di Damiano Palano
«La felicità», scrisse Flaubert, «è una menzogna, la cui ricerca è causa di tutti i malanni della vita». Ed è probabilmente anche per questo che il recente volume di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky, La felicità della democrazia. Un dialogo (Laterza, pp. 244, euro 15.00), ha attirato tanta attenzione, oltre ad alcune (spesso prevedibili) critiche. Forse, alcuni lettori hanno infatti sperato di ritrovare, nel confronto fra il direttore di «Repubblica» e il giurista torinese, il segreto per ricostituire quel rapporto tra politica e felicità che oggi appare quantomeno logorato. Ma, al tempo stesso, altri non hanno potuto evitare di storcere il naso proprio dinanzi all’ambizione – dichiarata dal titolo – di una democrazia capace di offrire non solo efficienza, buon governo, trasparenza o responsabilità, ma, addirittura, la felicità. Intervenendo sul dialogo di Mauro e Zagrebelsky, Gian Enrico Rusconi per esempio ha scritto: «Forse la felicità non dovrebbe essere nominata in democrazia. So che questa affermazione può apparire sospetta: qualcuno potrebbe scoprirvi un residuo di moralismo vecchia maniera – di quando la felicità sapeva di ‘peccato’. È stato così anche nella cultura del nostro Paese. Ma da quel tempo sono passate ormai tre, quattro generazioni nel nostro Paese, accompagnando la cosiddetta rivoluzione del costume. A un certo punto ‘la felicità’ venne fraintesa con ‘consumismo’, mettendo d’accordo i moralisti cattolici con quelli comunisti. Poi il consumismo si è rivelato un benefico indicatore socio-economico. Oggi la felicità, o meglio la ricerca, l’esibizione della felicità, assume forme così volgari e corrosive da richiedere energiche azioni di contrasto che non devono neppure più chiamarla per nome» (G.E. Rusconi, I nuovi diritti alla prova della democrazia, in «La Stampa», 9 maggio 2011, p. 33).
In effetti, è molto difficile non condividere il rilievo di Rusconi e non sottoscrivere lo spirito della sua annotazione. A ben vedere però, benché compaia nel titolo del volume, quel nesso – così evocativo, ma anche così problematico – fra democrazia e felicità compare solo nelle pagine finali del dialogo fra Mauro e Zagrebelsky, in modo peraltro piuttosto fugace. D’altronde, nelle scarne pagine conclusive in cui il tema viene affrontato, i due autori non sembrano neppure condividere la medesima posizione. Ed è soprattutto Mauro a insistere sulla necessità di istituire un nesso fra democrazia e felicità, nel senso che è proprio il direttore di «Repubblica» a proporre di ritrovare fra i compiti principali e più alti della democrazia il dovere di «rispondere addirittura alla grande questione della felicità» (p. 231). Mauro non intende la felicità nei termini della ricerca di una soddisfazione individuale, al di fuori delle regole, ma ritiene piuttosto che la felicità possa essere conseguita solo all’interno di un sistema di regole. Dato che, argomenta Mauro, «c’è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e di libertà», allora «è giusto e possibile cercarci anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini» (pp. 232-233). Dinanzi a una simile proposta, Zagrebelsky in realtà sembra distanziarsi, almeno in parte, da Mauro, e tende così a collocare il «diritto alla felicità» sancito dalla Dichiarazione di Indipendenza americana all’interno di una costellazione filosofica e politica abissalmente distante da quella europea e dalla sensibilità contemporanea. Ma, ciò nonostante, non sfugge interamente alla proposta di Mauro, e per questo cerca di circoscrivere il significato della ‘felicità’. «Che cosa è la felicità» - si chiede - «questo sentimento fugace che subito, appena l’hai provato, si dissolve in angoscia per timore della perdita?» (p. 233). Per Zagrebelsky il significato più autentico della felicità deve essere ritrovato nella «soddisfazione per il dovere compiuto», e proprio qui si può allora individuare un legame tra felicità e democrazia. «Credo che possa esserci una grande felicità e forse anche noi, qualche volta, l’abbiamo provata. Ma non è certo la felicità di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità sono state separate, anzi collocate agli antipodi» (p. 235). Ma, per questo, la democrazia può essere anche definita come «il modo più sopportabile di sopportare l’infelicità, cioè il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l’infelicità dell’humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni» (p. 235). Un tipo di regime, dunque, che non elimina l’infelicità, ma forse, osserva Zagrebelsky, la rende più sopportabile: «Tutti gli altri sistemi di governo degli esseri umani sono peggiori, più insopportabili, più infelici», ma la democrazia si mostra comunque superiore agli altri: «la democrazia, come tutti i governi, rende infelici gli esseri umani, ma molto meno degli altri. Quindi, è il più vicino alla non-infelicità, se non volgiamo arrivare a dire alla felicità. Così, in questo modo piuttosto rassegnato a ciò che la natura ci ha fatto essere, potrei dirmi d’accordo con te nel collegare felicità, vita, democrazia» (p. 236).
Naturalmente, l’approdo cui giungono Mauro e Zagrebelsky può lasciare insoddisfatti, sia perché si tratta di un risultato piuttosto esiguo rispetto alle attese che il titolo del volume fa presagire, sia per il contenuto stesso della proposta cui giungono. Ma, forse, si tratta di una conclusione inevitabile, date le premesse stesse del dialogo. In effetti, il vero cuore della conversazione non è rappresentato dalla relazione tra felicità e democrazia ma dal rapporto – non meno problematico – tra la parola «democrazia» e la cosa, ossia la concreta forma di regime che etichettiamo con questo nome. I due autori, nel Prologo, scrivono infatti: «Democrazia: la parola e la cosa. Tra questi due termini stanno le considerazioni raccolte nelle pagine che seguono. […] La parola democrazia sembra ora contenere tutto ciò che di buono, di giusto e di bello ci si può attendere dalla politica. Per questo ogni giustificazione dell’agire politico deve per forza richiamarsi alla democrazia. Questo è il lato della medaglia dove è iscritta e luccica la parola democrazia. Sull’altro lato della medaglia, c’è la cosa. Ciò che vi vediamo è la frustrazione continua e crescente delle aspettative alimentate dalla parola. Quello che brilla da un lato è opaco dall’altro» (p. 3). Ma, scrivono i due autori, presentando il loro confronto, l’intento è di concentrarsi soprattutto su un’analisi realistica della cosa, o, meglio, «di tener conto insieme dell’essere e del dover essere della democrazia» (p. 4). E il punto di partenza non può così non essere costituito dalla crescita della disaffezione, dalla registrazione di una condizione di malessere che – senza necessariamente dover apparire nella forma della ‘crisi’ – sembra investire le democrazie occidentali e, ovviamente, quella italiana in particolare (cui i due autori guardano in modo privilegiato). Questo malessere non ha però a che vedere soltanto con la percezione che i cittadini hanno della realtà politica, ma anche con un processo più complesso, ossia con una sorta di «scollamento», di «distacco», di «rovesciamento»: «La democrazia», secondo le parole di Zagrebelsky, «è sempre stata, finora, la rivendicazione degli inermi, degli esclusi, di quelli che contano poco o nulla e vogliono contare di più, vogliono farsi valere in società che li tengono ai margini. Istintivamente, significa contestazione delle concentrazioni di potere oligarchico attraverso diffusione e uguaglianza di partecipazione politica. […] Oggi, è così? Mi pare si debba constatare il contrario. Sono i detentori del potere (i dynàstai) a fare della democrazia – della parola democrazia – il proprio orpello, a invocarla per rendere indiscutibile il proprio potere sugli inermi. Quanti abusi di potere si giustificano ‘democraticamente’!» (p. 11).
Muovendo da questa condizione della democrazia di oggi, il dialogo si muove, a cerchi concentrici, toccando temi di stretta attualità e nodi classici della riflessione sul potere. Così, per esempio, Mauro e Zagrebelsky affrontano la questione dei diritti dei lavoratori, suggerita dagli accordi di Pomigliano d’Arco e Mirafiori, il tema del terrorismo e della sfida che esso pone alle procedure democratiche, il ruolo pubblico della Chiesa, oltre che, naturalmente, le trasformazioni della democrazia. Proprio a questo proposito, Mauro ritiene che la democrazia contemporanea – ma si riferisce in realtà alla democrazia italiana, o, più precisamente, alle forze politiche italiane di centro-destra – si avvicini a un «moderno populismo carismatico», che modifica la sostanza della politica. «La politica», secondo le parole di Mauro, «è diventata questo: uno spazio di potestà del Capo che parla al suo popolo in forma diretta, agisce saltando istituzioni e mediazioni, in un dialogo mai interrotto» (p. 165). Zagrebelsky, più che sottoscrivere l’idea di una transizione verso un neo-populismo, preferisce parlare di una ‘crisi’ di politica, che è una scomparsa della sostanza stessa della politica. «Il nostro Paese», osserva, «è in crisi di politica e questo spiega tante cose, a incominciare dalla diffusa indifferenza dei cittadini, dettata oggi non più da ragioni qualunquiste, ma dalla sfiducia nella politica come tale. La politica è libera scelta dei fini. Ma, oggi, dov’è questa libertà? Al massimo la politica esprime la gestione (buona o cattiva) dell’esistente. La gestione non scalda i cuori e può essere lasciata ai tecnici, ai burocrati […]. Ma se sotto la forma non si intravede la politica, qualche cosa tuttavia c’è, e non dovremmo farci ingannare dalle apparenze. A mio parere, la politica come rappresentazione tende a deviare da quello che c’è sotto, e sotto c’è il potere, il potere per il potere; il potere che per sua natura tende a diventare ‘smisurato’ […] perché questa è la logica del potere» (p. 165). E questo è in effetti il punto cruciale attorno al quale ruotano le considerazioni del giurista, dal momento che la crisi della democrazia scaturisce, a suo avviso, dalla crisi della politica. «La democrazia presuppone la politica. Se la politica è in crisi, è in crisi la sua forma, cioè la democrazia. La democrazia è forma di reggimento delle società umane in cui esiste libertà dei fini politici. Se la politica ha perduto questa libertà, è in crisi la democrazia. […] Se si perdono di vista i fini, perché non ci sono più o non li si riesce a definire, la democrazia perde valore. Se ciò che c’è, nell’essenziale, non può che essere così com’è, che senso ha ancora la democrazia?» (p. 204). Il riferimento ai fini, e soprattutto l’accenno alla libertà dei fini che contrassegna la democrazia, non è affatto incidentale nel discorso di Zagrebelsky, e non è dunque casuale che all’obiezione di Mauro – il quale ritiene che la perdita dei grandi ‘fini’ politici sia una conseguenza della ‘fine delle ideologie’ – il giurista ribatta: «Mi schiacci, con questa equiparazione tra fini e ideologie […]. È difficile rassegnarsi, soprattutto di fronte all’avvitamento del mondo su se stesso, che produce disuguaglianze, distruzione della natura, violenza, aggressioni per il possesso di risorse naturali che aiutino a tirare avanti ancora un poco. Questo, per me, è il regno dei fini: l’interrogazione su quello che ci si può aspettare ‘alla fine’» (p. 208).
Naturalmente, il dialogo – che senza dubbio è stato rielaborato, ma che comunque si presenta come la trascrizione di una conversazione – si presta con difficoltà a essere letto in modo sistematico, e d’altronde i passaggi logici dei due interlocutori spesso sono labili, se non proprio evanescenti. Tanto che – in molti passi del libro – sembra di assistere, più che a una dotta discussione tra due influenti intellettuali di grande cultura e di profonde letture, a una conversazione ferroviaria in cui i più frusti luoghi comuni – così come le provocazioni di maniera – offrono, più che il modo migliore per cementare una compiaciuta convivialità, la strada più agevole per giungere senza traumi alla fine del viaggio. In effetti, a tenere insieme tutto il dialogo di Mauro e Zagrebelsky sono proprio i luoghi comuni, ed è anche per questo che l’accostamento fra democrazia e felicità finisce con l’apparire solo una maldestra operazione editoriale.
D’altronde, concepire la felicità come la «soddisfazione per il dovere compiuto» non rende questo sentimento meno fugace, e meno ingannevole, rispetto a quanto sottolineava Flaubert (e rispetto a quanto ritiene lo stesso Zagrebelsky), anche qualora si tenti di ancorarlo alla virtù, o, meglio, alla concezione della virtù. Come ben sapevano gli antichi, d’altra parte, il rapporto fra la virtù e la politica è tanto ambiguo, che la più elevata virtù politica – la virtù richiesta dalla città – qualche volta può richiedere persino una violazione di principi morali altrettanto fondamentali, come il rispetto della vita umana. Così, la «soddisfazione per il dovere compiuto» può certo richiamare alla mente l’etica del funzionario pubblico, o del politico che agisce secondo ferrei principi morali, e senza alcun riguardo per la salvaguardia dei propri personali interessi e dei propri legami familiari. Ma può anche richiamare alla mente il più estremo sacrificio che la comunità può richiedere al singolo, ossia il sacrificio della vita in battaglia, perché proprio in questo caso il cittadino è chiamato a difendere con la propria vita il bene collettivo della sicurezza. Almeno nell’iconografia patriottica, ciò che spinge, alimenta, legittima, il soldato a compiere azioni che, ovviamente, non commetterebbe in condizioni normali (o che sarebbero considerate come crimini efferati), è proprio il senso del dovere, il senso dell’appartenenza collettiva, la consapevolezza (o l’illusione) di svolgere una funzione essenziale, vitale per la vita della nazione. Così, è facile immaginare che la «soddisfazione per il dovere compiuto» fosse anche il sentimento con cui Adolf Eichmann chiudeva ogni giornata di proficuo lavoro. E, forse, si può persino sospettare che la medesima «soddisfazione per il dovere compiuto» fosse il anche la sensazione provata dall’equipaggio dell’Enola Gay, dopo aver sganciato su Hiroshima Little Boy, il primo ordigno nucleare, e dopo aver provocato in una manciata di secondi decine di migliaia di vittime. Il punto non è infatti che tutto ciò possa ripugnare – comprensibilmente – alla coscienza di molti, bensì che tutto questo abbia a che vedere proprio con quel nesso – sospetto ma suggestivo – tra democrazia e «felicità». A meno, ovviamente, di trasformare la democrazia – da una forma di regime creata dagli esseri umani e realmente esistente – nel culmine della storia universale, in una forma di organizzazione politica irriducibilmente diversa da tutte le altre conosciute nella storia, una forma di organizzazione politica capace di modificare in profondità la natura umana, e in grado anche di esercitare la violenza in modo ‘differente’ rispetto a ogni altro tipo di regime.
Ma non è questo l’unico limite che emerge con prepotenza dalle pagine di Mauro e Zagrebelsky. Non si tratta infatti solo della ricorrente, quasi estenuante, rincorsa dei luoghi comuni che rende ambiguo tutto il dialogo. Come in tutte le più classiche conversazioni ferroviarie, i luoghi comuni hanno infatti una funzione che non si risolve nello scambio di banalità. I luoghi comuni sono rassicuranti, sono effettivamente quel luogo – ‘comune’ a tutti, ma mai veramente di nessuno – in cui ci possiamo sentire tranquilli anche fuori dalle nostre pareti domestiche, anche nell’incontro con un estraneo di cui ancora non abbiamo misurato l’eventuale pericolosità, l’invadenza, le effettive intenzioni. Quando ci troviamo impegnati in una conversazione ‘forzata’ con una persona che non conosciamo (o che conosciamo solo molto superficialmente), ci tuffiamo bene o male in banalità sentite mille volte – proprio quelle banalità così insopportabili e così preziose che chiamano in causa le mezze stagioni, la campagna che non c’è più, i giovani d’oggi, i gelati di una volta, le estati torride di quando eravamo bambini, le bellezze sconosciute dell’Italia – proprio perché in questo modo possiamo valutare il nostro vicino su un terreno neutrale, senza mostrare troppo di noi stessi ma senza apparire ostili e neppure troppo invadenti. Inevitabilmente, però, in queste conversazioni ferroviarie manca qualcosa. Perché, quasi invariabilmente, proprio gli stessi protagonisti della conversazione si sforzano così tanto di schiacciarsi dietro i luoghi comuni, da scomparire del tutto.
Qualcosa di simile accade anche nel dialogo di Mauro e Zagrebelsky. Non certo perché i due conversatori si nascondano dietro i luoghi comuni, ma perché i luoghi comuni che intessono il loro dialogo occultano del tutto i soggetti reali delle trasformazioni politiche contemporanee. Per quanto il dialogo tocchi tutti i nodi della grande trasformazione odierna, è impossibile trovare nelle argomentazioni dei due protagonisti anche un semplice riferimento alle ‘cause’ reali della ‘crisi’ della democrazia, del disincanto democratico. È impossibile trovare cioè un accenno a qualche concreto soggetto politico, a qualche scontro reale, a qualche dinamica effettiva che, al di sotto del ‘teatrino della politica’, abbia comportato una modificazione così dirompente. Persino quando il dialogo si accosta al tema del lavoro, la sola causa che viene evocata è la ‘globalizzazione’, la parola magica che – regina incontrastata di tutti i luoghi comuni, e perno insostituibile tanto delle più triviali conversazioni ferroviarie, quanto delle più raffinare disquisizioni filosofiche – viene ad assolvere la funzione di un vero e proprio deus ex machina. E, così, i soggetti reali, i conflitti, i rapporti di potere – tutto quello che effettivamente riempie la ‘sostanza’ della politica, anche quando la politica sembra privata di sostanza – svaniscono del tutto. Per essere sostituiti, naturalmente, dai buoni sentimenti, dal perduto senso del dovere, o persino dalla felicità.
Non è certo inspiegabile che il dialogo di Mauro e Zagrebelsky abbia incontrato un notevole successo di pubblico e che abbia persino destato l’entusiastico plauso di lettori dai gusti raffinati come Luciano Canfora (L’autunno della democrazia senza ideali, in «Corriere della Sera», 5 maggio 2011, p. 43), Ida Dominijanni (Democrazia, il nome e la cosa, in «il manifesto», 25 maggio 2011, pp. 10-11), o Alberto Asor Rosa (Democrazia, legalità e felicità, in «il manifesto», 19 giugno 2011, p. 1). E non è neppure difficile profetizzare che le vendite del libro andranno ancora meglio nei prossimi giorni, perché il dialogo di Mauro e Zagrebelsky presenta tutti gli ingredienti del classico best seller da leggere sotto l’ombrellone. Immergendosi in tutti quei luoghi comuni, il lettore – o almeno un certo tipo di lettore – non può non sentirsi rassicurato dal fatto di essere in ottima compagnia. Non può non sentirsi gratificato da quelle considerazioni di buon senso – considerazioni che tutti prima o poi abbiamo espresso, o quantomeno pensato… – ma che, solennemente pronunciate con il contrappunto di citazioni di Kelsen, Dostoevskij, Bobbio, Einaudi, danno la sensazione di avere accesso a un cenacolo esclusivo, in cui la cultura porta con sé il dono di una dolente consapevolezza. E, infine, quello stesso lettore non può allora non uscire rinfrancato dalla lettura di Mauro e Zagrebelsky come dalla rinfrescante lettura di un thriller estivo, perché – dopo essersi tuffato negli orrori di una democrazia in decadenza – riesce finalmente a trovare quel colpevole, di cui in fondo si era tutto capito fin dalla prima pagina. Ma anche per questo, come molti dei best seller balneari, il dialogo di Mauro e Zagrebelsky lascerà poco ai suoi lettori. La democrazia dei buoni sentimenti evocata dai due intellettuali rimarrà probabilmente sepolta in valigia, o si dissolverà al momento del ritorno a casa, insieme a tutti i buoni propositi invariabilmente pronunciati sulla battigia. E, forse, anche la promessa di felicità, che campeggia solennemente su una copertina che riproduce gli articoli della Costituzione italiana, si rivelerà solo una lontana, illusoria, fuggevole, impressione estiva