di Damiano Palano
2. Vite indegne di essere vissute
In modo piuttosto evidente, il ragionamento svolto da Sartori negli anni Cinquanta sui «minorati» sembra presentare sinistre analogie con la riflessione sul concetto di lebensunwerte Leben, la «vita indegna di essere vissuta», che ispirava l’eugenetica nazionalsocialista. Ciò non significa, naturalmente, che la filosofia di Sartori sviluppi ambiguamente – sotto le vesti di una apparente liberalità – il disegno nazionalsocialista di un’igiene razziale, ma significa semplicemente che condivide con essa alcuni presupposti, che sono d’altro canto un esito, probabilmente il più inquietante, delle trasformazioni nelle tecniche del potere. In generale, però, ciò che appare più sorprendente è che la riflessione di Sartori appaia in una posizione ambigua, quasi ‘in bilico’, fra passato e presente. Per un verso, infatti, Sartori coglie perfettamente le potenzialità offerte dalla nuove tecniche, capaci per esempio di limitare le nascite o di progettare lo sviluppo demografico, come, d’altronde, si mostra piuttosto inquieto sugli effetti deleteri che la predominanza del linguaggio visivo potrebbe innescare sia sotto il profilo politico, sia sotto il profilo sociale, con il fatale passaggio da homo sapiens a homo videns. Per l’altro verso, invece, Sartori sembra adottare la medesima distinzione fra bios e zoé che contrassegna il pensiero greco, nel senso che pare far propria – senza alcuna cautela – la convinzione che esista una vita puramente animale, ben distinta dalla vita ‘qualificata’ umana. Soprattutto, sembra pensare che i confini fra queste due dimensioni – fra la vita animale e vita qualificata, fra zoé e bios – siano confini ‘naturali’, ossia confini immutabili. E che, dunque, il potere si debba limitare a prendere atto di tali distinzioni.
In realtà, uno dei dibattiti più interessanti di questi ultimi anni – un dibattito cruciale, che rompe realmente con la modernità e con tutte le visioni ‘progressiste’ della storia – mette in questione proprio il carattere ‘naturale’ di quel confine e si interroga sul rapporto problematico, insidioso, inquietante, fra potere e vita. Molte delle intuizioni che stanno al centro di questa discussione sono suggerite dalle vecchie ricerche foucaultiane intorno alla «biopolitica» e al «biopotere», avviate nei volumi della Storia della sessualità, ma venute pienamente alla luce solo grazie alla pubblicazione dei corsi tenuti dall’intellettuale francese al Collège de France tra gli anni Settanta e Ottanta. In modo ancora più significativo, però, la soglia biopolitica e le sue tante incognite hanno incominciato a essere sottoposte al vaglio della riflessione teorica per merito del saggio di Giorgio Agamben. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (Einaudi, Torino, 1995), il primo capitolo di un’indagine ancora in corso, oltre che, probabilmente il testo più importante – o, quantomeno, uno dei due o tre libri più importanti – degli ultimi trent’anni, sia per le ipotesi che ha proposto, sia per le sollecitazioni che ha fornito alla discussione e alle scienze sociali. Pubblicato a metà degli anni Novanta, quel libro – benché possa forse apparire oggi singolare – puntava principalmente a riflettere sul «nuovo ordine mondiale», nato dalla fine della Guerra fredda, sulla nuova dottrina della «guerra umanitaria» e sulla condizione dei migranti. Ma – connettendo la riflessione di Foucault con l’analisi del totalitarismo di Hannah Arendt e con le ipotesi schmittiane sul ‘politico’ e sullo ‘stato di eccezione’ – proponeva anche una nuova, sorprendente interpretazione del concetto occidentale di politica. Da quel momento, la ‘biopolitica’ è entrata a pieno diritto nel dibattito teorico, alimentando riflessioni e riletture che, in gran parte, hanno messo in questione alcuni elementi cruciali della visione moderna, grazie, per esempio, ai contributi di Roberto Esposito e anche agli interventi (di segno differente) di Donna Haraway, Michael Hardt e Antonio Negri, Peter Sloterdijk.
Un’ottima introduzione a questo dibattito è offerta da Laura Bazzicalupo nel volume Biopolitica. Una mappa concettuale (Carocci, Roma, 2010), in cui vengono esposte in modo sintetico le coordinate principali della discussione, insieme al contributo dei principali autori intervenuti. Nel suo testo, Bazzicalupo ricostruisce innanzitutto la genesi del termine, le cui radici più profonde risalgono alla cultura positivista di fine Ottocento e all’organicismo agli inizi del Novecento (per esempio alla teoria di Rudolf Kjellen, che, oltre a essere tra i primi a formulare l’idea di una «geopolitica», utilizza anche la nozione di «biopolitica»), e il cui sentiero si incrocia però – verso gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – anche con una serie di riflessioni che progettano un ‘miglioramento’ della vita a partire dal rispetto delle norme biologiche. All’interno di quest’ultimo insieme di indagini, il cui momento di avvio può forse essere ritrovato in un testo dello studioso inglese Robert Morley, pubblicato alla fine degli anni Trenta (dal titolo significativo Biopolitics. An Essay on the Physiology, Pathology and Politics of Social and Somatic Organism), la scienza biologica viene considerata come uno strumento in grado di offrire strumenti utili al governo della società, alla prevenzione del disordine, al mantenimento dell’ordine. E, così, si tratta di una riflessione che non può non incrociarsi con quelle ipotesi – sostenute per esempio, nel contesto nord-americano, da studiosi come Albert Somit, David Easton, John C. Wahlke – che puntano a rinvenire proprio negli studi biologici uno strumento per l’estensione della ricerca politologica, oltre che un supporto per una più efficace di governo. In realtà, come nota Bazzicalupo, «in questi studi non viene usato in genere il termine ‘biopolitica’», ma, comunque, la ricerca sociobiologica di matrice anglosassone fa affiorare un tratto importante, perché la prospettiva che adotta «è quella della naturalizzazione dell’umano stando al ruolo che gli indicatori fisiologici e biologici giocano nel comportamento sociale, nel suo trattamento, nella valutazione e potenziamento delle attitudini politiche» (ibi, p. 29). Ma – e ciò è forse ancor più significativo – questo filone di ricerca, che vive il momento di maggior fortuna fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ma che viene ulteriormente sviluppato nel quadro dell’indagine neo-darwinista, «manifesta una significativa efficacia persuasiva in un quadro di senso comune, nel quale la tecno-scienza offre una indiscussa veridizione e supporta un immaginario collettivo impegnato in un incessante incremento della vita e del benessere» (ibidem). E sono così per molti versi scontate, e inevitabili, le riserve che un simile progetto – al di là delle sfumature che assume nelle diverse prospettive – è destinato a sollevare, nel momento in cui punta ad offrire al potere di governo nuovi strumenti di controllo e manipolazione, che non possono non richiamare alla mente le politiche eugenetiche adottate nella prima metà del Novecento non solo dal regime nazionalsocialista tedesco, ma anche dagli Stati Uniti (in chiave di selezione della popolazione immigrata, fra il 1910 e il 1930). Di segno nettamente opposto è invece un altro ambito di riflessioni che, più o meno contemporaneamente alla definizione della «sociobiologia» anglosassone, prende corpo soprattutto in Francia, e che influenza la genesi del contemporaneo dibattito sulla biopolitica. In questo caso, infatti, la prospettiva non è tecnocratica ma «umanistica», nel senso che gli obiettivi non solo quelli di offrire conoscenza in grado di rafforzare la capacità di ‘governare la vita’, bensì quelli di riconciliare uno sviluppo materiale distruttivo con la dimensione ‘spirituale’ della vita. E così, per esempio, Edgar Morin può riferirsi alla biopolitica per indicare una politica che si occupi della vita tenendo conto della complessità del vivente, e che ritrovi il suo rapporto con la natura umana.
Per quanto questi contributi siano importanti, nella misura stessa in cui segnalano quanto e come il rapporto tra vita e politica divenga un oggetto di studio e di riflessione di discipline così diverse, è però scontato che essi attengono alla ‘preistoria’, più che alla ‘storia’, del dibattito sulla biopolitica. In effetti, la ‘reinvenzione’ del concetto e la stessa rimodulazione complessiva del dibattito sulla biopolitica trovano il punto di avvio nella riflessione di Foucault. Lo studioso francese, a partire dalla Volontà di sapere e dai suoi corsi al Collège de France, non si limita infatti a mutare il segno di un’indagine ottimistica, che si propone di riconciliare vita e politica, ma di fatto – come chiarisce puntualmente Bazzicalupo – modifica il quadro concettuale entro cui collocare la biopolitica:
«più radicalmente Foucault inventa da capo il termine e lo problematizza, individuandovi una modalità di relazione di potere che l’autorappresentazione del moderno – giuridica e politica – aveva oscurato, modalità nella quale l’oggetto «vita» non è una semplice estensione o variazione della presa in carico del potere, ma condiziona ed è condizionato dal sapere finalizzato a governarla. La vita stessa – dunque l’immanenza, la fatticità del vivere – è il criterio e il fine in base ai quali si esercita il potere; il che implica che la vita sia oggetto di un giudizio politico di valore tanto per selezionarla che per migliorarla. Con questa svolta concettuale che apre allo sguardo analitico una dimensione opaca e persistente delle relazioni di potere, Foucault offre alla riflessione filosofica, sociale e politica uno strumento concettuale che si rivela particolarmente illuminante per interpretare le nuove forme di vita e di potere» (ibi, p. 33).
Nella sua ricostruzione, Bazzicalupo trova naturalmente delle anticipazioni della riflessione sulla biopolitica anche in Nascita della clinica e in Sorvegliare e punire, ossia nei lavori in cui Foucault ancora non utilizza esplicitamente il termine. Ma, ovviamente, i cardini della nuova prospettiva non possono che essere rintracciati nell’ultimo capitolo della Volontà di sapere, nelle pagine in cui lo studioso francese esplicita l’idea di una transizione nella forma del potere sovrano: una transizione – collocata più o meno tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento – per cui, accanto al tradizionale potere «prelievo», si accostano nuove «funzioni di incitazione, di rafforzamento, di controllo, di sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle forze che sottomette», e nel corso della quale dunque prende forma «un potere destinato a produrre delle forze, a farle crescere e ad ordinarle, piuttosto che a bloccarle, a piegarle, a distruggerle» (M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 120). Sono però i corsi tenuti al Collège de France nel 1975-76, nel 1977-78 e nel 1978-79, e pubblicati in realtà più di due decenni dopo (cfr. M. Foucault, «Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano, 1997; Id., Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano, 2005; e Id., Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2005), a innescare una ripresa di quelle ipotesi che nella Volontà di sapere erano solo accennate. In particolare, in «Bisogna difendere la società», esaminando la genesi del razzismo moderno, Foucault veniva a esplicitare un aspetto su cui molti teorici successivi si sarebbero concentrati, e che consisteva nell’idea secondo cui, in seguito alla transizione verso la biopolitica, la politica si assume il compito di definire la natura stessa dell’essere umano, di stabilire effettivamente la soglia fra umano e inumano (o parzialmente umano), fra la vita ‘degna’ o ‘indegna’ di essere vissuta. E proprio da questa intuizione, Agamben e altri avrebbero preso le mosse negli anni Novanta per svolgere le loro ipotesi.
Pur trovando in Foucault il momento di cesura in cui si avvia il dibattito contemporaneo, Bazzicalupo non può evitare di segnalare come, all’interno del quadro delineato dall’autore di Sorvegliare e punire, rimangano, oltre a un carattere fortemente sistematico, un’ambivalenza relativa al modo di intendere la biopolitica e le sue potenzialità. Nel contributo foucaultiano, osserva infatti Bazzicalupo, «si può leggere […] sia la capacità del potere di stimolare e ricomprendere in sé stesso una resistenza che ne rafforza la logica, sia la vitalità naturalistica, un’energia precedente al biopotere che, riattivata all’interno del codice di governo, sfugge alla colonizzazione» (L. Bazzicalupo, Biopolitica, cit., p. 64). Certo – precisa Bazzicalupo – «Foucault sostiene l’inefficacia teorica del dualismo biopotere-biopolitica», dal momento che, ai suoi occhi, «la potenza è coestensiva al potere, non è l’altro selvaggio, forse non è neanche il residuo di naturalità, l’eccedenza: è intrinseca al potere e collusiva al dispositivo che la governa attraverso il processo di soggettivazione» (ibi, p. 64). Ma, d’altra parte, anche nelle pagine dello studioso francese si può trovare quell’ambivalenza fra un «biopotere», esercitato sulla vita, e una «biopolitica», affermativa e potenzialmente capace di opporre una resistenza, che contrassegna la discussione contemporanea. Ed è in effetti questa stessa ambivalenza che emerge in seguito, e distingue prospettive come quella di Agamben, che enfatizza la vocazione costitutivamente tanatopolitica della biopolitica, da quella di Hardt e Negri, che invece assegna alla biopolitica della moltitudine il compito di opporsi ai meccanismi del «biopotere». Per un verso, infatti, «in Agamben, il biopotere ricalca l’unicità della monologica della sovranità: non c’è potere alcuno dei soggetti dominati e il potere si definisce in una linearità unidirezionale, perdendo la complessità relazionale e generativa che era implicita nella sua produttività»; e, così, «la storia diventa un continuum negativo e confermativo di quel nucleo di senso, laddove la genealogia foucaultiana era discontinua e ‘positiva’» (ibi, pp. 88-89). Dall’altro, l’idea, avanzata da Hardt e Negri, di «utilizzare la biopolitica contro il biopotere», e di «mobilitare la potenza della moltitudine contro il biopotere imperiale che l’ha fatta crescere solo per utilizzarla», sembra concepire la biopolitica nei termini di una forza «simile alla libido che negli scritti freudo-marxiani, cari alla lotta sessantottina, doveva essere liberata e liberare» (ibi, p. 93).
Al di là della valutazione di ciascuno dei singoli contributi al dibattito, e al di là anche delle differenze talvolta marcate che divaricano le prospettive dei numerosi teorici che si sono accostati al nodo della biopolitica, ci sono comunque una serie di elementi di portata generale, che Bazzicalupo mette opportunamente in luce. Il primo è il successo stessa della formula «biopolitica», una fortuna cui certo si è accompagnata la dilatazione del suo significato, ma che, nondimeno, segnala un fenomeno significativo. «Il fatto che il termine si sia diffuso, per esempio nel linguaggio giornalistico o nei commenti degli opinionisti nei talkshow televisivi», nota Bazzicalupo, «implica indubbiamente non solo una sua crescente vaghezza (ma questa è propria di qualunque tropo retorico), un crescente discostarsi dal suo significato originario, utilizzato dagli specialisti del pensiero politico, ma anche una sua particolare mobilità semantica, una instabilità che è prova della vitalità del termine e dell’esigenza che si avvertiva di trovare un nome/concetto che permettesse la messa a fuoco di comportamenti e di relazioni che il lessico tradizionale non riusciva più ad afferrare e orientasse una serie di fenomeni nuovi» (ibi, p. 13). Fenomeni apparentemente molto lontani – che vanno dalla gestione delle emergenze umanitarie al dibattito sulla regolamentazione giuridica della «fine della vita», dal trattamento dei migranti alla cura del corpo – sono infatti accomunati, come osserva Bazzicalupo, da un elemento di fondo:
«sono fenomeni politici nei quali ne va direttamente della vita biologica degli uomini, dell’uomo in quanto essere vivente. Si tratta di fenomeni assai diversi: alcuni nel cono d’ombra della morte e della violenza, altri sembrano rimandare alla sollecitudine accattivante della terapia e del culto della vita. Eppure questi fenomeni hanno in comune la curvatura della politica in direzione della vita biologica: come se la politica avesse preso in carico la gestione della vita biologica inserendola in un programma di protezione e di incremento che sconfina nella produzione dell’umano e nella domesticazione dell’essere, […] selezionando e rigettando l’in-umano e nel sub-umano quelle vite patogene che la minacciano o che semplicemente sono inadeguate» (ibi, p. 20).
In altre parole, la necessità di un nuovo termine – biopolitica – e la sua adozione per indicare processi molto diversi sono il riflesso della necessità di cogliere qualcosa di nuovo, qualcosa che sfugge completamente alle nozioni classiche della vita e, soprattutto, che sfugge del tutto alle più classiche categorie politiche, come per esempio le coppie ‘pubblico’/’privato’ e ‘collettivo’/’individuale’. A dispetto della polisemia che il termine ha assunto, dunque, la biopolitica riflette, forse persino ambiguamente, una trasformazione in cui la politica stessa non può che mutare le proprie caratteristiche:
«l’aver preso ad oggetto, immediatamente, la vita ha modificato – e significativamente – quella pratica cui tradizionalmente attribuiamo il nome di ‘politica’. Si modificano la forma, il linguaggio e la logica del suo esercizio; si svuotano le strutture giuridiche e politico-istituzionali proprie della modernità; si fa appello diretto al consenso popolare; la costituzione materiale appare più significativa di quella astratta e giuridica; le motivazioni delle sentenze giurisprudenziali si rivolgono direttamente al senso comune etico, alla sensibilità estetica, all’ethos condiviso; l’esercizio del potere – politico in senso lato – si disloca dai luoghi canonici al sociale, all’economico, al religioso, all’associazionismo privato, in quell’intreccio di fonti normative che si usa chiamare governance» (ibi, p. 22).
Nonostante tutte le ambiguità del dibattito, e le ambivalenti interpretazioni proposte negli ultimi due decenni, la discussione intorno alla biopolitica coglie dunque la portata di processo in cui la vita diventa il principio attorno al quale la politica cerca la propria legittimazione. Un processo, dunque, in cui «scelte e decisioni politiche vengono sempre più di rado giustificate nel quadro del diritto, ma attraverso appelli diretti al sentire pubblico che viene posto di fronte ad alternative appassionate, che coinvolgono la vita o la morte, il benessere o la povertà» (ibi, p. 23). E in cui la vita finisce col diventare un irresistibile polo di attrazione tanto per istanze di riconoscimento e di liberazione, quanto per le logiche di controllo di un potere capace di innestarsi dentro le dimensioni più private dell’esperienza individuale.
(continua)
Damiano Palano