domenica 21 agosto 2011

Il tempo sospeso di Boccalone. Rileggere il primo romanzo di Enrico Palandri

di Damiano Palano


Quando uscì nel 1979 per la piccola casa editrice milanese L’Erbavoglio, Boccalone. Storia vera piena di bugie di Enrico Palandrida poco ripubblicato da Bompiani (pp. 187, euro 9.50), divenne una sorta di piccolo best seller. A determinare quel successo non furono probabilmente solo la storia e lo stile del libro. A trasformare quel romanzo, pubblicato da un minuscolo editore, in un caso letterario (e politico) fu anche il fatto che Boccalone  poteva essere letto – a dispetto delle intenzioni dell’autore – come un ritratto dei ventenni della fine degli anni Settanta, e in particolare dei ventenni di Bologna, e cioè della Bologna del 1977, di Radio Alice e di un movimento che aveva manifestato, in modo clamoroso, la totale divaricazione fra la sensibilità di una rivolta giocosa, esistenziale, libertaria, e la disciplina, il rigore, l’austerità, la retorica del lavoro del Pci berlingueriano. In altri termini, il libro di Palandri poté essere interpretato – e tanto apprezzato quanto criticato – come una sorta di manifesto letterario della generazione dei ‘non garantiti’, come un’espressione della ‘seconda società’ di cui Alberto Asor Rosa aveva scritto a proposito del movimento del Settantasette e della cacciata di Luciano Lama dalla Sapienza. E, così, persino Massimo D’Alema – esercitandosi nell’attività di critico letterario – non mancò di notare come il quadro dipinto da Palandri (così esplicito soprattutto nel rimarcare la dimestichezza dei giovani bolognesi con le droghe leggere) risultasse del tutto inopportuno e ingiusto nei confronti del capoluogo emiliano.
In realtà, la storia – nient’altro che una breve, tormentata storia d’amore fra due ragazzi, Enrico e Anna (i cui nomi sono scritti rigorosamente con l’iniziale minuscola) – non ha di per sé alcuna connotazione specificamente politica. Anche se naturalmente i due giovani – o, in verità, solo Enrico, perché Anna appare soltanto attraverso la mediazione del narratore-protagonista – si muovono nella Bologna del ’77, in un nomadismo inarrestabile, nel brulicare del formicaio di Piazza Maggiore. «L’azione del libro» - scriveva Pier Vittorio Tondelli (che condivise con Palandri la formazione nel medesimo humus politico e culturale) - «si situa a ridosso del marzo 1977, dei mesi della rivota creativa, dei carri armati invitati a presidiare la cittadella unversitaria, della latitanza di Bifo e del traseversalismo, dell’assedio di Radio Alice. Episodi che di Boccalone costituiscono lo sfondo e lo scenario principale, come nelle tavole di Andrea Pazienza. Ma Boccalone  è soprattutto una storia d’amore, prima ancora che di crisi politica, la storia di come un innamoramento possa far scoppiare i propri equilibri, creare intensità nuove. […] Boccalone è la trascrizione, ora eccitata, ora depressa, ora ironica o addirittura comica, di come un rapporto d’amore vissuto con limpidezza o sincerità possa far crescere, e anche abbandonare quelle cose che prima si definivano come abitudine. Boccalone è soprattutto un libro che testimonia una crescita, del suo autore innanzitutto, del suo personaggio, del giro degli amici» (Enrico Palandri, in P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano, 1990, p. 213). Ma, al di là di questo, ciò che probabilmente contrassegnava il libro di Palandri era l’adozione di uno stile sperimentale, in cui confluivano le esperienze bolognesi del ‘mao-dadasimo’ di «A/Traverso» e di Radio Alice (se ne possono trovare tracce nei libri del periodo di Franco Berardi, o anche in un libro come Bologna marzo 1977… fatti nostri…, Bertani, Verona, 1978, cui lo stesso Palandri collaborò), ossia esperienze che cercavano di fondere – con un indubbio gusto per la dissacrazione goliardica – il patrimonio delle avanguardie artistiche novecentesche con le istanze di un movimento libertario, sempre più insofferente per i linguaggi e per la pratica dell’estrema sinistra. E, in effetti, ciò che più colpisce – e forse appare anche più datato – di Boccalone è proprio lo stile, irrispettoso nei confronti della punteggiatura, delle regole della grammatica, che, con la propria fluidità – solo all’apparenza frutto di spontaneità – intendeva riflettere uno modo di vita e corrispondere fedelmente alla destrutturazione dell’esperienza giovanile. Da questo punto di vista, più che dall’intreccio, l'elemento davvero originale di Boccalone era così il clima emotivo che emergeva dalle pagine del romanzo. Un clima di cui è sufficiente leggere alcuni passi per cogliere la densità:

«Appartengo al popolo dei camminatori: notturni, silenziosi, attraversiamo la città e non temiamo le distanze; camminiamo per ore con le mani in tasca, parliamo o stiamo in silenzio, non temiamo le distanze
Facciamo andare le gambe, ci stiamo sopra, divoriamo la strada e non temiamo le distanze
Qualche tempo fa giancarlo mi ha detto che sono cresciuto, sono un popolo alto anch’io! ogni tanto vi capita certamente di incontrare un popolo alto, lo riconoscete, se lo riconoscete, da come cammina, con le mani in tasca, i passi veloci e tranquilli, non teme le distanze.
Auguro a tutti i popoli alti camminatori una buona notte in compagnia, a camminare per le strade, in silenzio o in compagnia, con le gambe veloci che ti portano avanti.
Questo popolo è disperso in tutte le città che ho conosciuto, a volte non cammina neppure, non conosce i suoi passi, non va da nessuna parte, dimentica da cove viene, resta immobile ed aspetta la morte, con o senza la dignità proverbiale del suo popolo.
Io non so bene dove vado, ma mi muovo lo stesso, provo piacere nel farlo, amo camminare, amo la notte, amo le stelle.
Cosa non si ama quando si è felici? amo anche il giorno e il prato aperto, il colore delle stelle che qualcuno dirà non si vede bene, e le lucciole e tutti gli animali; tuttavia non posso garantire nulla a queste cose amate, non so quanto questo amore possa durare, né quanto sia sincero.
Sono bugiardo, che per uno che dice dice, scrive scrive, è un difetto notevole» (E. Palandri, Boccalone. Storia vera piena di bugie, Bompiani, Milano, 2011, pp. 92-93).

Boccalone andava a inscriversi all’interno di un filone che, proprio negli anni Settanta (o, meglio, alla fine degli anni Settanta), aveva avuto una fortuna notevole. A ben vedere, però, l’avvio di quella sorta di sotto-genere letterario, centrato specificamente sul mondo giovanile e sulle sue culture, aveva iniziato a prendere forma già alla metà degli anni Sessanta, quando anche in Italia i ‘giovani’ avevano iniziato a mostrare un’identità definita, spesso percepita come – pericolosamente – distante dai valori degli adulti. Con qualche ritardo rispetto ad altri paesi occidentali – basti pensare ai ‘ribelli senza causa’ americani, o anche a una certa cinematografia francese – i giovani in Italia divennero infatti una categoria rappresentata dal cinema, dalla stampa e dalla letteratura solo al principio degli anni Sessanta, a partire dalla breve fiammata dei teddy boys, esauritasi in realtà nel breve arco di alcuni mesi. 

Più o meno partire da questo momento, il ‘giovane’ – con le sue mode, la sua musica e (spesso) i suoi eccessi – prese a diventare il simbolo stesso di una società in crisi, di una società che pareva incapace di trasferire i valori tradizionali della disciplina, del lavoro, del senso del dovere, ai figli di un benessere improvviso, attratti da successo apparentemente alla portata di chiunque. E anche la letteratura – in verità una letteratura spesso minore – tentò di fornire rappresentazioni efficaci di questa trasformazione. Esempi possono essere rintracciati nei romanzi polizieschi di Giorgio Scerbanenco e in alcuni dei racconti di Milano calibro 9 (si pensi a Bravi ragazzi bang bang, da cui Romolo Guerrieri trasse nel 1976 Liberi armati pericolosi, un buon film di ‘genere’ con Tomas Milian, Eleonora Giorgi e persino un esordiente Diego Abatantuono), in cui giovani provenienti da oneste famiglie di lavoratori sembrano gettarsi in disperate attività criminali solo per noia o per cogliere un attimo di fuggevole notorietà. Ma un esempio forse più significativo – anche perché estraneo alla letteratura di genere – è offerto da Freddo Furore (Sugar, Milano, 1966), un romanzo poco noto di Ugo Pirro, uno dei più importanti scrittori del cinema italiano (sceneggiatore, fra l’altro, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e di La classe operaia va in paradiso). In Freddo furore, Pirro si calava infatti nel mondo dei giovani della ‘Roma bene’ della metà degli anni Sessanta, un mondo ‘motorizzato’, che risultava dominato dalla presenza ossessiva di automobili sportive. 
Ovviamente, la velocità delle auto dei giovani rampolli della buona borghesia capitolina era un simbolo, ben più che un semplice motivo realistico. Era infatti il simbolo di una trasformazione sociale (e urbana), ma anche il simbolo di un modo di vivere, di consumare senza sosta emozioni, rapporti, esperienze destinate a lasciare solo insoddisfazione e noia. Per rappresentare questo stato emotivo, questa instabilità irrequieta e insaziabile, Pirro ricorreva a sperimentazioni stilistiche senza dubbio piuttosto ardite, che avrebbero trovato degli epigoni, più o meno consapevoli, e più o meno originali, molto più tardi, nei ‘cannibali’ letterari degli anni Novanta. Così, rileggendo oggi le pagine di Pirro, alcuni passaggi non possono che colpire per la capacità visionaria, ma anche per qualche eccesso che finisce col risultare addirittura caricaturale. E, da questo punto di vista, è emblematica la descrizione dell’Altare della Patria, visitato in una delle tante scorribande notturne:

«Riprendemmo a salire lungo il colonnato indecentemente brutto. Sfiorammo il piedistallo su cui è poggiato l’enorme monumento equestre nero e oro. Un odore stantìo di orina usciva dagli angoli in ombra e rendeva più acuto quel tanfo di morte che vagava nell’aria. Proseguimmo come in un labirinto, ma calmi, rassegnati a perderci. Dall’alto guardiamo Roma. Luna sputò giù. La Via dell’Impero, dall’altro, sembrava una lunga pista per scarabei sfuggiti alle tombe dei cesari. Ovunque colonne spezzate e divorate in parte dai venti; capitelli giganteschi abbattuti sui depositi di scheletri rispettabili. E poi, giù in fondo, il Colosseo con le sue viscere di leoni morti, di gladiatori uccisi, di ceneri santificate, di statue morte, di spade, corazze, elmi morti.
Luna fissava quel cimitero fluorescente e cinematografico disteso sotto i suoi piedi con il massimo possibile della inespressività, come se fosse ferma, sia pure per un attimo, in una condizione animale fuori del suo tempo. Mi staccai da lei sfinito, il tempo di guardarmi intorno, di cercare una via di scampo, mentre Luna, facendosi forza sulle braccia, si sedeva sulla balaustra, volgendo la schiena al vuoto. La vidi guardare sempre più in alto, seguii il suo sguardo cercando con lei qualcosa nel cielo cremisi» (U. Pirro, Freddo furore, Sugar, Milano, 1966, p. 23).

In un altro passaggio del romanzo, l’ingresso in un bar diventa il pretesto per una formidabile allucinazione, un’allucinazione che – per i suoi effetti involontariamente comici – non sarebbe passata inosservata all’impietoso sguardo di Nanni Moretti. E, in effetti, in Ecce bombo, quando l’emaciato e straordinario Fabio Traversa recita truculente poesie al gruppo di amici in attesa dell’alba (che ovviamente non arriverà) sulla spiaggia di Ostia, cita (pur non esplicitamente) proprio un brano del romanzo di Pirro:

«Entrammo in un bar. Il bancone su cui poggiava la vetrina dei sandwich e la macchina per gli espressi, somigliava alla cassa da morto di mia nonna e per un attimo la sentii sepolta nel ghiaccio in mezzo ai Campari soda» (U. Pirro, Freddo furore, cit., p. 13).


Naturalmente, non era casuale che Moretti infierisse sul romanzo di Pirro, perché, in effetti, Ecce bombo rappresentava un po’ una summa satirica del discorso sociologico, letterario e cinematografico sui ‘giovani’, oltre che sulle ossessioni e le mode di uno specifico mondo giovanile, che corrispondeva a quello della borghesia intellettuale capitolina. Nel film di Moretti – per molti versi irresistibile, anche se probabilmente proprio al successo di Ecce bombo dovrebbero essere attribuite alcune delle responsabilità del rapido decadimento della cinematografia italiana degli anni Ottanta – venivano infatti prese di mira le chiacchiere inconcludenti delle radio libere, la cialtroneria dei festival giovanili, la velleitaria ‘semplicità’ dei ristoranti macrobiotici, ma anche quella letteratura ‘giovanilistica’ di cui il romanzo di Pirro aveva rappresentato uno dei primi esempi. 


D’altro canto, in un'altra scena di Ecce bombo, proprio Moretti/Michele propone alla ragazza con cui tenta di imbastire una sorta di relazione sentimentale, e che è peraltro fidanzata con un amico del protagonista, di raccogliere il racconto di questo menage a trois, visto dalle tre diverse prospettive, e di sottoporlo a qualche piccolo editore. E, in questo senso, il riferimento piuttosto esplicito era alla casa editrice Savelli, uno dei pilastri del panorama editoriale dell’estrema sinistra degli anni Sessanta e Settanta, che aveva inaugurato da qualche tempo una fortunatissima collana, «Il pane e le rose», sensibile alla cultura giovanile (per esempio al fenomeno dei cantautori) e a tematiche lontane dalla tradizione ideologica del marxismo-leninismo. In questa collana, era apparso per esempio L’ultimo uomo. Quattro confessioni-riflessioni sulla crisi del ruolo maschile (Savelli, Roma, 1977), un libro curato da Marco Lombardo Radice, in cui erano raccolti gli interventi di quattro autori – nascosti da pseudonimi (Andrea, Guido, Marcello, Roberto) ed espressione di differenti categorie (l’«intellettuale»,  il «compagno di base», il «politico», il «giovanissimo») – sul rapporto con la sessualità, messo in discussione (forse persino in ‘crisi’) dalla critica femminista. 



Proprio nella collana «Il pane e le rose» era d’altronde stato pubblicato nel 1976 – come volume inaugurale – Porci con le ali, il romanzo, scritto dallo stesso Marco Lombardo Radice e da Lidia Ravera, che fu senza dubbio il caso letterario più singolare degli anni Settanta, oltre che un vero e proprio best seller, capace di resistere (più di ogni altro lavoro coevo) alle ingiurie del tempo e di essere così costantemente ristampato in nuove edizioni. È d’altro canto Porci con le ali – molto più di Boccalone – che, forse, può essere considerato come l’autentico momento di avvio di una letteratura ‘giovanilistica’ che, nei decenni seguenti, sarebbe esplosa, fino a costituire una sorta di ‘genere letterario’. Al di là degli esiti successivi e degli epigoni più triviali del ‘giovanilismo’, Porci con le ali ebbe il merito di riuscire a costruire un ‘romanzo di formazione’ in grado di restituire (o quantomeno di costruire credibilmente) la realtà della generazione cresciuta dopo il cataclisma del Sessantotto, dentro la retorica della ‘rivoluzione sessuale’, nel pieno di un decennio segnato da un esorbitante consumo di politica. Il romanzo fu stampato in un migliaio di copie dalla Savelli e venne pubblicato nell’estate del 1976. Ben presto, le copie diventarono molte di più (circa duecentomila in meno di un anno), e quello che doveva essere un libro destinato a un pubblico estremamente limitato divenne un – imprevisto e imprevedibile – successo editoriale (tanto che i redattori de «Il pane e le rose» dovettero prendere posizione sia per distanziarsi dalla scelta dell’editore di aumentare il prezzo di vendita del volume, sia per chiarire l’ammontare degli introiti: cfr. Per una discussione sul prezzo dei libri, in appendice a L’Ultimo uomo, cit., pp. 145-152.). 
Il caso letterario venne certo favorito dalla scelta degli autori di celarsi dietro i nomi dei due sedicenni protagonisti del romanzo, Rocco e Antonia, col risultato che Porci con le ali fu davvero percepito – almeno alla sua uscita – non come un romanzo, ma come un ‘documento’ sociologico, come un ‘diario’, come un ritratto in presa diretta di quel mondo dei giovanissimi che appariva sempre più lontano dagli occhi degli adulti. Un ritratto che – dato che Porci con le ali si concentrava non solo sulla tormentata storia d’amore fra i due protagonisti, ma soprattutto sulle loro avventure sessuali – doveva attirare l’attenzione dei lettori interessati più agli aspetti pruriginosi del romanzo, che ai suoi obiettivi politici e al suo profilo strettamente letterario. Anche per questo, il dibattito innescato dall’uscita del romanzo si concentrò, in larga parte, sulla credibilità del ‘documento’, sulla veridicità (più ancora che sulla verosimiglianza) del ritratto che emergeva dalle pagine di Lombardo Radice e Ravera. Così, alcuni misero in discussione soprattutto il fatto che quel libro fornisse davvero un quadro realistico della gioventù italiana, mentre altri sottolinearono come quel testo si limitasse a offrire lo spaccato di una piccolissima porzione del mondo giovanile, una porzione – in fondo del tutto coincidente con quella rappresentata dallo stesso Moretti in Io sono un autarchico ed Ecce bombo – circoscritta ai giovanissimi rampolli di una certa borghesia illuminata della capitale, ad alcuni quartieri e ad alcuni licei. Alberto Abruzzese scrisse, cogliendo proprio questo aspetto, che il romanzo non poteva essere «contrabbandato come espressione diretta della cultura giovanile», perché, piuttosto, si trattava di un testo che attingeva ai «‘graffiti’ automaticamente sovrappostitisi e intregratisi in forme ibride ed effimere sulle pareti dei cessi di scuole, fabbriche, ospedali, manicomi, carceri». Su questi graffiti, Lombardo Radice e Ravera avevano «‘lavorato di cucito’, non per niente a più mani, sul linguaggio parlato della generazione postsessantottesca e sugli standard ‘triviali’ della stampa di massa, con la capacità tecnica di tradurre in modo solleticante e disincantato il pulviscolo sociologico sopravvenuto alla ‘politica’ degli anni ’60 e ‘70». Dentro questo linguaggio, l’esasperazione del sesso aveva una funzione specifica, «in polemica con il calvinismo politico delle generazioni passate, l’inutilità delle ‘grandi’ utopie, la vuotezza arida delle pratiche ‘concettuali’, il moralismo dei quadri di movimento e i ‘buoni sentimenti’ della famiglia». E, sempre secondo il giudizio di Abruzzese, Porci con le ali apparteneva così alla «letteratura che viene dopo miti, certezze, sistemi e ragionamenti ma che, pur avendo la ‘presunzione’ di esserne fuori e di rivolgersi al futuro, ne continua ad usare i detriti, non se ne solleva, al massimo ne esaspera e protrae la fine» (A. Abruzzese, Antagonismo e subalternità della scrittura, in A. Asor Rosa, Letteratura italiana, Einaudi, Torino). 
Il linguaggio di Rocco e Antonio – così vicino, eppure così lontano dallo sperimentalismo giocoso, ma anche sofferto di Palandri – nasconde forse anche qualcosa di più, qualcosa in cui forse si può ritrovare la cifra più autentica del romanzo. Si tratta di un linguaggio ovviamente separato, distinto da quello degli adulti, dei loro genitori progressisti. È un linguaggio – ha scritto Ottavio Cecchi – che, «quando non è ostinato mutismo, è un confuso affastellarsi di gutturali cioè, chettecredi e chennesò». E, in effetti, «non è la lingua ricreata in laboratorio da Pier Paolo Pasolini per i suoi ragazzi di vita, non è il semiromanesco ufficiale della televisione e non è neppure un parlata borgatara adottata per far dispetto ai padri che hanno scoperto la Mitteleuropa; non è d’altronde l’artefatto bon ton della vecchia piccola borghesia colta, né la lingua dei nonni contadini che storpiava le parole a furia di metatesi: è una lingua, e un linguaggio, della timidezza e dello smarrimento». Perché «Rocco e Antonio inventano il loro linguaggio per dirci che il tempo del Progetto è finito» (O. Cecchi, Introduzione, in L. Lombardo Radice – L. Ravera, Porci con le ali, l’Unità, Roma, 1993, p. IX). E se la lettura di Cecchi è corretta, non è allora sorprendente che, già al momento dell’uscita del romanzo, qualcuno – come Luigi Manconi, che pure dei due autori fu sodale politico e amico, e che con Lombardo Radice scrisse più tardi anche un singolare, anticipatore romanzo come Lavoro ai fianchi (ripubblicato recentemente da Maestrale) – avesse attaccato Porci con le ali sul piano politico. In un vibrante articolo pubblicato a quattro mani con Marcello Sarno su «Ombre rosse» (rivista vicina non solo a «Lotta continua», ma anche alla stessa collana «Il pane e le rose»), Manconi definiva infatti il libro come «profondamente sbagliato», e ne demoliva l’impianto generale, la latente tendenza all’esaltazione di atteggiamenti individualistici, l’opinabile verosimiglianza sociologica. Ma soprattutto, Manconi e Sarno si indirizzavano verso le scelte stilistiche adottate dai due autori, scelte che aggravavano la sensazione di un libro scritto da adulti (consapevoli ed emancipati) che ‘fingevano’ di essere sedicenni (inconsapevoli e non emancipati). E, da questo punto di vista, vale davvero la pena soffermarsi sul rilievo della critica:

«È un linguaggio misto e composito che tenta di impastare il paradosso concettuale e l’esasperazione verbale, da un parte, e il distacco sociologico e l’ironia intellettuale, dall’altra. Il risultato è pressoché disastroso e, soprattutto, altamente improbabile; sembra intenzionalmente caricaturale e non lo è; è, più semplicemente, il frutto di un tentativo di mimetismo linguistico che ha preso la mano agli autori diventando genere. Ricorda le volgarizzazioni (alla Luca Goldoni) – fatte dieci anni fa – del linguaggio adolescenziale, quando si tentò di far credere che i giovani chiamassero i loro genitori matusa e in realtà non c’era uno, ma nemmeno uno a pagarlo a peso d’oro, che chiamasse davvero matusa i propri genitori (e ci fu persino uno sciagurato che su un fittizio gergo giovanile scrisse un dizionario). […] Il linguaggio immaginifico diventa parodia grossolana e la comicità di Paolo Villaggio sembra aver ispirato i dialoghi di un Rocco/Verzo piccolo-medio-borghese. La storia d’amore di Antonio e Rocco assume inevitabilmente e ancor più il taglio di una ‘storia rosa’, nel senso ‘Bolero film’ del termine, con un rinnovamento di superficie (nel lessico, nei costumi, negli atteggiamenti) analogo a quello che c’è stato appunto, nella superficie di ‘Bolero film’ (che ha anche mutato la sua precedente testata in quella di ‘Bolero Teletutto’» (L. Manconi – M. Sarno, Porci (?) con le ali (?), in «Ombre rosse», n. 17, 1976, p. 69).

Per quanto eccessivamente severe (ma la severità del giudizio era probabilmente favorita anche dallo strabiliante successo ‘commerciale’ del libro, che non poteva non mutarne il profilo), le critiche di Manconi e Sarno coglievano i limiti del romanzo di Lombardo Radice e Ravera. E, forse, presentivano già i rischi che Porci con le ali potesse favorire la nascita di quel genere di cui, anni dopo, Federico Moccia sarebbe divenuto il campione indiscusso. Ma, in realtà, quelle osservazioni nascevano anche dal fatto che, probabilmente, Manconi e Sarno erano ben consapevoli che Porci con le ali era destinato a imporsi per la storia e per i personaggi, lasciando del tutto in ombra quelle che erano le reali intenzioni degli autori. Per una sorta di alchimia irriproducibile, le cartelle scritte in una quindicina di giorni da Lombardo Radice e Ravera – sulla base di un brogliaccio ridotto a uno schema di poche righe (l’ha ricordato proprio Ravera) – erano infatti destinate a mostrare subito quella leggerezza, quella spontaneità che quasi mai contrassegna i prodotti effettivamente ‘letterari’. Fatalmente, proprio quella leggerezza e quella spontaneità – che il pubblico avrebbe riconosciuto subito, e che fanno sì che ancora oggi il libro venga ristampato, letto e amato – dovevano ‘soverchiare’ i due autori e i loro intenti. Come ha scritto Lidia Raveva, ricordando la genesi del libro: 

«doveva essere un pamphlet, un libello a circolazione interna, come gli atti di un convegno, come un gran volantino. È stato stampato in mille copie, mille copie dovevano essere distribuite a mille particolari interlocutori. Non c’entrava l’idea di ‘pubblicare’. C’entrava la politica, quella magnifica menzogna, graziosa come le illusioni e pratica come i trucchi per abbordare il genere umano, c’entrava quella gigantesca balera postsessantottarda in cui tutto sembrava possibile, improbabile, e comunque doveroso. C’entrava un imperativo categorico: ‘Cambiamo la vita prima che la vita cambi noi’. Non volevi che la vita cambiasse te, che avevi appena vent’anni. Né loro. Gli altri. I più piccoli, i tuoi sodali minori: forte della tua paura di essere costretta a diventare adulta, ti rivolgevi ai sedicenni, in bilico fra un leninismo da mestrina e una fiducia da missionario in cerca di tribù da salvare. Volevi insegnare alle ragazze, credevi di potere, a fare l’amore, a non farsi schiave dello stereotipo di libertà sessuale come le loro mamme erano state schiave di quello della verginità, volevi che tutti, ragazzi e ragazze, imparassero a non vergognarsi né delle pulsioni autoerotiche né di quelle omosessuali, ma soprattutto volevi che tutti, ragazzi e ragazze, continuassero a sognare d’essere i migliori, quelli che avrebbero cambiato, se non la politica grande dei rapporti di forza fra le classi, almeno quella piccola della vita individuale, affettiva, dei rapporti fra le persone» (L. Ravera, Prefazione, a Rocco e Antonia, Porci con le ali, Corriere della Sera, Milano, 2003, p. 17).

A ben vedere, l’intento principale di Porci con le ali era ‘politico’, nel senso che puntava a svolgere una sorta di azione ‘pedagogica’, capace di incidere sulle nuove generazioni. In questo senso, allora, il vero modello del romanzo non era affatto Il giovane Holden, il paradigma della letteratura giovanilistica, oltre che il libro che senza dubbio ne ha definito i canoni (anche sotto il profilo stilistico). Il vero modello – ovviamente implicito, e forse persino inconsapevole – cui guardavano Lombardo Radice e Ravera era il tanto vituperato Cuore, perché, come Edmondo De Amicis, anche gli autori di Porci con le ali si proponevano di scrivere – ben più che un romanzo di successo – un romanzo capace di ‘insegnare’ qualcosa. «Lombardo Radice», ha scritto in questo senso Manconi, ricordando l’amico scomparso alla fine degli anni Ottanta, «credeva nella ‘funzione pedagogica’ di un messaggio – quel libro, appunto – che sdrammatizzasse il sesso, ne rivelasse il possibile ruolo emancipatorio e il possibile contenuto trasgressivo: ne segnalasse, in particolare, il significato di esperienza e di conoscenza che poteva assumere nella vita di un adolescente. E di un adolescente della metà degli anni Settanta. Ma quella ‘funzione pedagogica’, perché fosse efficace, doveva negarsi in quanto tale; doveva, dunque, rifiutare la stessa figura di autorità di chi lanciava il messaggio: doveva dissimulare il pedagogo e occultare l’adulto» (L. Manconi, Il desiderio e il sacrifico, in M. Lombardo Radice – L. Ravera, Porci con le ali, l’Unità, 1993, pp. 176-177). Come nel caso di Cuore, anche in Porci con le ali, la forma, la leggerezza del testo e i personaggi dovevano assumere una tale forza da separarsi per sempre dai loro autori e dalle loro finalità pedagogiche. Tanto che, effettivamente, come il narratore Enrico di Cuore – ma anche come Garrone, Derossi, Coretti, Nelli, Votini (i quali acquistano una fisionomia distinta rispetto all’autore De Amicis) –, così anche Rocco e Antonia si distaccano da Lombardo Radice e Ravera, per diventare – con il loro successo – forse anche un peso insostenibile per i loro creatori. Se Cuore viene ricordato non per la celebrazione delle istanze egualitarie della scuola unitaria, ma per il ricorso a un facile sentimentalismo, per l’implicita esaltazione dell’autoritarismo di istituzioni scolastiche che condannano l’«infame» Franti, per il patriottismo stucchevole, anche Porci con le ali viene oggi ricordato – e verrà letto domani – non per gli (ingenui, forse persino commoventi) intenti pedagogici di una generazione di rivoluzionari ventenni, che sperava di costruire una nuova umanità partendo dalla vita quotidiana e dalla ‘rivoluzione’ dei rapporti personali, ma solo per quella giocosa (e un po’ forzata) esibizione di una sessualità libertina. 
L’istanza ‘pedagogica’, centrale in Porci con le ali, non si limitava soltanto a conferire al racconto – soprattutto se osservato con uno sguardo attento – un certo carattere ‘fittizio’, ma di fatto riproduceva anche una distinzione fra autore e lettore. Dal momento che Lombardo Radice e Ravera assumevano, più o meno esplicitamente e consapevolmente, la funzione di ‘maestri’ – che dovevano condurre, indirizzare, guidare, la formazione delle nuove generazioni – essi finivano solo col travestire, con l’occultare, quella funzione ‘politica’ di guida delle masse, che pure intendevano abbandonare, in nome di una critica integrale della separazione tra ‘Politica’ e ‘vita quotidiana’, fra il regno dell’ideologia e la realtà dei rapporti umani. Ma l’esito di questa operazione – forzando un po’ questa lettura – non investiva semplicemente i presupposti politici del romanzo. Quella distinzione fra ‘politica’ e ‘vita quotidiana’ – fra l’esigenza di sintesi della politica e la peculiarità analitica del linguaggio letterario, fra il ‘noi’ della dimensione collettiva e l’‘io’ della dimensione privata – non poteva che riemergere prepotentemente nel momento stesso in cui la tensione ideologica, l’appartenenza di gruppo, la retorica del conflitto si dovevano allentare. E proprio in questo – rileggendo oggi i due testi – stava probabilmente la distanza principale fra Boccalone  e Porci con le ali.
Nella scelta stilistica adottata da Palandri – una scelta solo all’apparenza simile a quella di Lombardo Radice e Ravera – c’era, infatti, un rifiuto della letteratura del tutto ‘letterario’, ossia un rifiuto del ruolo e delle regole del lavoro letterario che si inscriveva pienamente all’interno della coordinate dell’avanguardia novecentesca, se non addirittura, a ben vedere, anche in un certo ‘romanticismo’ che non è difficile intravedere nelle pagine di Boccalone. E, d’altro canto, lo stesso Palandri ha confessato – a trent’anni di distanza – come proprio questo aspetto lo allontanasse dal contesto intellettuale della Bologna del periodo: «Al Dams ero allievo di Gianni Celati, di Umberto Eco, di Alfredo Giuliani, sostenitori di una narrativa connotata da un piglio spontaneo e naïve. Rifuggivano anche da ogni romanticismo mentre io, anche se avevo solo 22 anni, mi sentivo sollecitato dalla frase di Leopardi ‘solo l’amore e la morte sono degne dell’essere umano’ e volevo confrontarmi con le più profonde vicende esistenziali» («Boccalone studente ribelle ieri come oggi, in «TuttoLibri – La Stampa», 8 gennaio 2011, p. XI). In questo senso, l’epigrafe anteposta alla prima edizione – «A quelli che capiranno che questo non è un romanzo e che io non sono uno scrittore, che di stronzi è già pieno il mondo» - era, più che una cautela da esordiente, la conseguenza di un modo di intendere e percepire il rapporto tra vita e letteratura fissato persino nella scelta stilistica. Non era così sorprendente che nel risvolto di copertina della prima edizione si leggesse: «Dopo questo libro non si potrà più dire che i giovani non sanno scrivere». Perché, in effetti, la gran parte delle energie di Palandri si indirizzava proprio verso quello stile capace di restituire l’immediatezza, la fluidità, la destrutturazione temporale di una condizione emotiva in cui ‘individuale’ e ‘collettivo’ (ben al di là della retorica sul carattere ‘politico’ del ‘privato’) risultavano effettivamente ‘fusi’ insieme, stretti inestricabilmente l’uno all’altro. Tanto che la scrittura pareva persino ‘scomparire’, dissolversi, assorbita dalla registrazione delle forme di comunicazione orale di una tribù in costante movimento, come segnalava d’altronde lo stesso «boccalone» al centro del romanzo: 

Non ho uno stile nello scrivere, e neppure nel parlare; parlo un po’ come maurizio, un po’ come gianni, un po’ come gigi eccetera eccetera, cioè chissà come quanti altri; così ho anche voglia di leggere e di ascoltare come tanti altri; così anche se non era finito (ma lo sarà mai) ho fatto leggere queste pagine a maurizio, gianni, clorinda, ad anna (ache lo ha trovato noiosissimo a pagina cinque e non ha più letto nulla); anna se lo è preso con la forza e di nascosto, come suo solito; e ancora tantissimi altri lo hanno letto e ne hanno parlato con me; siccome non sono mai sicuro di quello che dico e le cose individuali fanno tutte schifo, e anche le personale individuali mi fanno tutte schifo, le cose che gli amici mi hanno detto, sul libro, o che col libro non c’entravano nulla, sono tutte entrate nel racconto, lo hanno tutto bucato di cose che succedevano nel frattempo, nel mentre che lo scrivevo; allora do un consiglio sul modo di leggerlo, anche se alla fine non ve ne fate nulla; allora è un consiglio sul modo di pensarlo, di volergli bene come a questo oggetto; lui (il libro) è un brusio leggero, un racconto che non riguarda nessuno, e allo stesso tempo parla di tutti, così come sono le mie giornate, piene di confusione e di persone; non sono e non voglio essere precisamente enrico palandri, ma qualcosa di simile; credo che questo sia un oggetto collettivo; il collettivo non appartiene più al progetto, fa parte dei miei sogni, del mio modo di passare il tempo, di vivere la vita, di stare nella merda, come di cercare di uscirne; ed è sussurrato, non declamato; in molti punti vorrei essere interrotto, costretto a cambiare registro: qui è troppo romantico, qui non è credibile, qui è falso; è questa la vera sfiga di scrivere soli, che si lascia andare una voce sola (E. Palandri, Boccalone, cit., pp.175-176).

E, allora, non era neppure così singolare – benché potesse apparire in clamoroso e totale contrasto con lo spirito dell’epigrafe (eliminata peraltro nelle edizioni successive) – che Palandri confessasse a Tondelli, già nel 1979: «Scrivere. È la cosa più importante che ho, perché non solo riempie certi scarti della vita, ma soprattutto perché scrivere mi serve per studiare il mio linguaggio, per essere finalmente padrone delle parole, usarle, combinarle». D’altronde, Tondelli ritrovava proprio in questa – quasi sconcertante – fiducia nella letteratura il merito principale di Palandri, il merito per cui il giovane scrittore poteva essere considerato effettivamente come l’autore che aveva aperto la strada a una nuova generazione: «Enrico Palandri», scriveva Tondelli, «ha dimostrato, con semplicità, con urgenza quasi, che è ancora possibile per un giovane risolvere la frattura tra quotidiano e fantastico, ricercare con le parole una propria identità; soprattutto è possibile affidare alla letteratura, al libro, la comunicazione di una propria esperienza e di un proprio linguaggio reali» (Enrico Palandri, cit., pp. 214-215).
Il distacco di Palandri dal proprio alter ego «boccalone» sarebbe stato duro, lacerante, drammatico, e avrebbe inevitabilmente comportato una netta rottura sia con il mondo della Bologna alternativa e irridente del Settantasette (che d’altronde era destinata a scomparire rapidamente), sia con quello stile che pure aveva segnato in modo così inconfondibile il suo esordio. I romanzi successivi di Palandri dovevano nascere d’altronde, e forse non casualmente, da una sorta di ‘esilio’ volontario dall’Italia, e dovevano risultare estremamente lontani da Boccalone, anche perché quella fusione fra io e noi, fissata nel linguaggio di Palandri non avrebbe avuto più ragione di esistere, se non per il semplice gusto del revival. È probabilmente questo il motivo per cui Boccalone oggi rimane muto, non parla più al lettore del 2011, o comunque non riesce più a comunicare, come faceva trent’anni fa, un irripetibile stato emotivo. E, invece, sta proprio nella differenza che distanza Porci con le ali da Boccalone la spiegazione del perché il romanzo di Rocco e Antonia – di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera – continui a parlare, e continuerà a parlare a lungo, a tutti i suoi nuovi, giovani lettori. 
Forse, avevano in fondo ragione Manconi e Sarno quando scrivevano che, a ben vedere, Rocco e Antonio – a dispetto degli obiettivi degli autori del romanzo, a dispetto della loro buona fede ‘politica’ – non apparivano per nulla diversi dai loro coetanei di dieci, venti anni prima e, forse, anche di venti o trenta anni dopo:

 Che cosa, in sostanza e concretamente, rende l’atteggiamento di Rocco e Antonia nuovo e qualitativamente diverso dall’atteggiamento di analoghi giovani del passato? Che cosa divide (e contrappone) il tradizionale egoismo qualunquista […] dalla riduzione che la parola d’ordine ‘il personale è politico’ assume nel comportamento di Rocco e Antonia? Dov’è la storia (che oggi, come non mai, è storia anche di giovani)? Rocco e Antonia scopano più di quanto non faccia il Federico Moreau di Flaubert, estenuato nella contemplazione della sua signora Arnoux, ma se questo è forse progressivo, non è detto che sia sovversivo (L. Manconi – M. Sarno, Porci (?) con le ali (?), cit., p. 72).

Quello che per Manconi e per Sarno era un limite – e lo era effettivamente, rispetto alle intenzioni degli autori del romanzo – era invece, probabilmente, la forza principale di Porci con le ali, quella forza che avrebbe consentito a un piccolo libro, un libro scritto quasi per scherzo e senza ambizioni letterarie da due ragazzi all’interno di un clima segnato in modo quasi ossessivo dalla onnipresenza della politica, sopravvivesse miracolosamente al rapido tramonto di quel mondo e delle illusioni degli anni Settanta. In questo senso Giuliano Zincone coglie allora un punto reale, quando scrive che Rocco e Antonia rappresentano «un’avanguardia postpolitica e postmoderna», perché «se ne fregano della lotta di classe e dei destini dell’umanità» (G. Zincone, Un’intuizione postmoderna e profetica, in Rocco e Antonia, Porci con le ali, Corriere della Sera, Milano, 2003, p. 8). Laddove in Boccalone individuale e collettivo si fondevano, in Porci con le ali queste due dimensioni tornavano a divaricarsi irrimediabilmente, lasciando i due protagonisti soli, pur dentro una coreografia di bandiere e di slogan. 
A ben guardare, per quanto Boccalone e Porci con le ali tentino entrambi di restituire – anche linguisticamente e stilisticamente – la dimensione di ‘separatezza’ dei giovani rispetto all’universo degli ‘adulti’, e benché in entrambi i romanzi i protagonisti paiano muoversi dentro un tempo ‘sospeso’, in cui le uniche scansioni sono offerte dalle percezioni emotive, in realtà la temporalità cui essi alludono è radicalmente differente. In Boccalone, la sospensione del tempo è quella che scaturisce dalla costruzione di un mondo ‘separato’, di una vita che – in fondo – si esaurisce e si realizza nel qui e ora, al di fuori delle sequenze temporali della scuola, della fabbrica, della caserma e, in generale, dell’ordine sociale. Se si vuole, è il tempo ‘sospeso’ della rivolta esistenziale, il tempo ‘dilatato’ di una sorta di bohéme postmoderna, il tempo del sartriano ‘gruppo in fusione’. Al contrario, il tempo di Porci con le ali è solo il tempo sospeso dell’adolescenza, il tempo segnato da una fremente attesa di qualcosa che (forse) avverrà, di un futuro che attende, di una maturità che prima o poi giungerà, con tutti i suoi obblighi e problemi, ma di cui ci si può – almeno per ora – disinteressare, ripiegando verso una sorta di oblio temporaneo. 
Forse, in questo modo, più di Boccalone, il romanzo di Rocco e Antonia percepiva – magari non del tutto consapevolmente – qualcosa che stava avvenendo dentro la struttura soggettiva delle nuove generazioni. Qualcosa che, pur all’interno di una galassia segnata dalla politica, dall’ideologia, dall’immaginario della rivoluzione, preludeva a una fatale divaricazione dalla ‘Storia’ e dalla ‘Politica’. Ciò che forse presentivano gli autori di Porci con le ali – o che si rifiutavano ancora di ammettere pienamente – era il coagularsi, dentro l’esperienza dei giovanissimi degli anni Settanta, di quell’immaginario ‘postpolitico’ che solo pochi anni dopo si sarebbe dispiegato nella sua portata. Un immaginario per il quale non è semplicemente la ‘rivoluzione’ a essere impossibile, ma all’interno del quale – senza più connessione con il divenire della Storia, con le sue trasformazioni, con le sue rotture più o meno radicali – il fluire stesso della vita quotidiana si dilata, si estende irrefrenabilmente in un eterno, immutabile presente, scandito solo dal vorace, insaziabile metabolismo del consumo. 
I protagonisti di quel piccolo romanzo – e forse qui sta il vero motivo del suo duraturo successo – venivano così a prefigurare la condizione emotiva in cui tutti noi ci troviamo a vivere. Una condizione emotiva che dilata all’infinito i tempi dell’‘educazione sentimentale’, che viene a calibrare la qualità della vita sui ritmi animali della sessualità, che ci trasforma costantemente – giovani e vecchi, ricchi e poveri – in eterni, insaziabili adolescenti, che ci costringe in una condizione di ‘minorità’ invalicabile e di precarietà esistenziale. Una condizione emotiva che ci priva di ogni ‘Storia’ che non sia la semplice conservazione di un presente identificato con un livello accettabile di consumo. Ma che finisce anche per assolverci da ogni colpa e da ogni responsabilità. E, soprattutto, dalla nostra rassegnazione. 

Damiano Palano














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