mercoledì 29 giugno 2011

Rileggere "Lavoro ai fianchi". Un 'noir' anticipatore sull'Italia degli anni Settanta


di Damiano Palano



Una versione diversa di questo testo è apparsa sul blog «La revisione».

Negli ultimi decenni, il noir italiano è diventato qualcosa di più che un genere d’intrattenimento premiato dal pubblico. Sempre di più, è emerso infatti un tratto specifico, che contrassegna la produzione degli autori italiani, e che difficilmente si ritrova nei libri degli stranieri, ossia il tentativo di confrontarsi con la storia del nostro paese. Non soltanto, dunque, con le ‘storie’, con gli intrecci costruiti dalla fantasia degli scrittori, ma proprio con la ‘Storia’, con le vicende pubbliche, le trame ‘occulte’, gli eventi che hanno segnato l’immaginario collettivo. Da questo punto di vista, i casi significativi sono molti, e cercando di farne un inventario si corre inevitabilmente il rischio di dimenticare più di qualcuno. Ma, per esempio, Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo (Einaudi), un libro premiato da un successo straordinario (e forse anche inaspettato), non è solo una narrazione epica, e romanzata, della parabola criminale della ‘banda della Magliana’, perché in realtà incrocia alcuni episodi cruciali della storia politica italiana fra gli anni Settanta e Ottanta (il sequestro Moro, l’omicidio Pecorelli, la strage di Bologna del 1980, lo scandalo della P2), proponendo persino una chiave di lettura. Muovendosi sulla stessa linea, ma sviluppando un discorso autonomo, anche il recente Milano criminale, il romanzo dedicato da Paolo Roversi alla ‘mala milanese’ (Rizzoli), non si limita a seguire le avventure di personaggi come Luciano Lutring, Pietro Cavallero e Renato Vallanzasca, ma cerca di fare qualcosa di più: con una cura particolare, segue in parallelo l’ingresso di Milano nella stagione del boom e la mutazione genetica della malavita milanese, intersecando i due piani del ‘sottosuolo’ criminale e della scena pubblica, persino quando questa scena viene occupata dalla contestazione e dai cortei operai. E, come De Cataldo, anche Roversi - in quello che ha definito come una sorta di 'romanzo storico' sulla malavita milanese - propone, in qualche caso, una lettura originale di alcuni casi rimasti irrisolti, o senza colpevoli. In entrambi questi casi – ma l’elenco potrebbe continuare – il noir acquisisce una sfumatura diversa, e la narrazione assume i tratti della docu-fiction, come avveniva d’altronde in Strage: il romanzo che Loriano Macchiavelli – uno dei pionieri del noir italiano, il creatore di Antonio Sarti – dedicò alla strage del 2 agosto 1980, e che fu pubblicato la prima volta, con uno pseudonimo, nel 1990 (ma recentemente è stato riproposto da Einaudi),.
A spingere in questa direzione il noir italiano sono probabilmente varie componenti. In primo luogo, c’è quella sorta di ossessione per la politica, che fa sì che nell’immaginario degli italiani le appartenenze politiche siano – quasi in ogni momento della vicenda nazionale – onnipresenti e al tempo stesso laceranti. Proprio una simile ‘ossessione’ contribuisce a rendere così diverso il noir italiano da quello di altri paesi europei e, ovviamente, dal noir americano, mentre, forse, lo avvicina di più alla sensibilità di altri autori latini (e un nome su tutti è naturalmente quello del catalano Manuel Vázquez Montalbán). Ma, accanto a una simile componente, c’è anche la convinzione – altrettanto radicata nella sensibilità italiana – che, oltre allo scontro (e all’incontro) delle passioni collettive, la politica sia inevitabilmente, necessariamente, legata all’intrigo, alla congiura di palazzo, alle trame oscure, al mistero che si nasconde nelle segrete stanze del ‘Potere’. Che, proprio per questo, il noir possa inserirsi nello spazio dei misteri lasciati insoluti dalle inchieste giudiziarie, che l’interstizio fra il sospetto e il mistero possa essere colmato da una trama verosimile. E che, dunque, il noir possa diventare anche un modo per fornire una lettura diversa della Storia italiana.
Sebbene negli ultimi anni le incursioni nella Storia siano diventate frequenti, tanto da costituire quasi una sorta di genere autonomo, la vocazione ‘politica’ è in qualche modo innestata nello stesso codice genetico del noir italiano. In effetti, è piuttosto agevole rintracciare una fonte di ispirazione fondamentale – se non proprio un modello – in romanzi come A ciascuno il suoIl contesto o Todo modo, in cui Leonardo Sciascia trasformava una trama poliziesca in un’indagine – dalle sfumature persino ‘metafisiche’ – sul ‘Potere’ e sul suo (inafferrabile) mistero. Ma, forse, ancora più importante, per la definizione dell’immaginario del noir contemporaneo, è la cinematografia della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta. Proprio nei film di quel periodo, infatti, il noir e la politica iniziano a intrecciarsi, e, soprattutto, contribuiscono a costruire una sorta di nuovo genere, o, forse, si potrebbe dire (utilizzando la terminologia di Pierre Bourdieu), a definire un nuovo ‘sottocampo’ culturale, quello del «cinema di denuncia civile»: un sottocampo frequentato sia dagli ‘autori’, ossia dal cinema cui pubblico e critica riconoscono uno status elevato, sia dagli ‘artigiani’ del cinema di genere. Probabilmente, il vero punto di avvio può essere individuato, dopo le trasposizioni cinematografiche del Giorno della civetta e di A ciascuno il suo, nell’Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, un film che sviluppa spunti molto diversi, ma in cui è anche ravvisabile l’eco della strage di Piazza Fontana e della morte di Giuseppe Pinelli. Dopo l’Indagine, la denuncia politica si intreccia sempre più spesso con un cinema poliziesco dai contorni ancora incerti. Da un lato, il cinema d’autore si avvicina in parte al cinema di genere, non solo con i film di Francesco Rosi, ma anche con film come Imputazione di omicidio per uno studente, di Mauro Bolognini, o come Sbatti il mostro in prima pagina, uno dei prodotti più ‘commerciali’ (ma forse anche più riusciti) di Marco Bellocchio. Ma, dall’altro, un genere che non ha assunto ancora i caratteri del ‘poliziottesco’ (o almeno di quel filone del poliziottesco legato ai ‘commissari di ferro’) esplora i rapporti oscuri fra il potere e il crimine e, soprattutto, sviluppa il motivo del ‘complotto’ ordito dentro il Palazzo: un motivo ovviamente popolarizzato dalle tante inchieste sulla «strage di Stato» e sui tentativi di golpe militare. A partire da La polizia ringrazia di Steno, l’idea che un certo mondo criminale risponda a un livello di comando collocato proprio dentro le istituzioni viene declinata – in modo più o meno convincente – da film, esplicitamente commerciali, come il celebre Milano trema: la polizia vuole giustizia, di Sergio Martino, La polizia accusa: il servizio segreto uccide, dello stesso Martino, La polizia sta a guardare, di Roberto Infascelli, La polizia interviene: ordine di uccidere, di Giuseppe Rosati, e persino Poliziotti violenti, di Michele Massimo Tarantini. 
La grande stagione del cinema di genere italiano – una stagione che era cominciata più o meno al principio degli anni Sessanta, con i film western di Sergio Leone e Duccio Tessari, ma anche con gli horror di Riccardo Freda, Mario Bava e Antonio Margheriti – si conclude però verso la fine degli anni Settanta. E anche il ‘poliziottesco’ si dissolve rapidamente, schiacciato da un lato dalla crisi del settore, e, dall’altro, dalla mutazione che – come era avvenuto per il western – tinge il nero delle trame poliziesche dei toni lievi della commedia. Ma è proprio in questo momento che lo spazio del noir, lasciato libero dal cinema, viene almeno in parte occupato da una narrativa ‘gialla’, che in Italia ha avuto espressioni ancora solo sporadiche. Il grande successo della Donna della domenica di Fruttero & Lucentini non si può dire infatti abbia inaugurato un genere, anche se certo esercita – ed è comprensibile – un’influenza straordinaria ancora oggi. Ma sono invece romanzi come quelli di Macchiavelli, Renato Olivieri e Attilio Veraldi ad aprire realmente, verso la fine degli anni Settanta, quel piccolo spazio letterario, e anche editoriale, che negli anni seguenti si dilata lentamente, prima di esplodere due decenni dopo. Ed è in questo spazio che si colloca Lavoro ai fianchi. Alcuni giorni nella vita del commissario Luigi Longo, un romanzo noir scritto da Marco Lombardo-Radice e Luigi Manconi, pubblicato nel 1980 da Mondadori e riproposto, alcuni mesi fa, dall’editore Il Maestrale di Nuoro (pp. 253, euro 17.00). Anche per questo, Lavoro ai fianchi può essere così considerato come testimonianza di un genere ancora cerca di un’identità, o come esempio del tentativo di trasferire sulla pagina temi e situazioni fino ad allora sfruttati dal cinema. Ma Lavoro ai fianchi è interessante anche perché può essere riletto come un esperimento che anticipa molti dei motivi coltivati oggi dal noir italiano, e soprattutto l’idea – così suggestiva e così fortunata – di un intreccio fra Storia collettiva e storie individuali. 
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