martedì 29 novembre 2011
Ritorno a Pechino. "Cina" di Henry Kissinger
di Damiano Palano
Nell’aprile del 1971, la nazionale americana di tennis-tavolo fu invitata a tenere alcune partite amichevoli in Cina, e per la prima volta, in quell’occasione, un gruppo di cittadini statunitensi varcò i confini della Repubblica Popolare Cinese. Per segnalare la portata dell’evento, molti giornali parlarono della «diplomazia del ping-pong». In realtà, non fu però soltanto lo sport a riavvicinare Cina e Stati Uniti, dopo più di vent’anni di un isolamento cominciato con la presa del potere da parte dei comunisti, nel 1949. Gli Usa non avevano infatti riconosciuto come legittimo il governo della Repubblica Popolare e avevano a lungo considerato la Cina come un nemico, da contrastare indirettamente o anche da fronteggiare direttamente, come in occasione della guerra di Corea. Ma la situazione cambiò radicalmente al principio degli anni Settanta, quando motivazioni differenti indussero Mao Zedong il presidente americano Richard Nixon a tentare un riavvicinamento fra i due Stati. Ebbero inizio fitte trattative in gran parte segrete, che raggiunsero il punto più eclatante nella visita di Nixon a Pechino, un evento che, agli occhi del mondo, sanciva ufficialmente un mutamento nei rapporti sino-americani. E che, soprattutto, era destinato ad avere esiti dirompenti sugli equilibri della Guerra fredda.
Protagonista di quelle trattative diplomatiche fu, da parte americana, l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger, che oggi ricostruisce le tappe del riavvicinamento in Cina (Mondadori, pp. 514, euro 22.00). In questo corposo volume, Kissinger ripercorre naturalmente la sequenza delle trattative con Pechino, le motivazioni che spinsero Nixon a quel passo e, infine, gli incontri con Mao e Zhou Enlai. Ma il libro non è semplicemente una raccolta di memorie, perché in realtà Kissinger esamina le relazioni sino-americane con un’ottica di lungo periodo, che punta anche lo sguardo verso il futuro.
D’altronde, l’interesse di Kissinger per la Cina nasce anche dall’inquietudine cresciuta, nel mondo occidentale, sul ruolo internazionale che assumerà Pechino nei prossimi decenni. Da questo punto di vista, Kissinger non sposa le tesi più allarmistiche, che reputano sia ormai imminente una sorta di nuova ‘Guerra fredda’ e una rapida escalation delle tensioni fra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare. Ma, d’altro canto, non ritiene neppure che l’ascesa cinese non sia destinata a produrre conseguenze rilevanti sull’ordine internazionale.
Proprio alla conclusione del volume, Kissinger affronta proprio la questione della rivalità fra Washington e Pechino. E, in particolare, la considera alla luce della rivalità fra Gran Bretagna e Germania che, ai primi del Novecento, trascinò in guerra il Vecchio Continente. Senza dubbio, ci sono alcune analogie. Londra era allora il centro di un impero in declino, così come oggi gli Stati Uniti sono una potenza egemone la cui supremazia appare sempre più insidiata, sotto il profilo economico, tecnologico e persino militare. Inoltre, la Germania, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, divenne un avversario estremamente temibile e la sua ascesa appariva inarrestabile, come oggi appare inarrestabile la crescita cinese, destinata a mutare gli assetto consolidati nel Pacifico.
Il risultato, osserva Kissinger, potrebbe consistere effettivamente in un’escalation delle tensioni simile a quello che portò alla Prima guerra mondiale. Qualora Stati Uniti e Cina iniziassero a costruire in Asia alleanze finalizzate a fronteggiarsi reciprocamente, le conseguenze diventerebbero infatti estremamente rischiose. In altre parole, Washington e Pechino entrerebbero in una situazione di «conflitto strategico», una situazione in cui la flessibilità diplomatica viene azzerata e in cui si consolida un vero e proprio bipolarismo ‘rigido’. E, soprattutto, una situazione in cui la politica estera viene percepita da tutti i principali soggetto come un gioco a somma zero: come un gioco in cui l’unico modo per ottenere dei vantaggi diventa imporre delle perdite agli avversari.
Benché Kissinger ritenga possibile uno sviluppo del genere, non ritiene né – ovviamente – che sia in qualche modo augurabile, né che sia inevitabile. E, per questo, l’ex Segretario di Stato sostiene che «la politica americana dovrebbe fare tutto il possibile per prevenire uno sviluppo del genere». Per quanto ci siano motivi forti di attrito da entrambe le parti, l’impegno degli Usa dovrebbe dunque consistere nell’evitare di ‘irrigidire’ il sistema in una contrapposizione bipolare, puntando invece a consolidare ciò che definisce come «co-evoluzione». Secondo quanto scrive Kissinger, la co-evoluzione rappresenta un assetto in cui «entrambi i paesi perseguono i loro imperativi nazionali, cooperando quando possibile e regolando le loro relazioni in maniera da ridurre al minimo i conflitti». In altre parole, dunque, una situazione in cui «nessuna delle due parti sottoscrive tutti gli obiettivi dell’altra, né presuppone una totale identità di interessi, ma entrambe cercano di individuare e sviluppare interessi complementari».
Naturalmente, Kissinger è ben consapevole del fatto che molte incognite rendano il percorso verso la ‘coe-voluzione’ quantomeno piuttosto accidentato. Si tratta di incognite che attengono a divergenze economiche e più strettamente politiche. Ma l’incognita principale è rappresentata dalla paura. Mentre Pechino teme che Washington voglia contenere l’ascesa cinese, gli Usa temono che la Cina voglia conquistare un ruolo egemone cacciandoli dall’Asia. Proprio per questo, il vero rimedio che Kissinger propone è quello suggerito dai vecchi realisti: la diplomazia. Solo rapporti diplomatici consolidati possono contribuire a diradare la nebbia circa i reali obiettivi delle altre potenze, a comprenderne le motivazioni e a ridurre – almeno in parte – la paura nei loro confronti. E, dunque, solo la diplomazia può evitare il rischio che il sospetto degeneri nella minaccia e che le tensioni diventino ingovernabili.
Damiano Palano
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