di Damiano Palano
Quando nel 1987 Paul Kennedy pubblicò Ascesa e declino delle grandi potenze (Garzanti), il libro divenne immediatamente una sorta di best-seller. Ciò che attirò l’attenzione sul volume, innescando inevitabilmente qualche polemica (e molte critiche), non però il tentativo di comparare le dinamiche di ascesa e declino delle grandi potenze occidentali, ma la previsione formulata nell’ultimo capitolo del libro. Proiettandosi verso il XXI secolo, lo studioso inglese, docente di storia a Yale, profilava infatti l’ipotesi di un imminente declino degli Stati Uniti, causato da fattori come la perdita di competitività dell’economia americana, il forte indebitamento con l’estero e la dipendenza dalle importazioni di prodotti agricoli. Dinanzi a queste tendenze, sosteneva Kennedy, era inevitabile che si verificasse quello stesso meccanismo di overstretch che aveva condannato al declino la Spagna imperiale, intorno al 1600, e l’impero britannico, negli anni a cavallo del 1900. In modo analogo – prevedeva allora Kennedy – anche gli Stati Uniti sarebbero stati spinti sulla via del declino politico dall’«iper-estensione» degli impegni strategici, sempre meno sostenibili da parte del sistema economico.
Qualche anno prima, Kennedy aveva pubblicato un volume altrettanto importante, Ascesa e declino della potenza navale britannica (Garzanti, pp. 532, euro 35.00). In quel testo, lo storico inglese esplorava in profondità il medesimo meccanismo dell’overstretch a proposito dell’impero britannico. Ma riprendeva anche le vecchie tesi di Alfred T. Mahan, il contrammiraglio della marina americana considerato il fondatore del filone ‘navalista’ della geopolitica classica. In sostanza, Mahan aveva sostenuto che la conquista dell’egemonia mondiale dipendesse dal possesso della supremazia navale. E Kennedy riprendeva proprio quest’idea, considerando dunque l’ascesa dell’Impero britannico come un risultato della sua potenza navale. Ovviamente, alla base di questa supremazia stava anche una straordinaria espansione economica, garantita dalla rivoluzione industriale. Ma proprio il combinarsi della crescita economica con la costruzione dei nuovi velieri transoceanici consentì all’Impero britannico di conquistare e mantenere la supremazia mondiale fra il XVII secolo e la fine del XIX. Anche quella straordinaria potenza imperiale – come mostrava l’ancora oggi appassionante analisi di Kennedy – non poté però sottrarsi al fatale meccanismo dell’overstretch. L’ascesa economica di nuovi rivali iniziò infatti a corrodere le basi del vecchio impero, rendendo sempre più insostenibili gli impegni strategici britannici.
È piuttosto scontato che il lettore di oggi intraveda in filigrana nelle pagine di Kennedy un classico de te fabula narratur. In altre parole, è inevitabile vedere riflesse, nella storia dell’Impero britannico, le sequenze dell’ascesa americana e del suo – più o meno imminente – declino. Ma è proprio da questa tentazione che ha messo in guardia lo stesso Kennedy. Misurata con i criteri di Mahan – osservava Kennedy alcuni anni fa, nella presentazione alla nuova edizione del volume – la supremazia statunitense sui mari, garantita soprattutto dalle portaerei, è infatti ancora straordinaria, e inoltre non sembra affacciarsi alcun rivale credibile sotto il profilo strettamente militare. Ma, avvertiva anche: «la storia ha l’abitudine di sfatare quasi tutte le previsioni, e di produrre ribaltamenti che rendono obsoleti gli assunti comuni». D’altronde, «se la potenza navale statunitense appare sicura per molti anni ancora», secondo Kennedy «la posizione strategica complessiva del paese lo è molto meno». E due sarebbero i rischi principali. «Il primo, paradossalmente, sta nell’eccessivo logoramento dell’apparato militare americano dovuto al rapido ed estensivo intervento nel Medio Oriente, e poi nel territorio interno di cui parlava Mackinder», ossia in Asia centrale. «Il secondo pericolo sta nella vecchia nemesi che attende la potenza navale: la debolezza economica e fiscale». L’aspetto più problematico, dunque, non risiederebbe nelle strutture produttive e tecnologiche americane, ancora notevolmente competitive, ma nella fragilità finanziaria. «I deficit federali e statali, e il cronico squilibrio della finanza pubblica (dovuto non solo alle eccessive spese militari, ma anche al finanziamento della previdenza sociale e del Medicare, nonché al miglioramento delle infrastrutture e della sicurezza interna) prospettano una notevole precarietà nella conservazione dell’attuale egemonia americana nel lungo periodo».
Negli ultimi anni, Kennedy ha d’altronde sottolineato più volte – per esempio su «The National Interest» (luglio-agosto 2010) – che il declino degli Stati Uniti, pur considerato in una prospettiva non di breve periodo, è comunque un processo di cui tenere conto. «Questa nazione privilegiata – si è tentati di dire, sovraprivilegiata – possiede attorno al 4,6% della popolazione mondiale, produce circa un quinto della produzione mondiale, e, incredibilmente, punta a spendere più del 40% dell’intero esborso globale per la difesa». Proprio per questo, prima o poi, emergerà il classico problema dell’overstretch. «I grandi imperi, o le egemonie», avverte comunque Kennedy, «crollano raramente, per non dire mai, in modo rapido, spettacolare», ma piuttosto «declinano lentamente cercando di evitare collisioni, scartando gli ostacoli». In questo senso, la domanda principale non riguarda allora il declino in sé, sostanzialmente inevitabile, ma il modo con cui gli Stati Uniti affronteranno questo processo. E, soprattutto, quanto saranno disposti a concedere ai loro prossimi rivali. Rispolverando magari la vecchia, per molti versi screditata, prospettiva dell’appeasement.
Ovviamente, nel XXI secolo (e soprattutto dopo il 2008) il dibattito sul declino dell’egemonia americana si è ulteriormente arricchito, ed è anche tornato ad alimentare nuove polemiche. Una lettura interessante, che riprende a riflettere sul dominio spaziale e a battere in particolare sul tasto del potere navale, viene da un articolo di John Maersheimer, uno dei più importanti studiosi americani di Relazioni Internazionali, pubblicato sul numero in uscita in questi giorni della rivista «Vita e Pensiero» (3/2011),.
Nel panorama degli studi internazionalistici, Mearsheimer è noto soprattutto per il suo «realismo offensivo», una visione che riprende alcuni elementi del realismo classico e della riflessione geopolitica. Al contrario di quanto riteneva Hans Morgenthau, Measheimer pensa però che la ricerca del potere da parte delle grandi potenze determini non un comportamento difensivo, ma un comportamento offensivo. «I sostenitori del realismo offensivo», ha scritto nella Logica di potenza (Università Bocconi Editore, 2003), «sono convinti che il sistema internazionale costringa una grande potenza a massimizzare la propria sicurezza». In altri termini, «la sopravvivenza esige un comportamento aggressivo», e, dunque, «le grandi potenze si comportano aggressivamente non perché vogliano farlo o perché possiedano una pulsione interiore al dominio, ma perché sono costrette a cercare più potere se vogliono massimizzare le probabilità di sopravvivenza». Ovviamente, la proposta di Mearsheimer non può che incontrare più di qualche obiezione, anche perché lo scenario che dipinge confligge non poco con l’immagine di un sistema internazionale vincolato da istituzioni, organizzazioni, regole, sostenuta nel corso degli ultimi tre decenni da molti autori liberali. D’altronde, il mondo di Mearsheimer appare davvero come un mondo hobbesiano, dominato da una paura ineliminabile. «Le grandi potenze» – scrive ancora, in un passaggio importante della Logica di potenza – hanno paura l’una dell’altra. Si guardano con sospetto, paventano sempre una guerra all’orizzonte. Presentiscono il pericolo. Non c’è molto spazio per la fiducia tra stati. Certo, il livello di timore varia nel tempo e nello spazio, ma non può essere azzerato. Dal punto di vista di una grande potenza, tutte le altre sono potenziali nemiche». Dato che, secondo lo studioso americano, «la paura è il primus movens della politica mondiale», e dato che il sistema internazionale è privo di un’autorità superiore, l’unico modo con cui le grandi potenze possono garantirsi effettivamente la sopravvivenza è così l’autotutela. Ma, soprattutto, «gli Stati capiscono in fretta che il modo più sicuro per assicurarsi la sopravvivenza è diventare il più potente Stato del sistema», perché, «quanto più forte è uno Stato rispetto ai suoi potenziali rivali, minori saranno le probabilità che uno di questi lo attacchi mettendone a repentaglio la sopravvivenza».
Questi assunti teorici indirizzano anche le ipotesi avanzate da Mearsheimer sull’ascesa della Cina e sul ruolo degli Stati Uniti nella politica mondiale. E il dato più importante su cui si concentra è la previsione di una notevole crescita della competizione sino-americana, una crescita che, nei prossimi anni, sarà all’origine di nuovi rischi di conflitto. L’idea di fondo – e, con l’ottica del «realismo offensivo», non potrebbe andare diversamente – è che la crescita economica della Cina sia destinata a determinare un mutamento anche nella sua politica estera. E che Pechino sia dunque destinata ad abbandonare la linea pacifica e accomodante degli ultimi decenni, per diventare più aggressiva. Ma, se da un lato la Cina incomincerà a diventare più aggressiva, dall’altro, la maggior parte dei suoi vicini tenderanno a collaborare con la potenza americana in vista di un contenimento del potere di Pechino. E, infine, anche gli Usa diventeranno più aggressivi, almeno nella regione Asia-Pacifico.
I motivi alla base della previsione di Maersheimer coincidono, in fondo, con i presupposti del suo «realismo offensivo». Sebbene la Cina abbia fino ad ora portato avanti una linea sostanzialmente pacifica in politica estera, questo atteggiamento non è destinato a durare ancora a lungo. L’obiettivo di una maggiore sicurezza che Pechino perseguirà nei prossimi anni, e che può d’altronde già rinvenirsi nel rafforzamento della Marina, condurrà verso un’aggressività sempre più esplicita. «Per ragioni strategiche» - scrive Mearsheimer, «la Cina cercherà di massimizzare il divario di potenza tra lei e gli avversari più temibili, a cominciare dall’India, dal Giappone e dalla Russia. La Cina vorrà avere la certezza di essere abbastanza potente perché nessuno desideri attaccarla». Se da un lato è piuttosto improbabile che abbia la possibilità do conquistare effettivamente altri Stati, dall’altro è invece plausibile che Pechino punti a raggiungere una sorta di egemonia regionale, che fissi ovviamente anche dei limiti ben precisi al ruolo degli Usa nell’Asia-Pacifico. In altre parole, secondo Mearshemer, «è più probabile, invece, che voglia potere chiarire ai suoi vicini che esistono limiti da non superare, pressappoco come gli Stati Uniti hanno chiarito agli altri paesi delle Americhe che in certi casi si riservavano l’ultima parola».
Per questi stessi motivi, dato che nessuno Stato può appellarsi a un’autorità suprema per tutelare la propria sicurezza, gli Stati Uniti non abbandoneranno l’Asia-Pacifico, ma tenteranno di ostacolare l’ascesa cinese. E, probabilmente, troveranno alleati – vecchi e nuovi – in tutti quegli Stati che, nella regione, guarderanno con sempre più sospetto alle mire egemoniche cinesi. In sostanza, dunque, «la maggior parte dei vicini della Cina finiranno quindi con l’entrare nella coalizione a guida americana destinata a frenare l’ascesa della Cina, proprio come durante la guerra fredda la Gran Bretagna , la Francia, la Germania, l’Italia, il Giappone e perfino la Cina comunista unirono le forze per arginare l’Unione Sovietica».
Ma l’aspetto forse più interessante del ragionamento di Mearsheimer risiede, probabilmente, proprio nell’attenzione alla conquista di un rilevante potere navale da parte di Pechino. La Cina, sostiene Mearsheimer, dovrà infatti cercare di estendere il controllo marittimo nella regione, per una molteplicità di ragioni, la principale delle quali chiama in causa l’importazione di petrolio. Se oggi la Cina è infatti fortemente dipendente dal petrolio mediorientale, è difficile ipotizzare che nei prossimi decenni – in coincidenza con ritmi di sviluppo economico così elevati – tale dipendenza possa ridursi in modo significativo. E, benché sia allo studio la costruzione di oleodotti, la via ancora più economica è rappresentata dal trasporto marittimo. Ma, a questo proposito, Measheimer segnala l’importanza di un ostacolo geopolitico che la Cina non può aggirare così agevolmente. I passaggi marittimi fra il Mar Cinese meridionale e l’Oceano indiano sono infatti principalmente tre, e la Cina ha assoluta necessità di poter disporre di almeno uno di essi. «Le navi cinesi possono passare dallo Stretto di Malacca, situato tra l’Indonesia, la Malaysia e Singapore, o spingersi più a sud e percorrere lo Stretto di Lombok o lo Stretto della Sonda, ambedue in Indonesia, tornando in mare aperto nell’Oceano Indiano non lontano dalla parte nordoccidentale dell’Australia». La Cina, però, non potrebbe probabilmente disporre dello Stretto di Malacca in occasione di un conflitto con gli Usa, per la vicinanza di Singapore, solido alleato americano. Per questo motivo – che gli strateghi cinesi identificano come «dilemma di Malacca» – Pechino deve guardare soprattutto a Lombok e alla Sonda, e cioè agli stetti che attraversano l’Indonesia. Ciò, però, avrà un effetto estremamente rilevante, non solo per l’Indonesia, ma anche per l’Australia. La necessità di controllare i mari indonesiano, in altre parole, non può che indirizzare l’espansione navale cinese verso l’Australia. «I passi che la Cina muoverà per neutralizzare la minaccia alle sue rotte rappresentata dall’Australia – e, non dimentichiamolo, parliamo di una Cina futura molto più potente di quella attuale – spingerà senz’altro Canberra a collaborare strettamente con Washington per contenere la Repubblica Popolare ». Così, l’ascesa del potere navale cinese dovrà – almeno secondo questa lettura – innescare una serie di conseguenze estremamente rilevanti per l’Australia. Ma, soprattutto, non potrà che aumentare notevolmente i rischi di conflitti in un’area per Pechino sempre più strategica.
Damiano Palano
Il sito della rivista "Vita e Pensiero"
http://www.vponline.it/riviste/888888/
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