di Damiano Palano
Alla fine del luglio 1981, in una celebre intervista rilasciata a Eugenio Scalfari, fondatore e direttore del quotidiano «la Repubblica», Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci, denunciava infatti quella che, da quel momento, si sarebbe definita come «questione morale». Nell’intervista – riproposta in volume trent’anni dopo, seppur non integralmente, con una prefazione di Luca Telese (Enrico Berlinguer, La questione morale, Aliberti, Roma, 2011, pp. 79, euro 6.50), oltre che parzialmente ripubblicata anche sul quotidiano (Ritorna la questione morale, in «la Repubblica», 10 ottobre 2011, pp. 42-43) – Berlinguer denunciava per la prima volta in modo esplicito il degrado della politica, la trasformazione dei partiti, la fine della ‘passione’ e la vittoria degli interessi e delle clientele. Le parole di Berlinguer, da questo punto di vista, fotogravano una situazione che, negli anni a venire, sarebbe ulteriormente peggiorata. «I partiti di oggi», affermava il segretario del Pci, «sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso, e per i socialdemocratici peggio ancora…» (pp. 30-31). E le motivazioni che adduceva per spiegare una simile tendenza coglievano la dinamica di una trasformazione radicale, profonda: «I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv , alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il ‘Corriere della Sera’, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il ‘Corriere’ faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le ‘operazioni’ che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti» (pp. 32-33).
Interrogato da Scalfari sulle motivazioni che spingevano gli italiani a sopportare questa condizione, Berlinguer chiariva un punto interessante, che chiamava in causa non soltanto i partiti, bensì l’intera società italiana, o quantomeno buona parte, i cui legami clientelari con i partiti che avevano gestito la cosa pubblica impedivano che il voto fosse realmente ‘libero’ e facevano sì che la scelta fra la continuità e il mutamento fosse pregiudicata in partenza. «Molti italiani», affermava il segretario del Pci, «secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane» (pp. 34-35).
Più in generale, però, Berlinguer si spingeva a fornire un’interpretazione del dilagante degrado della politica italiana, della proliferazione del clientelismo, della trasformazione dei partiti in centri di potere. La causa principale consisteva, secondo il leader comunista, nel vizio che aveva determinato l’esclusione del Pci dalla possibilità di accedere al governo, nella conventio ad exludendum che aveva, fin dalle origini, reso il sistema politico italiano della ‘Prima Repubblica’ un ‘bipartitismo imperfetto’, come lo definì Giorgio Galli: un sistema dominato da due grandi partiti, ma in cui era di fatto impossibile l’alternanza al potere. Berlinguer non chiariva – almeno in quell’intervista – se l’‘anomalia’ del sistema italiano fosse dovuta prevalentemente al timore di una parte degli italiani per il Pci, o se invece, alla base del ‘blocco’ fosse soprattutto il ‘fattore K’, di cui aveva scritto Alberto Ronchey in un celebre editoriale sul «Corriere della Sera, ossia la presenza incombente dell’Unione Sovietica e la spartizione del mondo decisa a Yalta. Ma il punto era che buona parte delle distorsioni, derivavano proprio dal ‘blocco’ del sistema. Come spiegava a Scalfari: «Non dico che tutto nasca dal fatto che noi non siamo stati ammessi nel governo, quasi che, col nostro ingresso, di colpo si entrerebbe nell’Età dell’ Oro . […] Dico che col nostro ingresso si pone fine ad una stortura e una amputazione della nostra democrazia, della vita dello Stato; dico che verrebbe a cessare il fatto che per trentacinque anni un terzo degli italiani è stato discriminato per ragioni politiche, che non è mai stato rappresentato nel governo, che il sistema politico è stato bloccato, che non c’è stato alcun ricambio della classe dirigente, alcuna alternativa di metodi e di programmi. Il gioco è stato artificialmente ristretto al sessanta per cento degli elettori; ma è chiaro che, con un gioco limitato al sessanta per cento della rappresentanza parlamentare, i socialisti si vengono a trovare in una posizione chiave» (pp. 48-49).
La denuncia di Berlinguer coglieva certo alcuni rapidi segnali di mutamento, soprattutto quando si riferiva al ruolo che, nella gestione delle clientele, andava assumendo il Psi in alcune zone del Paese. Ma la denuncia della «questione morale» andava al di là di una semplice perorazione moralistica. Quando Berlinguer affermava che la questione «fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati», era infatti piuttosto chiaro che il suo attacco aveva un profilo politico, oltre che semplicemente etico. E, d’altronde, i motivi strettamente ‘politici’ dell’esternazione di Berlinguer dovevano risultare molto chiari anche ai lettori del 1981.
Il Partito Comunista veniva infatti dal fallimento pressoché completo della propria linea politica, un fallimento che non era solo politico, ma anche ‘culturale’, nel senso che metteva sotto scacco l’intera prospettiva con cui aveva guardato allo sviluppo della società italiana e al rafforzamento della democrazia. In effetti, la svolta del ‘compromesso storico’ era nata dal tentativo di accreditarsi come affidabile partito di governo, sia presso quell’opinione pubblica ‘progressista’ timorosa nei confronti del Pci, ma al tempo stesso affascinata dalle promesse di rigore e solidarietà, sia presso gli osservatori che si trovavano al di là dell’Oceano. Proprio per conquistare la legittimazione ad accedere alla ‘stanza dei bottoni’, il Pci cedette negli anni su molti punti, si fece paladino dei sacrifici e dell’austerità, diventò il principale difensore dell’ordine pubblico contro gli ‘opposti estremismi’ e anche il più importante garante della ‘moderazione salariale’. Alla fine dell’esperienza degli anni Settanta, quando la formula governativa del ‘compromesso storico’ venne definitivamente abbandonata, tutti i nodi della strategia di Berlinguer giunsero al pettine. In sostanza, risultò chiaro che il Pci non aveva compiuto alcun passo nel lungo corridoio che doveva condurre alla sospirata ‘stanza dei bottoni’, che i ‘sacrifici’ imposti al proprio elettorato di riferimento non avevano aperto le porte né all’alternanza né a un nuovo tipo di sviluppo capitalistico, che in quegli anni di singolare ‘compartecipazione’ alle compagini governative erano proliferate le collusioni, le ‘deviazioni’, la degenerazione. La nuova linea inaugurata dal giovane segretario del Psi allontanava inoltre come mai in precedenza la stessa eventualità di un’alternativa socialista, e spingeva così il partito di Berlinguer in una condizione di isolamento per cui non parevano esistere vie d’uscita. Ma l’esperienza del ‘compromesso storico’ si era rivelata fallimentare anche sotto un profilo che riguardava il rapporto con il proprio elettorato di riferimento, e questo era ben chiaro allo stesso segretario del Pci, che ammetteva dinanzi a Scalfari: «durante i governi di unità nazionale noi avevamo perso il rapporto diretto e continuo con le masse. Quei governi fecero anche cose pregevoli, che non rinneghiamo […]. Ma sta di fatto che noi, anche per i nostri errori di verticismo, di burocratismo e di opportunismo, vedemmo indebolirsi il nostro rapporto con le masse nel corso dell’esperienza delle larghe maggioranze di solidarietà. Ce ne siamo resi conto in tempo. Posso assicurarle che un’esperienza del genere noi non la ripeteremo mai più» (pp. 56-57). Così, dopo aver abbandonato definitivamente la prospettiva della collaborazione con i governi democristiani, Berlinguer tornò a scoprire l’anima del «partito di lotta», non solo sostenendo l’occupazione di Mirafiori nell’autunno del 1980, ma influenzando in modo probabilmente determinante la scelta di una strategia di mobilitazione che si sarebbe rivelata disastrosa, e le cui conseguenze dirompenti – dal punto di vista politico e simbolico – avrebbero mutato completamente lo scenario degli anni Ottanta.
Schiacciato politicamente dal Psi, cacciato nell’angolo dal solido patto stretto fra le forze di governo, il Pci si trovava allora privo di qualsiasi prospettiva che non fossero la semplice ‘sopravvivenza’ e il mantenimento del proprio bacino di elettori identificati, dei propri rituali e dei propri simboli. Ma, soprattutto, il Pci era collocato sulla difensiva dal ritardo nella propria lettura dello sviluppo italiano, perché la scelta di privilegiare un certo tipo di industrializzazione e un specifica fetta del lavoro dipendente – cosiddetti ‘garantiti’ – finiva col porre il partito di Berlinguer in una posizione irrimediabilmente arretrata, rispetto alle trasformazioni che – già a partire dalla metà degli anni Settanta – avevano incominciato a investire la struttura produttiva italiana. Ed è proprio a questa fase che risalgono la celebre intervista a Scalfari e la ‘scoperta’ della «questione morale». Con quell’operazione, Berlinguer portava infatti alle conseguenze estreme un’ambivalenza che era rimasta a lungo nella fisionomia del suo partito, ossia la presenza contestuale di una dimensione ideologica, che prefigurava un futuro ‘socialista’ per l’Italia, e di una dimensione che invece puntava a presentare il Pci come un partito ‘onesto’, ‘sobrio’, affidabile, capace di realizzare finalmente – con serietà e impegno – il sogno infranto del ‘buongoverno’. Quando enunciava la drammaticità della «questione morale», Berlinguer – seppur in modo esplicito – prendeva commiato dalla lunga storia del socialismo novecentesco, per connotare il Pci non come partito ‘comunista’, o ‘socialista’, o ‘socialdemocratico’, bensì come partito ‘diverso’, soprattutto su un piano morale, dagli altri protagonisti della politica italiana.
Nell’intervista a Scalfari, Berlinguer si soffermava proprio sulla proclamata ‘diversità’ dei comunisti, e ne indicava tre motivazioni. In primo luogo, affermava, «noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione , concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni» (pp. 37-38). In secondo luogo – continuava - «pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata» (pp. 39-40). Infine - e questa era la terza diversità - «pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche – e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla Dc – non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati» (p. 41).
A trent’anni di distanza, le parole di Berlinguer, e soprattutto il ‘buon senso’ che pare ispirarle, non possono che risultare in gran parte condivisibili, e quell’intervista può così essere letta oggi senza registrare l’enorme distanza che separa di solito il lessico politico contemporaneo dal linguaggio ideologico e dalle evoluzioni retoriche del Partito Comunista degli anni Settanta (e dello stesso Berlinguer). Non è dunque affatto sorprendente che anche oggi quell’intervista trovi numerosi estimatori. Per esempio, Telese, nelle pagine introduttive, contrappone il discorso di Berlinguer alle riserve che allora gli furono mosse da Giorgio Napolitano, che invece – opponendo le ragioni della ‘politica’ a quelle della ‘morale’ – vedeva nella denuncia della ‘questione morale’ la causa di un ulteriore ‘arroccamento’ del Pci nella propria ridotta, oltre che la conferma dell’allontanamento dell’«alternativa socialista». E per questo, come ricorda Telese, Napolitano telefonò a Gerardo Chiaromonte, un altro dirigente del Pci che guardava con qualche interesse al Psi, comunicandogli lo sconcerto: «Eravamo entrambi sbigottiti: in quella clamorosa esternazione coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica, visto che non riconoscevamo più nessun interlocutore valido, e negavamo che gli altri partiti, ridotti a macchine di potere e di clientela, esprimessero posizioni e programmi con cui confrontarci» (p. 22). Ma Telese scrive oggi che, «dopo tutto quello che la politica ci ha regalato, possiamo forse dire che quella critica drastica era (ed è) l’unica possibilità di salvezza della politica pulita» (p. 19). In termini parzialmente simili, Scalfari, rileggendo oggi quell’intervista, ne scorge l’ammonimento a non separare l’etica dalla politica, soprattutto nel momento in cui la classe politica si trova a chiedere ai cittadini quei ‘sacrifici’ che appare ben lontana dall’imporre a se stessa (E. Scalfari, La lezione di Moro e Berlinguer, in «la Repubblica», 23 ottobre 2011, pp. 1 e 25). Ma anche Stefano Rodotà, nel suo recente Elogio del moralismo (Laterza, Roma – Bari, 2011), ritrova nella denuncia della «questione morale» un elemento cruciale, rapidamente dimenticato dagli stessi eredi del Pci, da cui poter ripartire per restituire alla politica l’onore perduto. Scrive infatti il giurista, presentando alcuni scritti sulla corruzione italiana, stesi nel corso di un ventennio: «La caduta dell’etica pubblica, indiscutibile, è divenuta così un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità, ad una sua legittimazione sociale. Rifiutata, appunto, come manifestazione di fastidioso moralismo, l’aborrita ‘questione morale’ si è via via rilevata come la vera, ineludibile, ‘questione politica’. Quando gli ex comunisti, invece di riflettere seriamente sulla loro storia, cominciarono a chiedere scusa a destra e a manca, omisero di fare le loro scuse proprio a chi aveva colto questo rischio mortale per la democrazia italiana: Enrico Berlinguer. In quella sua tesi, associata com’era ad una richiesta di austerità, si volle vedere un’idea triste della politica, in contrasto con la spensieratezza dell’incipiente ‘Milano da bere’; e la rivendicazione di una diversità del Pci come una mossa d’orgoglio che rivelava la pretesa di essere comunque migliori degli altri. Interpretazioni entrambe riduttive, appiattite com’erano su contingenza e convenienze, mentre oggi possiamo cogliere il vero nocciolo di quella proposta: la sottolineatura del carattere proprio di un partito soprattutto per renderlo consapevole della responsabilità che gli spettava, con una indicazione volta ad evitare che si consolidasse quella che appariva come una pericolosa anomalia italiana» (p. 4).
È difficile non concordare almeno in parte con le osservazioni di Rodotà, perché, in effetti, il ceto politico italiano – di cui furono parte anche gli eredi del Partito di cui Berlinguer fu segretario – sembra aver completamente rimosso, dal proprio codice di comportamento, qualsiasi riferimento all’etica pubblica. Ma è anche chiaro che proprio nell’intervista di Berlinguer si può riconoscere l’avvio di una lunga stagione della politica italiana, in cui proprio il fascino ‘impolitico’ dell’onestà, della purezza morale, della verginità politica, diventano i cardini di un immaginario affascinante, dietro il quale si possono nascondere le più fruste pratiche di governo e sottogoverno. Da questo punto di vista, non è affatto casuale che il Berlinguer della «questione morale» sia diventato negli anni la stella polare dei paladini di una ‘società civile’ celebrata come l’antidoto contro la corruzione della politica, e che dunque l’attacco contro i partiti, trasformatisi in «macchine di potere», sia andato a inscriversi all’interno di un discorso del tutto ‘impolitico’: un discorso in cui la sbandierata purezza morale rappresenta il cardine di un messaggio integralmente ‘antipolitico’, esattamente speculare a quello che – in coincidenza con il passaggio dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’ – celebra il ‘nuovo che avanza’ e gli imprenditori ‘prestati’ alla politica.
In un intervento estremamente lucido, Nadia Urbinati ha svolto un ritratto impietoso del principale partito della sinistra italiana, ritrovando nel «nichilismo» la cifra che ha accompagnato le varie stagioni di una trasformazione simbolica e organizzativa. La stessa decisione di abbandonare il vecchio nome del Pci, scrive Urbinati, fu assunta in una modalità destinata a diventare pratica consueta: «fu la decisione di un capo. Il quale dall’alto della sua personale opinione decretò che era tempo di cambiare: era la storia a chiederlo, disse. Molto probabilmente, il mutamento era indispensabile; anzi lo era certamente. Ma venne effettuato nel peggiore dei modi possibili. Con un atto discrezionale, senza una deliberazione collettiva e ponderata; senza andare all’origine ideologica e ideale di quel cambiamento, che restò di facciata e vuoto di contenuti. Come un cambiare d’abito si passò dal comunismo di facciata al liberalismo di facciata (spesso al liberismo, naturale vicino di casa dell’economicismo marxista)» (N. Urbinati, Le colpe dell’opposizione, in «la Repubblica», 6 marzo 2009, ora con il titolo Nichilismo, in Id., Prima e dopo. La brutta china della democrazia italiana, Donzelli, Roma, 2011, pp. 211-212). Quello stile decisionale e personalistico – in fondo così simile a quello rimproverato all’avversario politico di quasi un ventennio – sarebbe diventato abituale, e avrebbe scandito tutte le torsioni che i dirigenti dell’ex Pci, nelle sue trasformazioni, da Pci a Pds, da Pds a Ds, da Ds a Pd, e soprattutto nell’alternanza degli esiti di una contesa interna senza esclusione di colpi e senza fine, avrebbero proposto ai propri seguaci. Come scrive ancora Urbinati: «Come in una giostra medievale, a forza di fendenti e picconate, la sinistra è stata ridotta a un’ombra di se stessa. Ed è ammirevole che i suoi elettori abbiano resistito per tanto tempo, impotenti di fronte alle violenze e alle improvvide offese dei capi. Da invenzione a invenzione: perfino imitando slogan di altri partiti in altri paesi (come faceva notare il corrispondente dall’Italia del ‘New York Times’, dando l’annuncio delle dimissioni di Walter Veltroni) e mettendo insieme cose che non possono stare insieme, come il governo ombra britannico e il partito elettorale americano, un guazzabuglio che è stato degno di un apprendista stregone» (ibi, p. 213).
In una simile deriva ‘nichilista’, la «questione morale» diventa spesso centrale, il cemento con cui saldare fra loro elementi tanto eterogenei da apparire una sorta di maldestro patchwork costruito saccheggiando qua e là idee suggestive e formule evocative, come nelle sconcertanti campagne di Walter Veltroni, o in alcuni celebri slogan da cui trapelava una combinazione ineffabile di presunzione, provincialismo, ingenuità e cattivo gusto. In un simile contesto, la «questione morale» assume infatti per intero i contorni di una presa di posizione moralista, ma soprattutto – ed è proprio questo l’aspetto più significativo – indossa la veste della retorica dell’‘impolitico’: si incardina cioè in un discorso in cui la politica – con le sue ‘regolarità’, la contrapposizione con gli avversari, la proiezione temporale verso il futuro – viene ri-fondata a un livello puramente ‘moralistico’, perdendo qualsiasi riferimento con la storia, con la cultura, con l’organizzazione e con il potere. Non certo perché queste dimensioni vengano effettivamente meno, ma semplicemente perché i legami con un’ideologia ingombrante e un passato almeno in parte scomodo vengono recisi, senza che nessun progetto di trasformazione, nessuna visione realmente ‘politica’ dei rapporti sociali, delle dinamiche di potere, della storia italiana venga a colmare quel vuoto. Recise le radici ideologiche piantate nella storia del Pci, il ceto politico ‘post-comunista’ si limita in effetti, nella gran parte dei casi, a riprendere l’orgogliosa rivendicazione di ‘diversità’ morale, con cui Berlinguer aveva tentato di ridefinire l’immagine del suo partito, per impiantare su una rivendicata verginità morale il progetto di una nuova forza, finalmente pronta per accedere alla ‘stanza dei bottoni’. E, in questo senso, non ci appare oggi affatto casuale che sui manifesti di una delle prime campagne del Partito Democratico della Sinistra, al principio degli anni Novanta, campeggiasse un neonato, chiamato a raffigurare simbolicamente proprio la ‘purezza’ morale del nuovo partito, la sua illibatezza politica, ma anche la sua innocenza, la sua abissale distanza da calcoli machiavellici, la sua ‘diversità’.
La denuncia della «questione morale» diventava, cioè, lo strumento con cui liquidare definitivamente la politica in nome di una ‘diversità’ puramente morale, di una ‘diversità’ che si sarebbe dovuta tradurre non tanto in una ‘diversa’ politica, quanto nel sogno – del tutto impolitico – di un buon governo, di una buona amministrazione, in cui i politici si limitano a esercitare il ruolo di amministratori ‘onesti’. Ovviamente, è chiaro a chiunque che nell’Italia di oggi – non meno che in quella di Tangentopoli – sia a dir poco conclamato il deficit di trasparenza, di ‘moralità’, di responsabilità della classe politica. Le solenni promesse di una rinascita morale ci appaiono oggi come totalmente cadute nel vuoto di una politica in cui le pratiche clientelari, le collusioni, la vera e propria corruzione sono ormai diventate una ‘seconda natura’, se non addirittura la spina dorsale su cui si regge l’intero ceto politico. Ma, se la ripresa della «questione morale» e la rivendicazione di una radicale ‘diversità’ ci appaiono così solo un velo accattivante sotto il quale occultare progetti di potere più o meno lungimiranti, non possiamo non ritrovare dietro la seducente formula della «questione morale» proprio la tara più insidiosa dell’«impolitico» contemporaneo. Quella tara per cui la politica – come progetto, come conflitto, come organizzazione – viene del tutto rimossa, in nome di un presente dilatato fin verso i confini dell’eternità. Sotto il quale i privilegi, le discriminazioni e i soprusi diventano gli elementi costanti di un panorama immutabile.
Damiano Palano
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