«Ultimo mohicano / sampietrino in mano / solo qui nella via / e la barricata dove l’han portata? / non c’è proprio più. / Ultimo mohicano / sampietrino in mano / non c’è più polizia / ora a chi lo tiro?». Il sampietrino cui alludeva Gianfranco Manfredi nell’Ultimo mohicano non era ovviamente soltanto una componente dell’arredo urbano. Nell’allegoria cinematografica che reggeva l’intero album, il mohicano era il reduce del «maggio strisciante» italiano, e il sampietrino che stringeva malinconicamente tra le mani rimandava a ormai lontane battaglie urbane e alle armi improprie fornite dalla pavimentazione stradale (tornate negli ultimi giorni di particolare attualità). Con ogni probabilità, non è però a questo peculiare utilizzo che ha pensato Bollati Boringhieri, nel momento in cui ha deciso di battezzare la nuova collana «i sampietrini». L’intento dell’editore è d’altronde illustrato dal trafiletto che accompagna l’uscita del volume di apertura: «I sampietrini sono i blocchetti di basalto tradizionalmente usati per lastricare le strade e le piazze. Come i sampietrini, le idee non stanno in cielo ma sono la base che ci permette di orientarci e camminare per il mondo. Anni di propaganda ideologica e mediatica hanno reso malferma quella base e confuso i punti di riferimento della conoscenza e dell’impegno civile. Con questo libro Bollati Boringhieri inaugura una nuova collana che, affidando ad autori di fama internazionale la spiegazione di concetti basilari, si propone di ricostruire le strade di un sapere efficace e di un libero confronto pubblico per il XXI secolo». L’accostamento fra i sampietrini e le idee, non può non suscitare qualche ironia, se non altro perché il dibattito culturale contemporaneo – ben più che a una piazza lastricata di sampietrini – sembra piatto e uniforme come il manto di un’autostrada asfaltata da poco. Ma l’altezza della ambizioni della collana, composta di agili volumetti intesi quasi come voci di un’enciclopedia del sapere per il XXI secolo (è annunciato fra l’altro, tra le prossime uscite, Futuro di Marc Augé), è confermata dal primo «sampietrino», dedicato al tema Democrazia e firmato da Gherardo Colombo.
Può destare forse qualche perplessità che su un tema così impegnativo, su cui in Italia negli ultimi decenni si sono esercitati studiosi come Norberto Bobbio, Giovanni Sartori, Luciano Canfora, Michelangelo Bovero, Gustavo Zagrebelsky, Alessandro Pizzorno, Carlo Galli, Danilo Zolo, Alfio Mastropaolo, Pier Paolo Portinaro, sia chiamato un ex-magistrato, peraltro colto e raffinato come Colombo, e qualcuno non mancherà di rintracciare in questa scelta una conferma della tendenza di una parte del mondo intellettuale italiano a vedere nella magistratura una sorta di ‘governo di custodi’ e ad assegnare proprio ai giudici un ruolo politico di garanzia dell’ordine democratico. Ma il profilo specifico dell’autore di Democrazia costituisce in realtà un motivo di interesse in più, che non viene peraltro smentito dalla lettura del «sampietrino», quantomeno perché la discussione si discosta dalle più celebri discussioni intorno ai caratteri della liberal-democrazia per seguire una pista interessante.
In effetti, Gherardo Colombo imposta il volume come una sorta di lezione di educazione civica, in cui non mancano i toni accorati e le perorazioni all’impegno e alla tolleranza, soprattutto perché parte dalla convinzione che sia necessario spiegare la democrazia non a chi già la conosce, ma a quanti ne ignorano le forme, la sostanza, i principi e le dinamiche. In altre parole, scrive Colombo nell’introduzione, «è essenziale capire davvero cos’è, la democrazia, non da parte di coloro che già la conoscono, e ne discutono, approfondiscono, analizzano, pronosticano il suo futuro». Il pubblico a cui tende a rivolgersi è infatti ben diverso: «È essenziale […] parlare di democrazia con chi nella vita si è occupato di altro, svolge una professione, un lavoro per i quali il modo di organizzare la società non fa parte dei ferri del mestiere e ne ha quindi notizie indirette, vaghe, approssimative, che gli arrivano magari dagli slogan ascoltati distrattamente nei talk show televisivi o dalla affrettata lettura del titolo di un giornale. È essenziale perché la democrazia è un modello organizzativo della società che coinvolge indistintamente le persone, e non è possibile che funzioni se queste non l’hanno capito, non sanno per davvero cos’è» (p. 11).
Per sbrogliare la matassa dei molteplici significati della parola democrazia, e per chiarire quali siano i delicati equilibri che rendono effettivamente democratico un sistema politico, Colombo struttura l’argomentazione in tre sequenze principali – la forma, la sostanza e l’esercizio della democrazia – per concludere infine con una celebrazione del ruolo attivo dei singoli cittadini. In primo luogo, Colombo prende le mosse dal dibattito classico sulle forme di governo, un dibattito le cui origini più remote possono essere ritrovate nelle Storie di Erodoto e nel confronto fra Otane, Megabizio e Dario sulla migliore forma di governo. Ma la definizione che in questo modo emerge della democrazia – la forma di governo in cui governano i ‘molti’, in opposizione alla monarchia e alla oligarchia – non può che fornire solo una prima suggestione, e per questo Colombo introduce i consueti ‘correttivi’ all’idea della democrazia come governo dei molti: l’impossibilità ‘tecnica’ che i molti esercitino il governo (tutte le funzioni di governo) in grandi unità politiche come sono gli Stati: «è certamente impensabile che centinaia di migliaia, o milioni di persone possano, tutte insieme, amministrare la società o svolgere la funzione giudiziaria», ed è allora «necessario in tutti questi casi incaricare qualcuno che operi per tutti» (p. 23). Ma c’è un passaggio concettualmente più significativo nel discorso di Colombo, nel quale viene esplicitato il legame fra democrazia e libertà. A questo proposito, osserva: «la democrazia è il sistema di governo attraverso il quale i membri della società creano, applicano e verificano l’osservanza delle regole attraverso le quali tutti possano essere liberi tanto quanto gli altri (e cioè vi sia uguaglianza di fronte alla legge, vi sia isonomia). La democrazia, quindi, è lo strumento indirizzato a realizzare la società a opportunità pari, libertà concorrenti e non conflittuali. Libertà di ciascuno in concordia con le libertà di chiunque altro» (pp. 37-38). L’assegnazione alla democrazia di un obiettivo così ambizioso fa già evidentemente trapelare gli elementi del ritratto dipinto da Colombo, e forse anche intuire alcune delle riserve che potrebbero essere rivolte a un simile quadro. La libertà è infatti un tassello cruciale del mosaico democratico, un tassello che ritorna ampiamente nel momento in cui l’ex-magistrato passa a considerare la «sostanza» della democrazia. E a questo proposito, scrive: «Massima espansione della libertà è […] la sostanza della democrazia. La sostanza, la libertà di scegliere nelle situazioni pratiche e concrete dell’esistenza, si persegue attraverso il riconoscimento della libertà di scegliere i modi per attuare tale libertà» (p. 43). Da questo derivano anche una serie di doveri, nel senso che, in democrazia, i doveri sono finalizzati all’obiettivo della libertà. E, soprattutto, da ciò deriva la logica della separazione e dell’equilibrio dei poteri, che pongano ‘limiti’ all’esercizio del potere anche da parte della ‘maggioranza’.
Un quesito fondamentale che Colombo deve affrontare emerge però a proposito dell’«esercizio» della democrazia, perché in corrispondenza di questa sequenza che si trova a esplicitare il ruolo che – effettivamente – svolge il ‘popolo’ nella realtà dei sistemi democratici. Per Colombo la partecipazione non è infatti marginale, e – rivisitando e reinterpretando il primo articolo della Costituzione italiana – sostiene che la democrazia è fondata sul ‘lavoro’ che i cittadini svolgono quotidianamente affinché la democrazia si realizzi: «È necessario che i cittadini agiscano per compiere la democrazia, perché questa possa attuarsi. In caso contrario, e cioè se tutti loro, o gran parte di loro, rimanessero inesrti, evidentemente non governerebbero, e la democrazia si trasformerebbe necessariamente in monarchia o in oligarchia (perché governerebbero soltanto gli attivi, che potrebbero essere ipoteticamente soltanto uno o estremamente pochi). La trasformazione si verificherebbe di fatto, senza necessità di cambiare nemmeno una legge» (p. 74). In sostanza, benché in ogni democrazia esistano delle regole, le regole da sole non sono sufficienti: «nella democrazia le regole prevedono la possibilità di contribuire all’indirizzo della vita propria e di quella della collettività, ma se la possibilità non è usata, se manca cioè l’impegno, la democrazia svanisce. Non sono sufficienti le regole, perché le regole consentono di partecipare al governo: se manca l’impegno, la partecipazione, il governo va ad altri» (p. 76). Ma l’impegno non si limita alle varie forme di partecipazione, perché comprende – ed è un passaggio ovviamente importante – anche il rispetto delle regole da parte dei cittadini. Per questo, Colombo scrive che partecipare al governo significa soprattutto rispettare le regole formali e sostanziali della democrazia (per esempio non sollecitare e non permettere favoritismi), anche nei rapporti privati (per esempio evitando di ledere la libertà altrui)», e «rispettare anche le regole che hanno relazione indiretta con la democrazia (si potrebbe paradossalmente sostenere che la realizzazione della democrazia inizia dal rispetto delle strisce pedonali» (p. 91).
È seguendo proprio questo filo che l’ex magistrato individua il rischio più insidioso di ogni democrazia – ma in particolare della democrazia italiana – nella cultura degli stessi cittadini, una cultura non ancora adeguata alle forme e agli obblighi che richiede una democrazia reale. Ed è per questo che, nell’accorato epilogo che conclude il volume, considera in fondo l’educazione delle persone come il pilastro più robusto con cui sostenere l’edificio democratico, e come la bussola più efficace per orientarsi in un viaggio che rimane comunque sempre accidentato e affollato di insidie: «Aiuta il cammino» - scrive nella conclusione - «considerare che oggi la pratica della democrazia è difficile e faticosa perché la cultura, il comune modo di pensare è ancora per molta parte basato sugli schemi passati, quelli del dominio, della sopraffazione, della sottomissione e della discriminazione. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l’apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell’uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell’uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia» (p. 92).
La ‘lezione’ di educazione civica di Gherardo Colombo non può che essere salutare, specie in un Paese che sembra avere inciso nel proprio codice genetico un’inguaribile predisposizione all’arbitrio, al clientelismo, al nepotismo e alla prevaricazione del forte sul debole (una prevaricazione che si ritrova naturalmente anche nell’amministrazione della giustizia). Ma certo alcuni tratti del discorso – di cui sono evidenti e dichiarate le finalità didattiche – non mancano di generare qualche perplessità. In questo senso, la ripresa del significato classico del termine democrazia e soprattutto, la sua contrapposizione con la monarchia e l’oligarchia – una scelta che imposta l’intera riflessione di Colombo – crea più di qualche problema. Sulla base della concezione greca, difficilmente si potrebbero infatti definire i contemporanei sistemi occidentali come ‘democratici’, mentre, osservato con l’ottica odierna, il sistema ateniese non potrebbe essere certo definito come una democrazia. Colombo è ben consapevole del problema, per esempio quando ricorda che alcuni regimi oligarchici o monarchici si qualificano come democrazie, mentre altri che sono formalmente delle monarchie seguono le regole della democrazia. E proprio per questo invoca una certa cautela: «Non bisogna lasciarsi fuorviare, insomma, dall’uso delle parole. Sia quando queste non nascondono una realtà diversa dall’apparenza (come succede appunto per le monarchie costituzionali), sia quando, invece, l’uso dei termini è consapevolmente diretto a proporre una apparenza divergente dalla realtà. Così, alcuni paesi che si presentano ufficialmente come democrazie possono avere i caratteri della monarchia o dell’oligarchia (come accadeva per esempio per la Repubblica democratica tedesca fino alla caduta del Muro di Berlino)» (p. 31).
Il problema che affiora dalle parole di Colombo non è però affatto secondario, ed è d’altronde il nodo attorno al quale la scienza politica degli ultimi settant’anni si è arrovellata senza giungere a una soluzione del tutto convincente. Quanti hanno cercato di fissare l’analisi all’àncora di una definizione ‘realistica’ della democrazia si sono scontrati con difficoltà inaggirabili, che rimandano in fondo al carattere dei concetti politici. La parola ‘democrazia’ – come tutti i più densi concetti politici – deve probabilmente la sua longevità e il suo successo anche alla sostanziale indeterminazione, alla sua costitutiva polisemia. Se la parola ha attraversato più di duemila e cinquecento anni, non possiamo mai dimenticare che nel corso di questo lungo viaggio il concetto ha subito trasformazioni radicali. Soprattutto, non possiamo trascurare il fatto che la pressoché unanime riprovazione dei più grandi pensatori del passato è stata sostituita da un atteggiamento opposto, in virtù del quale la democrazia è diventata un valore politico indiscutibile, tanto che persino i più agguerriti rivali del regime democratico ne inalberano ufficialmente le insegne. Un simile rovesciamento rende il compito della definizione della democrazia, se possibile, ancora più difficile. E, inevitabilmente, non può che rappresentare un ulteriore ostacolo alla comprensione realistica dei mutamenti che avvengono ‘dentro’ le nostre democrazie. Probabilmente, l’unica soluzione è riconoscere che ciò che chiamiamo solennemente come ‘democrazia’ è ‘soltanto’ una configurazione specifica assunta dallo Stato moderno: una configurazione in cui vengono approfonditi e irrobustiti i meccanismi rappresentativo-elettivi e le garanzie dello Stato di diritto, e che riflette i mutamenti nel sistema internazionale e nell’assetto economico delle nostre società. In altre parole, un modo per uscire dall’impasse è forse ‘demitizzare’ la democrazia, o meglio demitizzare quelle teorie che hanno raffigurato i nostri sistemi politici come l’incarnazione ‘definitiva’ dell’ideale democratico, se non addirittura come il punto estremo dell’evoluzione ideologica della storia umana. Forse, in questo modo perderemo la soddisfatta certezza di vivere nel migliore dei mondi possibili, e cesseremo di credere in una quella sorta di postmoderna religione civile che ha fatto della democrazia esistente un inattaccabile ‘Dio mortale’. Ma, potremo scoprire nella polisemia della democrazia anche la traccia di nuove speranze. Perché, in fondo, i molti significati della democrazia – e i molti modi di concepire la democrazia – non sono altro che una conseguenza della pluralità degli esseri umani e dell’unicità di ciascun essere umano. Per questo, nonostante il suo abuso contemporaneo, il concetto di democrazia continuerà a rappresentare aspirazioni molto differenti, e a incarnare ancora a lungo le grandi ambizioni dei sistemi politici occidentali, così come - in qualche caso - a ricoprire la realtà di regimi basati sull'arbitrio e la corruzione. E così non smetterà di essere utilizzato in mille modi diversi, tanto dai governanti come strumento di legittimazione, quanto dai ‘senza potere’, come arma d’attacco contro il privilegio e la disuguaglianza. Proprio come il sampietrino.
Damiano Palano
Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.
Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.
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