generica, ma, in realtà, il ragionamento dell’economista va un po’ più a fondo, perché si interroga sulle reali motivazioni dell’inadeguatezza della classe dirigente. E, da questo punto di vista, il suo ragionamento ruota attorno a due poli principali: uno più generale, che costituisce lo sfondo dell’interpretazione, e uno più specifico, centrato proprio sullo snodo dei governi di ‘centro-sinistra’. In primo luogo, le difficoltà delle riforme strutturali derivano dalle peculiarità dello State-building e del Nation-building: «in buona misura esse risiedono in caratteri provenienti da un lontano passato, in mentalità e costumi profondi che era (ed è) assai difficile modificare, al fine di creare una pubblica amministrazione efficiente e un Mezzogiorno capace di sviluppo capitalistico autonomo» (pp. 68-69). In secondo luogo – ed è qui, per la verità, che si concentra l’attenzione di Salvati – il fallimento va spiegato come un fallimento della politica: «è sul sistema politico e sulle culture politiche emerse dal dopoguerra che dobbiamo fissare l’attenzione. […] è alla politica che dobbiamo far risalire le principali responsabilità, perché è alla politica che, in un sistema democratico, si chiedono soluzioni» (p. 69). Proprio perché la politica gioca un ruolo così importante nella spiegazione del ‘ristagno’ odierno, per Salvati è allora vitale capire perché la politica in Italia sia risultata così inadeguata. E, in fondo, le cause sono le medesime che Salvati individua alla base delle ‘anomalie’ della democrazia italiana, e, cioè, il sistema dei partiti e la cultura politica. Da un lato, la conventio ad exludendum nei confronti del Partito Comunista, che determinò non solo l’impossibilità dell’alternanza, ma anche l’allargamento al Psi delle maggioranze governative, col risultato di una convivenza anomala tra due forze di fatto incompatibili: «date le loro differenze ideologiche e i diversi interessi rappresentati, normalmente i socialisti e i democristiani costituivano in Europa i due poli dell’alternanza democratica. Nel lungo andare i conflitti ideologici-programmatici si attenuarono, certo; ma si inasprirono i conflitti di potere, aventi per oggetto la spartizione delle risorse pubbliche. Dal punto di vista di un riformismo decente, di impianto liberale, è difficile dire quale delle due cause di conflitto sia stata la più nociva» (p. 71). Dall’altro lato, Salvati punta l’indice contro le culture politiche, o, meglio, contro le tradizioni politico-ideologiche dei principali partiti italiani: «Nessuno dei due grandi partiti del ‘pluralismo polarizzato’ (Giovanni Sartori) o del ‘bipartitismo imperfetto’ (Giorgio Galli, ma è più convincente l’analisi del primo) è erede della tradizione liberale, assai debole dopo il fascismo» (p. 71). E questo ‘vizio genetico’ spiega – secondo Salvati – tutte le conseguenze successive: «Finita l’industrializzazione ‘facile’ del primo dopoguerra, le visioni di politica economica delle culture cattoliche, socialiste e comuniste non erano certo quelle più idonee a indirizzare un’economia di mercato che stava avviandosi a una complessità crescente. In particolare non lo erano quelle della sinistra dove, fino alla fine degli anni ’80, furono prevalenti orientamenti culturali difficilmente spendibili per un moderno riformismo, orientamenti di cui Rifondazione comunista e gli altri partiti della sinistra radicale rappresentano oggi l’estrema propaggine ma che allora erano dominanti nell’intero Pci. Lo stesso Psi, ancorché staccatosi dall’alleanza col Pci dei primi anni ’60, ci mise molto tempo ad acquisire orientamenti di socialismo liberale: bisognerà aspettare Craxi e la fine degli anni ’70. Ma una volta acquisiti orientamenti più moderni, l’anomalia italiana del sistema politico e le lotte di potere con i democristiani sulla spartizione delle risorse pubbliche impedirono al Psi di esercitare appieno la funzione modernizzatrice e liberale che avrebbe potuto avere» (pp. 71-72).
Quando Salvati assegna le responsabilità del ristagno dell’ultimo decennio ai governi Dc-Psi (e all’opposizione allora esercitata dal Pci), non intende certo sminuire le colpe dei governi della ‘Seconda Repubblica’, i quali hanno a lungo sottovaluto – o addirittura negato – la consistenza stessa del fenomeno, ma, piuttosto, ne attenua le colpe, evidenziando il peso ereditato dal passato. Dall’intero affresco dipinto dall’economista, gli unici escutivi che emergono in positivo, e che si sono sottratti alla lunga catena di inadempienze, sono però gli esecutivi ‘tecnici’ (in realtà, solo parzialmente ‘tecnici’) che si avvicendarono tra la ‘Prima ’ e la ‘Seconda Repubblica ’, ossia i governi Amato, Ciampi e Dini. Questi governi – scrive infatti Salvati – si sono mossi «nella direzione giusta, quando hanno cercato di introdurre nel sistema elementi di liberalizzazione, di efficienza e di competizione necessari nell’attuale fase economica mondiale», anche se «il problema di fondo è che le riforme sono state calate in un contesto fortemente deteriorato» (p. 76). Ed è proprio da questo passaggio che Salvati prende le mosse per sviluppare il terzo capitolo, dedicato alla nuova anomalia della ‘Seconda Repubblica’, che ha finito col riproporre – seppur nella nuova veste di un sistema bipolare – la vecchia divaricazione fra «due nazioni», irresolubilmente opposte l’una all’altra. L’economista si chiede allora – e si aggiunge in questo senso a una schiera ormai molto folta – quali siano stati i motivi che hanno spinto milioni di italiani a sostenere con convinzione l’avventura politica di un magnate televisivo, nonostante gli scarsi risultati conseguiti e a dispetto di difficoltà economiche sempre più evidenti. E le risposte che fornisce sono di tre tipi. Innanzitutto, la prima spiegazione è culturale, addirittura sotto un duplice profilo: in primo luogo, la ‘Seconda Repubblica ’ porta nel proprio codice genetico un deficit di fiducia nello Stato e una forte partigianeria, di natura politica, morale, religiosa; in secondo luogo, il nuovo sistema dei partiti eredita, di fatto, una frattura ideologica precedente, che viene semplicemente riformulata in base alla nuova offerta politica: «Berlusconiani e antiberlusconiani sono in realtà gli eredi di una vecchia divisione – sinistra e destra, comunismo e anticomunismo – riformulata e radicalizzata dall’evoluzione bipolare del sistema politico e dalla presenza di Silvio Berlusconi» (p. 111). La seconda risposta attiene invece all’interazione fra partiti e società: in questo senso Salvati sostiene che la forte contrapposizione fra i due poli non è un prodotto dei partiti, perché questi ultimi avrebbero ‘polarizzato’ le proprie offerte comunicative proprio per soddisfare una richiesta proveniente dal ‘mercato’ elettorale, e cioè da una società con caratteristiche molto lontane dal clima del bipartitismo anglosassone. Infine, l’ultima spiegazione chiama in causa la debolezza delle alternative offerte dal centro-sinistra: una debolezza comunicativa, organizzativa e storica (ossia legata alle difficoltà delle forze socialdemocratiche europee nel passaggio al XXI secolo).
Al termine dei suoi Tre pezzi facili, è prevedibile che Salvati guardi con qualche timore al futuro, ma è quasi scontato che consideri l’eventualità – le sue parole risalgono in questo caso all’agosto del 2011, quando l’ipotesi di un governo Monti era poco più che un’esercitazione fantapolitica – di un esecutivo tecnico, capace di adempiere a quel compito quasi impossibile che svolsero i governi Amato e Ciampi nel crepuscolo della ‘Prima Repubblica’. Ma, sotto questo profilo, Salvati elenca le numerose differenze che esistono fra la situazione odierna e quella del ‘92-’93: differenze che riguardano il quadro politico, allora del tutto destabilizzato, e ora invece molto più solido; ma, in particolare, differenze relative alla situazione economica, perché l’Italia non ha più a disposizione quelle risorse che tradizionalmente aveva utilizzato per recuperare competitività. «Oggi, con l’euro, quella risorsa non è più disponibile e, oltre a una dura immediata stabilizzazione fiscale, le riforme che dovrebbero essere attuate sono di un tipo assai più penoso, un lavoro di bisturi e di ricostruzione plastica su molti punti sensibili del corpo economico e sociale, non semplici tagli con una sciabola macroeconomica. E sono riforme necessariamente lente nel produrre effetti sulla crescita, ciò che rende l’autorità politica necessaria a imporle ancor maggiore, perché deve resistere per un tempo assai lungo. Da ciò consegue che una semplice ripetizione della storia degli anni ’90 non sembra una strategia molto promettente» (p. 129).
Nell’arco di poche settimane, la situazione è notevolmente cambiata rispetto a quella che Salvati presagiva come ipotetica al termine dei Tre pezzi facili, ma, ciò nondimeno, le sue considerazioni non rimangono oggi meno valide. La scelta di un esecutivo tecnico, e di emergenza, era pressoché inevitabile, dinanzi alla situazione di stallo determinatasi di fatto dopo il 14 dicembre 2010, e soprattutto dinanzi alla tempesta speculativa scatenatasi nell’agosto scorso e proseguita nei mesi successivi. Ma la fragilità di questa scelta rimane evidente a tutti, e proprio a questo proposito emergono ulteriori differenze rispetto al principio degli anni Novanta. Oggi, l’Italia proviene effettivamente da un ‘ristagno’ economico decennale, che ha peraltro profondamente cambiato la geografia dell’Italia produttiva, indebolendo alcuni di quelli che erano stati a lungo i suoi punti di forza. I sacrifici che il governo Monti si troverà a imporre agli italiani non potranno che pesare ulteriormente su un corpo divenuto sempre più fragile, e così – a dispetto delle invocate misure sulla crescita – è molto probabile che gli effetti di breve periodo saranno recessivi, forse persino fortemente recessivi. Inoltre, non si può dimenticare che la prospettiva del risanamento e dei ‘sacrifici’, che guidò i governi Amato e Ciampi fu fortemente facilitata, negli anni Novanta, oltre che dalla debolezza di un Parlamento di fatto delegittimato, anche dalla prospettiva dell’ingresso nell’unione monetaria (e dunque dallo spettro dell’esclusione dalla moneta unica). Oggi questo fattore non è venuto meno, perché è chiaro che l’unica molla che può realmente consentire un sostegno politico e sociale delle misure adottate dal governo Monti sarà proprio l’eventualità dell’uscita dall’eurozona: un’eventualità che comporterebbe – comunque la si pensi sugli effetti prodotti dall’unificazione monetaria – costi sociali ed economici enormi per tutta l’area, e in particolare costi politici straordinari proprio per l’Italia, cui verrebbero imputate le responsabilità principali di una catastrofe senza precedenti negli ultimi settant’anni. Dinanzi a queste pressioni, è evidente che solo i partiti collocati alle estremità dell’attuale arco parlamentare (e all’esterno del Parlamento) potrebbero cedere alla tentazione di defilarsi, senza però assumersi il peso di una scelta dalle conseguenze tanto dirompenti. E, in un simile quadro, ci si dovrebbe attendere che l’attuale esecutivo concluda la propria esperienza nel 2013, in corrispondenza con le elezioni che potrebbero far nascere la ‘Terza Repubblica ’ . Ma, qualora il quadro internazionale dovesse cambiare, allora le cose potrebbero diventare sensibilmente diverse. In altre parole, qualora divenisse chiara l’intenzione tedesca di tentare una soluzione diversa dall'approfondimento dell’integrazione, e qualora Berlino manifestasse la volontà di abbandonare l’unione monetaria (almeno per come oggi l’abbiamo conosciuta), la tentazione di giocare la carta della radicalizzazione diventerebbe molto più forte. E, così, anche alcune delle componenti che attualmente sostengono il governo Monti potrebbero inalberare le parole d’ordine dell’antieuropeismo, del nazionalismo anti-tedesco (o anti-francese), del ‘sovranismo’, o persino il motivo polemico della ‘democrazia dei popoli’ contro la ‘tecnocrazia dei poteri forti’. Questo scenario non è ovviamente tranquillizzante, perché ci si troverebbe in questo caso di fronte a un’instabilità finanziaria e valutaria notevole (con la possibilità di svalutazioni), a un quadro economico sostanzialmente recessivo e, infine, a una ‘polarizzazione’ politica ancora più marcata rispetto a quella che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, perché alcune forze – mosse dai motivi più differenti – si troverebbero prive di quelle pressioni esterne che ne hanno finora ‘responsabilizzato’ le tendenze ‘populiste’ (ma l’aggettivo in questo caso è inadeguato).
Se, dunque, i timori di Salvati sulla fragilità di un governo ‘tecnico’ – timori che, a ben vedere, l’economista esplicita solo in parte – sembrano in effetti fondati, almeno a giudicare dalla situazione che ha preso forma nelle ultime settimane, sono invece più discutibili le ipotesi esplicative al cuore dei Tre pezzi facili. Non ci sono dubbi sul fatto che l’interpretazione di Salvati sia suggestiva, e non ci sono neppure molti dubbi sul fatto che le classi dirigenti italiane e il ceto politico tanto della ‘Prima’ quanto della ‘Seconda Repubblica’ siano risultati spesso del tutto inadeguati, dal punto di vista politico, economico, morale, rispetto ai compiti che avrebbero dovuto affrontare. Ma la spiegazione di Salvati – proprio mentre addossa le colpe, o gran parte delle colpe, alla politica – si muove all’interno di una dicotomia che finisce col diventare fuorviante. Non soltanto per quanto concerne la valutazione dell’operato dei governi ‘tecnici’ o del primo governo Prodi (perché, a ben vedere, rimane quantomeno altrettanto convincente la lettura, opposta a quella proposta da Salvati, secondo cui proprio le ‘liberalizzazioni’ e le ‘privatizzazioni’ introdotte da quei governi, in combinazione con le operazioni sui salari e sul mercato del lavoro e con il successivo ingresso nell’eurozona, avrebbero contribuito a spingere l’Italia verso l’attuale ristagno). Ma, soprattutto, per quanto concerne il rapporto fra il patrimonio della ‘cultura politica’ degli italiani e il rendimento del sistema politico. E, in questo senso, il ragionamento di Salvati ha precedenti molto solidi.
In effetti, ipotesi molto simili a quelle di Salvati si trovano già in uno dei primi articoli di Gabriel Almond, pubblicato alla metà degli anni Cinquanta (Comparative Political Systems, in «Journal of Politics», 1956, pp. 391-409), in cui il politologo inizia a delineare uno schema di comparazione fra diversi sistemi politici. Il cuore della sua ipotesi è già occupato dalla nozione di «cultura politica», perché, a suo avviso, proprio le caratteristiche della cultura politica possono spiegare la stabilità o l’instabilità dei regimi democratici. In particolare, Almond si concentra su una comparazione fra i sistemi anglo-americani e i sistemi europei continentali. In sostanza, secondo il politologo, i sistemi politici anglo-americani sono contrassegnati da una cultura politica secolarizzata, pragmatica, ma omogenea rispetto ai valori e agli orientamenti politici fondamentali: in questi paesi, la differenziazione dei ruoli politici di governo e di amministrazione è diffusa e consolidata, il sistema politico assume la fisionomia della democrazia anglosassone, e, soprattutto, la competizione politica assume l’atmosfera di un ‘gioco’, il cui esito non pone a rischio il rispetto delle regole. Al contrario, i sistemi politici europei continentali – tra cui sono considerati Francia, Germania e Italia – risultano caratterizzati da una cultura politica frammentata: in questi Paesi rimangono sopravvivenze del passato preindustriale, mentre persistono elementi culturali secolarizzati ed esistono tendenze prodotte dal processo di industrializzazione. Tali subculture hanno prospettive e valori mutuamente esclusivi e il mercato politico risulta in tal modo caratterizzato da una «generale alienazione»: la cultura politica, pertanto, non è adeguata al sistema politico. In sostanza, sebbene adottino istituzioni parlamentari e un sistema elettivo, questi Paesi non sono adeguati a queste istituzioni perché la loro cultura politica, frammentata e divisa sui valori di fondo, non consente che la competizione assuma i caratteri di un gioco. Proprio per questo, la dinamica democratica non può acquistare quella sorta di fluidità che invece contrassegna i sistemi anglo-americani. E, proprio da queste premesse, derivano sia le ricorrenti tentazioni ‘cesaristiche’, in grado di superare la situazione di stallo, sia le pratiche trasformistiche, capaci di surrogare – a livello di élite politica – l’assenza di mobilità fra i blocchi subculturali.
Come noto, queste ipotesi furono successivamente arricchite e rielaborate da Almond, anche nell’ambito della famosa ricerca sulla Civic culture condotta insieme a Sidney Verba alcuni dopo. Ma, al di là delle critiche indirizzate a questa immagine della cultura politica (e della cultura civica), è piuttosto evidente che il ragionamento di Salvati tende oggi a ricalcare in modo piuttosto fedele il ragionamento di Almond: la presenza di gruppi subculturali fra loro incompatibili e il ruolo minoritario degli orientamenti liberali sono infatti anche per Salvati all’origine tanto del trasformismo dell’Italia post-unitaria, quanto del crollo della democrazia negli anni Venti e, in seguito, del sistema ‘bloccato’ della ‘Prima Repubblica’. Ma Salvati non segue interamente l’ipotesi di Almond, perché, a differenza del politologo americano, considera anche l’azione svolta dal ceto politico. In effetti, Salvati parla di ‘cultura politica’ tanto per indicare le grandi tradizioni culturali degli italiani, quanto per indicare la cultura (di governo e di opposizione) del ceto politico. Ovviamente, tra le due dimensioni c’è un legame, ma non si tratta di un rapporto di necessaria identità, perché il ceto politico conserva sempre un margine di autonomia, sia nella propria opzione di scontro, sia nelle proprie scelte di mediazione. Ma, se Salvati concede al ceto politico una notevole autonomia potenziale, ritiene che in Italia il ceto politico non abbia storicamente dimostrato alcuna autonomia rispetto ai propri bacini subculturali. E, in fondo, proprio da questo deriverebbero tutte le conseguenze negative. In sostanza, ritiene infatti che le responsabilità principali del ristagno odierno e della scarsa qualità della democrazia vadano imputate proprio alla ‘politica’, ossia a una politica eccessivamente legata alle tradizioni politiche italiane, e troppo poco vicine alla cultura liberale. Proprio per questo, l’Italia sembra pagare il prezzo di un doppio legame col passato: in primo luogo, con le vecchie subculture; in secondo luogo, con una classe politica impregnata dei riferimenti ideologici di quelle subculture, e dunque distante da una moderna cultura liberale.
Quando Salvati riconosce una certa autonomia al ceto politico, evita di adottare una delle distorsioni principali nell’immagine della cultura politica proposta da Almond e dalle indagini degli anni Sessanta e Settanta. In queste letture, la cultura politica appare infatti come un sedimento ‘cristallizzato’, come una ‘essenza’ sempre uguale a se stessa, e non come un insieme di codici, simboli, ideologie che definiscono appartenenze e divisioni. Ma, se è opportuno riconoscere al livello politico una certa capacità di ‘costruire’, almeno in parte, la cultura politica, o quantomeno di ‘incanalare’ (e di ridisegnare) motivi culturali pre-esistenti, Salvati compie forse un passo eccessivo, perché – almeno potenzialmente – tende ad assegnare al ceto politico la facoltà di recidere quasi completamente i rapporti col passato e con i sedimenti subculturali. In altre parole, il nodo sta proprio nel modo in cui viene letto il rapporto fra la cultura politica e l’azione (reale e possibile) della classe politica. Ed è a questo proposito che Salvati, concedendo forse eccessiva ‘autonomia’ alla classe politica, sembra ritenere, da un lato, che i motivi del declino italiano e del ristagno contemporaneo siano dovuti a un eccessivo attaccamento delle classi dirigenti alle identità subculturali, e, dall’altro, che una possibile soluzione di questo ‘cortocircuito’ sarebbe potuta arrivare da una rottura della classe politica con il proprio retroterra subculturale. Ma, a ben vedere, anche questo ragionamento non è nuovo, come d’altronde non sono nuove le soluzioni che ne scaturiscono.
Nelle proprie considerazioni, pur solo di sfuggita, Salvati richiama la formula del «pluralismo polarizzato» di Sartori, giudicata come più appropriata rispetto al «bipartitismo imperfetto» di Galli. In realtà, però, l’analisi di Salvati sembra riprendere proprio lo schema che svolgeva Galli alla metà degli anni Sessanta, nel suo classico testo sul Bipartitismo imperfetto (Il Mulino, Bologna, 1966). Dopo aver ‘scoperto’ la sostanziale stabilità del comportamento di voto degli italiani, e dopo aver ‘scoperto’ la resistenza nel tempo delle ‘subculture’ politiche italiane, Galli riteneva che il sistema politico italiano fosse davvero simile a un bipartitismo, perché due partiti risultavano molto più rilevanti rispetto agli altri, ma che si trattasse anche di un bipartitismo reso ‘imperfetto’ dall’impossibilità dell’alternativa. Osservata retrospettivamente, quella ‘imperfezione’ ci appare come il risultato del sistema ‘bloccato’ della Guerra fredda, della conventio ad exludendum, del ‘fattore K’, come ebbe a definirlo Alberto Ronchey. Negli anni Sessanta, invece, Galli non ricorreva a questo schema, bensì proprio alla sostanziale continuità nel comportamento di voto soprattutto nelle zone subculturali: in questo senso, il voto degli italiani era ‘bloccato’ da fattori ‘culturali’, da appartenenze molto forti, e proprio da questa situazione derivava il carattere ‘imperfetto’ e anomalo del bipartitismo imperfetto. La soluzione poteva giungere da una ‘secolarizzazione’ politica, capace di indebolire le appartenenze subulturali, ma anche da un mutamento nell’offerta politica, ossia nella riduzione – da parte del Pci – di quelle dimensioni che potevano indurre paure e sospetti negli elettori potenzialmente disponibili a un cambiamento. In effetti, questa era proprio la ricetta che Galli avanzò in un suo testo successivo (Dal bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa, Il Mulino, Bologna, 1974), quando il referendum sul divorzio diede la sensazione che il Pci potesse effettivamente diventare il cardine di un polo ‘progressista’, capace di attirare elettori non comunisti ma semplicemente ‘riformisti’, e dunque di scalzare la Dc dalla propria posizione. Ma, a ben vedere, si tratta della stessa lettura che ha alimentato le speranze risposte da Salvati nel bipolarismo della ‘Seconda Repubblica’. E, in effetti, il medesimo schema è stato alla base anche della proposta di Salvati di costruire in Italia un Partito Democratico: un Partito che, recidendo i legami con le ideologie novecentesche e indossando le vesti di una sinistra liberal, potesse finalmente rompere la logica di contrapposizione netta fra «due nazioni» nettamente divise. Il ragionamento non era privo di una logica stringente, ma la storia del bipolarismo italiano ha fornito una smentita a questo schema: una smentita su cui sarebbe importante riflettere più di quanto sino ad ora non si sia fatto.
Anche molto dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, anche dopo la fine della ‘Prima Repubblica’, anche dopo l’inglorioso tramonto del ‘bipartitismo imperfetto’, l’Italia ha infatti continuano a dividersi in ‘due nazioni’, in due campi contrapposti, e abbiamo così assistito alla nascita di una sorta di ‘bipolarismo polarizzato’ per gran parte anomalo (e del tutto inspiegabile con le categorie analitiche del ‘pluralismo polarizzato’ e del ‘pluralismo moderato’) formulate da Sartori negli anni Settanta. In molti casi si è spiegata questa nuova ‘anomalia’ ricorrendo all’ingresso sulla scena politica di un oligopolista del settore televisivo, alla sua personalità, alla sua capacità di plasmare il ‘costume degli italiani’. Ma, benché tutto questo sia almeno in parte incontestabile, è piuttosto chiaro che la spiegazione della nuova ‘anomalia’ non può essere solo questa, e in effetti Salvati non cade in questa trappola: perché riconosce molto opportunamente che la nuova lacerazione che ha diviso gli italiani nella ‘Seconda Repubblica’ è soltanto la nuova veste della vecchia lacerazione fra comunismo e anticomunismo. Dunque, il ‘nuovo’ troverebbe la propria spiegazione nel ‘vecchio’, ossia proprio nei sedimenti delle subculture politiche. Da questo punto di vista, sono emblematiche le parole con cui, già nel 2003, Salvati riconosceva il fallimento delle ipotesi alla base del suo sostegno al bipolarismo: «Mi ero illuso che la fine del comunismo sovietico e poi la crisi del 1992-94, con il conseguente riassetto bipolare del nostro sistema politico, aprissero un’era in cui gli scontri e i conflitti ideologici della prima repubblica, l’impossibilità di alternanza, lasciassero il campo ad un’alternanza possibile e però tutta interna a concezioni politiche (e di politica economica) tra loro compatibili e diametralmente feconde. […] Mi ero, ci eravamo, sbagliati: avevamo dimenticato la dannazione italica dell’alternanza (ma spesso della simultaneità) tra partigianeria e trasformismo, tra estremismo fazioso e convergenza senza principi in ammicchiate centriste, oltre cha la nobile abitudine di correre in soccorso del vincitore. Da un’anomalia evidente il sistema politico italiano è passato a un’altra […]. Limitiamoci a constatare che il bipolarismo non funziona come meccanismo di governo per mancanza di un livello sufficiente di fiducia reciproca e di lubrificante bipartisan, che il dibattito politico è urlato e aggressivo e la sfera pubblica è spaccata in due, senza ponti di comunicazione, come e forse più che ai tempi della guerra di Corea» (Perché non abbiamo avuto (e non abbiamo) una ‘classe dirigente adeguata’?, in «Stato e mercato», 2003, n. 69, p. 430).
Ma proprio perchè Salvati riconosce il peso soverchiante del passato e delle culture politiche – tanto che ammette come, anche al di sotto della forte polarizzazione dei partiti della ‘Seconda Repubblica’, stia una richiesta di polarizzazione proveniente proprio dalla società – è sorprendente come continui a concentrarsi proprio sulla classe dirigente, e come non cessi di attribuire le responsabilità del ristagno attuale non tanto a una classe dirigente ‘inadeguata’, quanto, in modo ben più specifico, a una classe dirigente incapace di ‘rompere’ sufficientemente col passato e di recidere i propri legami con le vecchie ideologie. Quando ancora oggi propone questa lettura, Salvati non solo sembra concedere una notevole autonomia alla classe dirigente e al ceto politico, ma tende addirittura a pensare alla classe dirigente come a un soggetto almeno potenzialmente in grado di ‘liberare’ i canali del gioco politico ed economico, ‘intasati’ dall’ideologia e da riferimenti culturali obsoleti: a un soggetto che sia in grado, forse non di ‘raddrizzare’ il legno storto della cultura nazionale, ma almeno di ‘tagliarlo’ in modo da eliminare tutte quelle asimmetrie che lo rendono difforme dal modello anglosassone.
Sulla base di queste premesse, non è certo casuale che Salvati abbia sperato che il bipolarismo, e persino un Partito democratico, finalmente libero da ogni legame ideologico col passato, potessero ‘sbloccare’ il Paese e la sua economia. Ma è molto difficile continuare oggi a difendere la validità di questo schema ‘idraulico’ dei problemi italiani. Sarebbe facile ritrovare in una simile visione di un intervento politico dall’alto – al di sopra della società e della sua cultura – un tratto comune a una certa tradizione illuminista italiana. Ma, al di là di questo, il limite principale del ragionamento consiste nel modo stesso di vedere il rapporto fra politica e società, fra politica ed economia. Oggi, dopo che le speranze riposte nel bipolarismo sono naufragate, dobbiamo forse chiederci se, prima ancora del rimedio, non fosse sbagliata la diagnosi stessa. E se la convinzione che l’alternanza potesse ‘sbloccare’ il Paese, ‘liberare’ l’intasamento di una politica ideologica ed evitare il ‘ristagno’ non fosse basata proprio su una visione – un po’ ingenua, un po’ ‘illuministica’ – che, per rimettere l’Italia sulla via della ‘normalità’, fosse sufficiente ‘tagliare’ i ponti col passato. Dopo circa diciotto anni, forse dovremmo incominciare a riconoscere che il rimedio non è stato appropriato perché la stessa diagnosi non era corretta, e cioè perché non si può pretendere – al di là della retorica – che una soluzione all’«eccesso» di politica, sedimentato nella storia italiana, possa arrivare dal ‘passo indietro’ della politica, e non semmai da una politica adeguata, ma piantata nelle tradizioni politiche italiane. Questo vale per il fallimento della ‘Prima repubblica’ e della ‘rivoluzione liberale’, ma varrà – con ogni probabilità – anche per il futuro. Perché, se ci attendiamo che qualcuno – con piccoli o grandi sforzi, con un colpo di ventosa o la stretta di un pappagallo – possa liberarci dall’ingorgo in cui siamo finiti, allora – piuttosto presto – ci scontreremo contro il muro della realtà. E dovremo ripetere le parole di Fruttero e Lucentini. Perché, anche questa volta, l’idraulico non verrà.
Damiano Palano
Sono ormai trent'anni che Michele Salvati (appena eletto alla direzione della più prestigiosa rivista di riflessione politica e culturale, "Il Mulino") sviluppa un proprio peculiare ragionamento sulla società italiana, intrecciando sempre più fittamente analisi economica, politologica e storica. Il suo è un tentativo di sottrarre la vicenda italiana all'eccezionalismo cui sovente si fa ricorso per decifrarla, come se la nostra storia nazionale fosse riducibile a un'interminabile sequenza di deviazioni rispetto al canone costituito dai paesi maggiori.
RispondiEliminaIl nuovo libro di Salvati ("Tre pezzi facili sull'Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi", Il Mulino, pp. 132, E 14) aggiunge tasselli importanti a questo lavoro di interpretazione, affrontando alcuni nodi recenti per ricollegarli al passato. Non c'è indulgenza, in queste pagine, per la Prima Repubblica, che secondo l'autore è tutt'altro che da rivalutare. Se non altro perché il dissesto economico attuale rappresenta probabilmente il suo lascito più gravoso, che condiziona le prospettive del sistema politico e rappresentativo emerso dal sommovimento di Tangentopoli. Naturalmente, l'eredità negativa degli ultimi decenni del Novecento non può essere impiegata come un alibi per giustificare i deludenti risultati conseguiti dai governi della Seconda Repubblica e, segnatamente, da chi è stato più a lungo al potere, Berlusconi.
Il suo successo così prolungato, reiterato anche quando aveva già fornito una ben modesta prova di sé, viene ricondotto da Salvati alla bassa fiducia che gli italiani nutrono nello Stato e nel sistema politico e a uno spirito di fazione che prevale su una valutazione razionale dei risultati dell'azione di governo. Dunque, un certo deficit di spirito pubblico c'è e ha pesato sulla politica italiana. Ma è altrettanto vero che è mancata la capacità dell'opposizione di unificare in un progetto politico condiviso forze e identità troppo variegate e differenti. Ora siamo dinanzi a un mix di crisi economica e di crisi politica ben più profonda di Tangentopoli e anche la via d'uscita, nel quadro odierno di vincoli internazionali, si profila assai più ardua. (Giuseppe Berta sull'Espresso)