di Damiano Palano
Nel recente Il bene di vivere, un libro-intervista curato da Francesca Nodari (Morcelliana, Brescia, pp. 133, euro 10.00), Sergio Givone ripercorre, in chiave autobiografica, le sequenze principali di una riflessione filosofica che si è concentrata, nel tempo, soprattutto sul nichilismo e sull’idea di tragico. Rievocando le tappe della sua formazione, Givone torna così nella Torino degli anni Sessanta, a figure per lui cruciali, come quella del maestro Luigi Pareyson, degli allora giovani assistenti come Giuseppe Riconda, Gianni Vattimo, Umberto Eco, oltre che ai docenti che in quegli anni insegnavano all’Ateneo torinese (Augusto Guzzo, Nicola Abbagnano, Carlo Mazzantini, Pietro Chiodi). Givone dipinge un affresco senz’altro suggestivo del mondo universitario torinese degli anni Sessanta – un mondo che ovviamente non esiste più – e, in particolare, della divaricazione netta fra la scuola di Abbagnano, titolare della cattedra di Storia della filosofia, e quella di Pareyson, docente invece di Estetica. «Naturalmente» - nota Givone - «tutti questi nomi allo studente che veniva dalla campagna non dicevano niente. Eppure egli avvertiva una tensione intellettuale, un fuoco, sia pure ben nascosto, ma in grado di appiccare incendi. Nonostante il grigiore dei luoghi e il tipico understatement torinese: massimo dello snobismo era Abbagnano, che, dopo la lezione, accompagnato dagli intimi, andava a prendere l’aperitivo in piazza San Carlo o Guzzo, che, alla fine della medesima, lasciava cadere dal naso il pince-nez né più né meno come cinquant’anni prima Nicolai Hartmann o Edmund Husserl» (pp. 43-44). Ma si trattava anche di un mondo che, al di là delle divisioni, nutriva l’assoluta convinzione di detenere un ruolo decisivo nell’impresa di una rifondazione del pensiero occidentale. «A nessuno di quei docenti, grazie al cielo, importava alcunché dell’offerta formativa, come si direbbe oggi. Semmai ciascuno di loro era impegnato con se stesso e con la sua scuola a portare avanti un certo progetto filosofico, una certa idea di filosofia. Sembrava che i destini della filosofia fossero rimessi a loro. Quel che era e sarebbe stato della filosofia, il suo futuro, ma anche il suo passato, lo si decideva lì, in quelle aule, in quei corridoi, attraverso quelle parole. Una cosa che non poteva non suscitare da una parte scetticismo, ironia, disincanto e dall’altra entusiasmo, passione intellettuale e addirittura una specie di fede, quasi che la persuasione e la retorica […] anziché escludersi reciprocamente si specchiassero l’una nell’altra» (p. 44). Dinanzi alla necessità di schierarsi da una parte o dall’altra, Givone si sarebbe accostato a Pareyson, ma non senza qualche lacerazione, anche perché una simile decisione comportava pressoché inevitabilmente una divaricazione rispetto al percorso e alla scuola di Abbagnano (non senza paradossi, dal momento che entrambi quei filoni prendevano le mosse dall’esistenzialismo). Ma, pur nella contiguità fisica, ricorda Givone, la distanza teorica tendeva a erigere una pressoché invalicabile barriera di incomunicabilità, neppure scalfita dalle necessità della convivenza accademica. «Sulla scale di Palazzo Campana», dice infatti Givone, «i professori si incontravano, sfiorandosi appena. Nessuno scambio di idee, nessuna comunicazione, tra di loro, neppure alle sedute di tesi di laurea (che in altri atenei fungevano da pretesto per affilare le lame), essendo ciascuno interamente compreso di sé, del proprio pensiero, delle scelte di fondo, sole ed esclusive. Un semplice gesto, non privo di sussiego ma anche di retro pensieri, esprimeva in un colpo solo tutto ciò» (pp. 44-45).
Nel corso della conversazione, Givone torna sugli snodi principali della sua ricerca filosofica, e i punti interessanti sono naturalmente molti. A un certo punto dell’intervista, Givone si sofferma però sul Sessantotto, un momento forse non così rilevante per la sua biografia personale, ma senz’altro piuttosto significativo per la vita italiana e, in generale, per la stessa concezione dell’intellettuale e del suo ruolo sociale. Rievocando quei giorni, e in particolare quanto avvenne proprio a Torino, nelle aule del vecchio Palazzo Campana, Givone ricorda il proprio personale atteggiamento, non di ostilità, ma comunque tiepido nei confronti dei contestatori. «Non partecipavo se non saltuariamente ai riti sessantottini, anche se a officiarli erano i miei compagni di università», «quel che stava accadendo né mi respingeva né mi coinvolgeva» (p. 91). Ma, al di là di questo, Givone formula anche un giudizio sull’eredità filosofica del Sessantotto, e in questo senso il suo discorso – che certo, all’interno di una pur lunga intervista, non può che essere schematico – tende a diventare piuttosto netto. In particolare, Givone – in un passaggio anticipato anche nell’articolo Il Sessantotto ha perso il pensiero, in «Avvenire», 30 marzo 2011, p. 24 – sostiene che il Sessantotto abbia lasciato ben poche tracce nella riflessione filosofica contemporanea. «Nelle parole d’ordine e negli scritti prodotti a getto continuo in ciclostile, per tacere delle discussioni assembleari da cui regolarmente scappavo, non c’era l’ombra di una riflessione autenticamente filosofica. Era una specie di retorica, a volte anche ben congegnata, più spesso no. Probabilmente era anche dell’altro, qualcosa che aveva a che fare con una laica (laica?) liturgia della parola – liturgia ossessiva e non priva di tratti paranoici – piuttosto che con la filosofia» (p. 87). In altre parole, secondo Givone, del Sessantotto, nel pensiero filosofico contemporaneo, è rimasto poco non perché l’apporto di quella riflessione e di quella critica sia stato dimenticato, ma solo perché – come osserva – in quelle fatali giornate non prese mai forma un autentico «pensiero»:
«Della filosofia sessantottesca non è rimasto niente. Semplicemente perché tale filosofia non è mai esistita. Naturalmente esistevano scuole di pensiero e autori in cui il Sessantotto cercò il proprio supporto ideologico. Ma siccome l’ideologia prevaleva di gran lunga sulla critica, a uscirne massacrati furono proprio gli autori che il movimento aveva scelto per maestri, anzi (visto che i maestri erano respinti), per guide. Più che leggere, i sessantottini citavano; e citavano Marx, naturalmente, oltre Lenin e Mao, per non parlare di trovate o scoperte quasi surreali, come l’apprezzamento delle teorie linguistiche di Stalin. Marx veniva letto, si fa per dire, attraverso Garaudy e Althusser, e il risultato era inevitabilmente un cerchio quadrato. Althusser sottolineava nell’opera marxiana quella che secondo lui era una rottura epistemologica a partire dalla quale s’imponeva un nuovo paradigma scientifico e cioè la scienza come unico modello di prassi e di comprensione del mondo. Invece Garaudy portava a fondo il carattere utopico, profetico e messianico del marxismo, facendolo coincidere con una sorta di misticismo che, anziché precipitare l’assoluto nella storia, innalzava la storia all’assoluto. Come potessero coesistere due letture diverse e contraddittorie, resta un mistero. A meno che a tentare quei marxisti immaginari, come qualcuno poi li chiamò, non fosse proprio l’idea che mistica e scienza in fondo fossero la stessa cosa… Idea peregrina fin che si vuole, ma dura a morire, se si pensa ai successivi teorici della politica come prassi che rispecchia il movimento oggettivo della realtà, in una parola prassi scientifica» (pp. 87-88)
Nella protesta retrospettiva di Givone contro la retorica del Sessantotto – una vuota retorica, più o meno elegante, ma ovviamente ben lontana dalla filosofia – si può naturalmente scorgere l’eco non poi così flebile della vecchia protesta platonica contro le capacità affabulatorie dei demagoghi, contro l’ignoranza della massa, e contro la piazza, come luogo incompatibile con l’essenza più profonda della riflessione filosofica. Ma, al di là di questo, il discorso di Givone coglie alcuni elementi significativi. Il primo dei quali è proprio l’assenza di un pensiero filosofico del Sessantotto. «Il Sessantotto», esplicita Givone da questo punto di vista, «non fu né soggetto né oggetto di filosofia. Non ha prodotto un suo pensiero autonomo. E neppure è stato pensato come evento filosofico. Questo vale per la prima fase del movimento, sia per la sua involuzione tetra e violenta. Specialmente di fronte all’uovo malefico che non è figlio del movimento, ma dal movimento è stato fatto schiudere, il terrorismo, la riflessione filosofica è apparsa disarmata e impotente» (p. 89).
Ciò nondimeno, se si può affermare che il Sessantotto francese non ebbe una filosofia, non si può però sostenere che non abbia determinato una svolta notevole nella riflessione successiva, e questo è d’altro canto un punto che lo stesso Givone sottolinea chiaramente. «Il Sessantotto» - osserva infatti - «contribuì a suo modo a mutare le coordinate culturali. Fu (anche) per via di questa azione se il pensiero filosofico dell’epoca tentò nuove strade, incrociando i percorsi, operando commistioni e non rinunciando a forzature. In Francia il marxismo, attraverso Foucault e la sua archeologia del sapere, versione aggiornata della marxiana critica dell’ideologia, si sposa con lo strutturalismo, che poi, in Derrida, si rovescia nel suo contrario e dà luogo a un’ontologia negativa della memoria e della traccia. In Germania la Scuola di Francoforte troverà in Habermas il suo epigono e il suo affossatore. In Italia ci sarà chi, come Vattimo (e dietro Vattimo, poi, una legione) piegherà Nietzsche e Heidegger a una riconsiderazione tutta in positivo del nichilismo, restia a scoprirne il risvolto ombroso e maligno. Va detto che nessuno di questi autori può essere definito un sessantottino. Anche se, se non ci fosse stato il Sessantotto, il loro pensiero non sarebbe stato quello che è stato» (p. 90).
Naturalmente, sarebbe facile replicare ai Givone che i giovani protagonisti della contestazione studentesca non intendevano costruire un sistema filosofico, ma realizzare – certo in modo velleitario e romantico – una ‘rivoluzione’. E rimproverare a quei giovani – che, in fondo, erano studenti poco più che ventenni – di non avere edificato una filosofia nell’arco di alcuni mesi (o di avere ‘tradito’ i filosofi cui si alimentavano i loro slogan), sarebbe come rimproverare a Marat e Robespierre di essersi limitati a riprendere alcuni elementi dalla teoria di Rousseau o, in generale, dal pensiero illuminista, ma di non avere edificato un pensiero realmente originale. In modo pressoché inevitabile, l’urgenza della pratica politica impone d’altronde un rapporto specifico con la riflessione filosofica: un rapporto che non è, semplicemente, di contrapposizione irriducibile, ma, piuttosto di subalternità del pensiero alla pratica, nel senso che i movimenti – e il Sessantotto in modo emblematico – cercano nella teoria degli strumenti sia per ‘comprendere’, sia per ‘orientare’ l’azione o per ‘legittimare’ determinate scelte. In pochi mesi vengono così abbracciate, consumate, abbandonate e definitivamente dimenticate dottrine faticosamente elaborate nel corso di decenni, che finiscono con l’essere condannate da un logoramento ‘politico’ che poco ha a che vedere con la loro fragilità teorica. E questo è effettivamente avvenuto per alcuni autori in cui il Sessantotto – nel momento culminante della propria parabola – ha rinvenuto un orientamento importante, come, per esempio, Herbert Marcuse o Louis Althusser.
Il discorso rischia però di diventare sfocato se non viene calato all’interno delle singole realtà nazionali, o forse persino locali, perché, al di là delle rievocazioni giornalistiche (celebrative o polemiche), un esame serio impone di riconoscere che il ‘Sessantotto’ ebbe caratteristiche politiche e intellettuali molto diverse – per rimanere in Europa occidentale – in Francia, Italia e Repubblica Federale Tedesca. In Francia, il «Maggio» trovò effettivamente riferimenti importanti in quegli autori che Givone ricorda – in particolare, Althusser e Garaudy – anche se altri filoni ebbero il loro ruolo. Ma un simile discorso risulta invece poco calzante per altri Paesi europei. D’altronde, se in Francia la grande ondata della primavera del 1968 si concluse molto rapidamente, nella Germania Occidentale il movimento studentesco diede origine a esperienze politiche e culturali molto articolate, e instaurò un rapporto piuttosto ambivalente con i propri principali riferimenti teorici, ossia con la Teoria critica e, in particolare, con Adorno e Marcuse. Riflettendo su questo rapporto, Stefano Petrucciani ha osservato che, per molti versi, «la teoria critica è la teoria del ’68», anche perché, «in Germania, i migliori leader del ’68 sono allievi, più o meno direttamente, della Scuola di Francoforte», e perché, «in tutto il mondo occidentale, l’unico teorico critico di grande statura che viene assunto a punto di riferimento del movimento (sebbene ovviamente sia anche molto criticato) è un francofortese come Herbert Marcuse» (S. Petrucciani, La teoria critica francofortese e il movimento del Sessantotto: un rapporto complicato, in M. Baldassarri – D. Melegari, a cura di, La rivoluzione dietro di noi. Filosofia e politica prima e dopo il ’68, Manifestolibri, Roma, 2008, p. 29). Eppure, anche questo rapporto non poteva essere di piena identificazione, semplicemente perché Marcuse – soprattutto con L’uomo a una dimensione – forniva una lettura solo in parte soddisfacente, una lettura che doveva essere superata ‘politicamente’, scavalcata cioè dall’esigenza (politica) di dare al movimento studentesco un orizzonte che non fosse circoscritto alle aule universitarie e che comprendesse, invece, le grandi dinamiche internazionali e il conflitto sociale delle stesse società industriali. «Ma qui», osserva, Petrucciani, «dal quadro francofortese bisognava uscire, perché in esso c’era troppa insistenza sulla integrazione, o la latenza, della classe operaia e del suo potenziale di conflitto, e troppa poca fiducia nella bontà delle lotte antimperialiste, e delle potenze (Unione Sovietica e Cina) che le sostenevano» (ibi, p. 29). Abbandonando Marcuse e i francofortesi, il Sessantotto tedesco, o, meglio, i suoi eredi politici, avrebbero perso qualcosa, ma avrebbero anche compiuto uno sforzo notevole (dai risultati ambivalenti) nella direzione di un complessivo ripensamento teorico.
Per quanto concerne il caso italiano, il discorso diventa ancora più complesso, sia per le enormi differenze (teoriche, ideologiche, politiche) che questo movimento presentò, sia perché in Italia il «maggio» si prolungò per dieci anni, favorendo una riflessione ben più articolata, innescando una ripresa qualche volta caricaturale della tradizione del marxismo novecentesco, ma avviando anche feconde contaminazioni fra il marxismo e filoni teorici estremamente eterogenei. In questo caso, l’idea che il Sessantotto non abbia prodotto una filosofia non può allora che scontrarsi con alcune obiezioni preliminari. Innanzitutto, ci si può chiedere, ‘cosa’ fu il Sessantotto in Italia, ‘quando’ incominciò quel processo, e, soprattutto, quale fu il momento in cui si esaurì, e iniziò a diventare qualcosa di diverso. Naturalmente, a queste domande si può rispondere in modo diferente. Per esempio, si può sostenere che il Sessantotto si concluse il 31 dicembre del 1968, non tanto per ossequio al calendario, quanto perché in quella notte di Capodanno il grave ferimento di uno studente determinò un mutamento nella fisionomia e negli obiettivi del movimento. In questo caso, non diventa allora troppo difficile affermare che il Sessantotto italiano non ebbe una filosofia, perché la si dovrebbe cercare nelle assemblee e nei documenti del movimento studentesco: documenti talvolta cupi e ideologici, altre volte persino goliardici nel loro impeto antiautoritario, ma, in ogni caso, molto lontani dal rigore e dalla organicità di una riflessione ‘filosofica’. Se, al contrario, si ‘dilata’ il Sessantotto italiano lungo i dieci anni del «maggio strisciante», fino a ricomprendervi l’intera «stagione dei movimenti», il discorso non può che cambiare. Perché, allora, è necessario riconoscere che il Sessantotto italiano ebbe una riflessione importante, i cui tasselli principali possono essere ritrovati, per esempio, nel (post)operaismo italiano e nelle origini del pensiero della differenza sessuale, e le cui tracce devono essere rinvenute, più che in singoli autori, in un dibattito disseminato in un eterogeneo arcipelago culturale. Ma, soprattutto, è necessario riconoscere che ciò che oggi nel mondo si considera del pensiero italiano – quella che viene definita sempre più spesso come Italian Theory – risulta un’emanazione proprio della riflessione di quel decennio.
Tutto questo non riguarda però la Francia, perché, dopo la fiammata del «Maggio», il dibattito imboccò un sentiero molto diverso da quello seguito nella Germania Occidentale o in Italia. E, in questo senso, le osservazioni critiche di Givone colgono, almeno in parte, nel segno. Il pensiero di Foucault, per quanto sia influenzato dal Sessantotto, dispiega il proprio potenziale critico solo più tardi, preparando peraltro il terreno alle provocazioni dei «nouveaux philosophes», mentre l’indagine di Althusser, passando per il recupero sempre più grottesco di un’ortodossia che comprende addirittura Stalin, si allontana in modo crescente dalle istanze di rinnovamento critico della tradizione marxista. In altri termini, la filosofia francese segue un sentiero sempre più distante dagli slogan del «Maggio» e dagli entusiasmi del maoismo della «Rivoluzione introvabile».
Ciò nondimeno – benché sia dunque difficile contestare davvero la lettura di Givone sull’inesistenza di una vera e propria filosofia del Sessantotto – c’è però un dato che non può essere sottovalutato. E cioè che, molto tempo dopo la rivolta studentesca, ha iniziato a prendere forma, nel dibattito francese, una sorta di nuova filosofia ‘sul’ Sessantotto. Si tratta di una filosofia che sicuramente ha un collegamento effettivo con la rivolta, quantomeno perché gli intellettuali che l’hanno formulata, nel corso dell’ultimo ventennio, furono protagonisti (più che semplici testimoni) di quelle giornate. Ma si tratta anche di una filosofia che, più che alla realtà materiale dei fatti, alle radici storiche, politiche, ideologiche di quella fiammata, tende a guardare al Sessantotto come a un ‘evento’, a una rottura della continuità storica, che viene a definire il paradigma di ogni possibile rivolta.
Non è molto difficile spiegare il motivo per cui attorno al ‘Sessantotto’ è cresciuta – forse anche implicitamente – una vera e propria riflessione filosofica. Fin dai giorni della rivolta studentesca, il «Maggio» divenne, per molti intellettuali radicali francesi, il simbolo di una sorta di palingenesi sociale, la rottura di un ordine sociale all’apparenza immutabile, oltre che il momento capace di innescare il declino politico del Generale De Gaulle. In questo modo, come scrisse Raymond Aron nella Rivoluzione introvabile, uno dei suoi libri probabilmente più contestati, molti intellettuali francesi – tutt’altro che sprovveduti, tutt’altro che facili agli entusiasmi – ritennero di trovare nel «Maggio» il paradigma di un nuovo tipo di rivolta, oltre che la ripresa di quello slancio utopico che la società tecnocratica degli anni Sessanta aveva ormai completamente perduto. L’entusiasmo si dissolse rapidamente, insieme a una rivolta che non riuscì a garantire – a differenza di quanto avvenne in Germania e in Italia – una effettiva continuità organizzativa a ciò che rimaneva del movimento studentesco e delle mobilitazioni di fabbrica. Ma, per molti versi, non sparì del tutto, perché continuò a percorrere carsicamente la riflessione francese e a indirizzare il percorso di alcuni dei protagonisti di quel movimento, che – forse non senza un alone di nostalgia – non cessarono di coltivare il ricordo del «Maggio».
Quando, durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2007, Nicholas Sarkozy indirizzò i propri strali polemici verso il Sessantotto, accusato di aver infiacchito lo spirito francese, non rivisitava, così, soltanto un repertorio ormai consunto del conservatorismo europeo. Non si trattava, cioè, soltanto della polemica contro l’egualitarismo e a favore della meritocrazia e della disciplina che costituisce l’abituale corollario retorico di quei demagoghi che – anche solo per lo spazio di qualche settimana – intendono vestire l’abito dei fustigatori dei costumi dissoluti della società contemporanea. In modo più sottile – ed era questo il punto qualificante della sua operazione – Sarkozy andava a colpire ciò che, nel corso degli anni, era diventato, almeno per una parte del mondo intellettuale francese, un autentico mito fondativo, oltre che il paradigma di ogni possibile rivolta futura. Ed è proprio questo il motivo per cui una simile provocazione ha sollevato, in Francia, un dibattito tanto acceso e repliche tanto accorate, per nulla paragonabili alle reazioni destate in Italia da analoghe operazioni. Benché in Italia esistano infatti personaggi che, nel corso del tempo, hanno assunto il ruolo di vestali della memoria di un Sessantotto da distinguere in modo netto dagli orrori e della violenze del decennio seguente (basti pensare, da questo punto di vista, alla bibliografia di Mario Capanna), il dibattito intellettuale ha da tempo fatto giustizia del romanticismo e della tentazione dell’amarcord. E, così, anche coloro che hanno inteso difendere il Sessantotto dagli attacchi – non infrequentemente maldestri – di una classe politica, peraltro poco credibile nel ruolo di alfiere della meritocrazia e del rigore dei costumi, hanno guardato altrove, e non dunque alla portata palingenetica della fiammata della rivolta studentesca. In Francia, invece, il dibattito ha imboccato una strada diversa, e, per comprendere in che modo sia stata difesa la memoria del «Maggio», è sufficiente rileggere i contributi di due tra i principali protagonisti della scena filosofica transalpina, come Alain Badiou e Jean-Luc Nancy.
Al neo-eletto presidente francese, Badiou dedicò addirittura un intero pamplhet politico-filosofico, in cui Sarkozy diventava il simbolo della paura dei francesi: una «paura conservatrice e crepuscolare», scriveva Badiou, che «ingenera il desiderio di avere un capo che vi protegga, foss’anche opprimendovi e pauperizzandovi ulteriormente» (A. Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome?, Cronopio, Napoli, 2008, p. 9). La polemica di Sarkozy contro il Sessantotto, la sua dichiarata volontà di farla davvero finita con il «Maggio» tradisce allora – secondo Badiou – qualcosa di più che una semplice protesta in estremo ritardo storico. «Quando Sarkozy confessa che Maggio ’68 è lo spettro che lo ossessiona e di cui vorrebbe sbarazzarsi», scrive, «sta in fondo parlando di una delle ultime manifestazioni reali dello spettro del comunismo» (ibi, p. 43). ‘Farla finita’ con il Maggio vuol dire, in altre parole, farla finita con la stessa possibilità di pensare che i ‘consumatori’ passivi possano tramutarsi in ‘contestatori’:
«L’importanza di questa elezione sta nel fatto che essa veicola la convinzione, condivisa da quelli che oggi accedono al potere e da quelli che li seguiranno, che si possa forse farla finita con quel ‘qualcosa’ di cui Maggio ’68 è uno dei nomi, il più recente in Francia. Farla finita come? Facendo in modo che la metamorfosi degli individui consumatori, passivi e stereotipati in soggetto d’un processo reale, nel quale tener fermo in punto reale è la regola, diventi letteralmente fuori legge. Non solo in un senso poliziesco, come pure succederà. Ma nel senso che una tale metamorfosi dovrà restare per sempre dell’ordine dell’irrappresentabile ‘assoluto’. Fare ‘qualcosa’ che non sia interno alla temporalità che ci viene proposta dovrà ricadere così al di fuori non soltanto del mondo empirico, ma anche della legge che regola ogni mondo possibile o immaginabile» (p. 44).
Se la celebrazione del «Maggio» non è certo sorprendente, in un autore che ha fatto della ridefinizione dell’«ipotesi comunista» un perno della propria riflessione filosofica, è invece forse ancora più interessante – se non del tutto imprevedibile – che parole in fondo simili (almeno per gli accenti) a quelle di Badiou siano giunte da Nancy. In Verità della democrazia (Cronopio, Napoli, 2009), anche Nancy prende infatti le mosse dall’attacco di Sarkozy. «Dopo le denunce miopi o impaurite di certi intellettuali» - così si apre l’opuscolo di Nancy - «l’autorità che presiede allo Stato francese ha definito ‘Maggio 68’ come l’origine di un rilassamento e di un relativismo morale, di un’indifferenza e di un cinismo sociale di cui sarebbero vittime la virtù politica e un capitalismo che si presume dotato di scrupoli» (ibi, p. 7). Ma, secondo il filosofo, il Sessantotto fu qualcosa di ben diverso da come viene raffigurato, perché, scagliandosi contro il capitalismo e la politica, aveva anticipato una domanda cruciale anche oggi. «Il 68, infatti, ha cominciato a mettere in dubbio, senza che allora ce ne fossimo resi veramente conto, la certezza democratica che in quel momento sembrava confortata dai progressi della decolonizzazione, dell’autorità crescente delle rappresentazioni dello ‘Stato di diritto’ e dei ‘diritti umani’ e, nello stesso tempo, dall’esigenza sempre più chiara di una giustizia sociale i cui modelli non fossero tributari dei presupposti che il termine ‘comunismo’, così come avevamo finito per intenderlo, implicava» (ibi, pp. 9-10). In questo senso, «non c’è quindi nessun motivo per parlare di un’‘eredità’ del 68», perché «non c’è stato nessun decesso», perché «lo spirito non ha mai smesso di soffiare» (ibi, p. 10). E questo spirito consiste nell’urgenza di rispondere a «una delusione poco visibile ma insistente, un sentimento tenace della mancata riconquista di quanto all’indomani della seconda guerra mondiale sembrava aver fatto il suo ritorno trionfale: la democrazia appunto» (ibi, p. 11). In modo specifico, infatti, secondo Nancy, l’ethos del Sessantotto «tendeva a svincolare l’azione politica dal quadro convenuto dell’esercizio e della presa del potere – che fosse per via elettorale o per via insurrezionale – e dal riferimento a modello o a dottrine […] in un senso inedito del termine: configurazione di idee, corpi di pensiero, e non più riflesso rovesciato del reale» (ibi, p. 22). E, così, riportava al centro della democrazia il suo autentico soggetto, l’essere umano:
«In vari modi – in modi molto diversi, addirittura opposti – si abbandonava il regime della ‘concezione’ (concezione del soggetto e soggetto della concezione, controllo dell’azione e azione di controllo, visione e previsione, proiezione e produzione degli uomini e dei loro rapporti) per aprire un altro regime di pensiero: non più produrre forme che avevano il compito di modellare un dato storico già in qualche modo preformato in se stesso – quanto meno preformato da un’idea generale di ‘progresso’ e dalla possibilità di esaminare il corso delle cose in nome di una ragione disponibile – ma esporre gli obiettivi stessi (l’‘uomo’ o l’‘umanesimo’, la ‘comunità’ o il ‘comunismo’, il ‘senso’ o la ‘realizzazione’) a un superamento di principio: a ciò che una previsione non è in grado di esaurire perché questo mette in gioco un infinito in atto» (p. 22)
Interpretazioni così dense – e differenti fra loro – come quelle di Badiou e Nancy meriterebbero ovviamente una lettura più approfondita, e attenta a inscrivere il significato specifico attribuito al Sessantotto all’interno del complesso quadro teorico allestito da ciascuno dei due autori. Ma ciò che qui interessa è piuttosto il fatto che – a dispetto delle divergenze – sia Badiou sia Nancy tendano a convergere verso l’idea del «Maggio» come ‘evento’ capace di interrompere la continuità storica, come qualcosa di estraneo alla ‘temporalità’ storica, come qualcosa che rompe nettamente con la logica della società tecnocratica. E, in questo senso, i due filosofi sembrano davvero allinearsi a una visione largamente condivisa all’interno dello scenario teorico francese degli ultimi decenni. Proprio considerando questo dibattito – e in particolare le riflessioni di Maurice Blanchot, Gilles Deleuze e Félix Guattari, oltre che dello stesso Badiou – Diego Melegari ha messo in luce la tendenza comune a enfatizzare la dimensione ‘evenemenziale’ a scapito di un’analisi volta a scrutare la storicità dentro la quale anche il «Maggio» si innesta. In tutte queste letture, secondo quanto scrive Melegari, si può infatti riconoscere una comune «insistenza sulla purezza dell’evento», un’insistenza che, peraltro, non può che accompagnarsi anche alla «nota più inquietante del suo probabile ‘riassorbimento’», oltre che alla «consapevolezza di una certa prossimità tra la sua intima indecibidibilità e la moltiplicazione di forme differenziate, magari conflittuali, della sua ‘perdita’, cioè della sua messa in valore spettacolarizzata e sistemica» (D. Melegari, Una rivoluzione senza storia. Tre percorsi su Maggio ’68 e filosofia francese, in La rivoluzione dietro di noi, cit., p. 105). Tanto che – osserva ancora Melegari - «proprio nella rivendicazione della radicale differenza tra il piano dell’evento e quello della storia, le immagini del Maggio […] lascino trasparire anche altri elementi che obbligano a domandarci se ciò che merita di essere pensato nel Sessantotto non debba offrirsi, oggi, proprio come un pensiero su ciò che in esso si è chiuso e, forse, contro ciò che di esso ha trovato affermazione e rappresentazione» (ibidem).
Naturalmente, sarebbe interessante interrogarsi sulle motivazioni che stanno alla base di questa singolare – e seducente – ‘filosofia del Maggio’. Forse, si potrebbe infatti ritrovare, alle radici di questa concettualizzazione dell’evento Sessantotto proprio il lascito di quell’«assenza» (più semplice insufficienza) di riflessione filosofica che Givone scorge oggi tra le fila dei contestatori. Ma, forse, proprio alla base dell’«insistenza sulla purezza dell’evento», che contrassegna la riflessione filosofica francese, si può anche ritrovare un rapporto problematico, e irrisolto, con quei grandi ‘maestri’, come soprattutto Althusser, che – osannati o rinnegati, ma mai seriamente criticati – per molti versi delinearono il quadro generale entro cui i protagonisti del dibattito contemporaneo iniziarono a muoversi ormai più di quarant’anni fa. Non è infatti improbabile che, dentro la celebrazione dell’evento contro la storia, dentro l’esaltazione della soggettività ‘evenemenziale’ del «Maggio», si possa riconoscere proprio la logica di un rovesciamento della «storia senza soggetto» di Althusser. Un rovesciamento che, però, non può che riprodurre – anche se in una forma diversa – le medesime distorsioni prospettiche di uno strutturalismo claustrofobico. E consegnarci dunque – insieme all’immagine di una ‘miracolosa’ rottura della continuità – la figura ‘dimidiata’, annichilita, caricaturale, di un soggetto senza storia e di conflitti senza radici.
Damiano Palano