Negli ultimi anni, ha fatto il suo ingresso nel dibattito la nuova domanda sulla «qualità della democrazia». Alla base di questo nuovo interrogativo sono due grandi tendenze, fra loro apparentemente contraddittorie. Da un lato, dopo la fine della Guerra fredda abbiamo assistito al trionfo planetario della democrazia e, dunque, alla crescita consistente del numero di Stati democratici. Dall’altro, però, più o meno nello stesso periodo, i sistemi politici hanno iniziato a manifestare segnali spesso evidenti di involuzione, rappresentati, per esempio, dal calo di fiducia nella classe politica, da una crescente apatia politica da parte dei cittadini, dall’incremento dell’astensionismo elettorale, dalla riduzione delle iscrizioni ai partiti, dal successo dell’antipolitica e del linguaggio populista. Proprio questi fenomeni – che sono apparsi con grande nitidezza nell’Italia della ‘Seconda Repubblica’ – hanno suggerito, in primo luogo, l’idea che la «qualità» effettiva delle nostre democrazie sia in declino rispetto al passato. Ma, in secondo luogo, hanno portato al centro della discussione la domanda sulla possibilità di ‘misurare’ la stessa «qualità» di un regime democratico, e, dunque, di distinguere le democrazie di ‘bassa qualità’ dalle democrazia di ‘elevata qualità’.
In questo dibattito – cui hanno contribuito, per esempio, Larry Diamond, Arend Lijphardt e Leonardo Morlino – si inserisce anche il libro di Marco Almagisti, che si concentra in modo specifico sulle trasformazioni della democrazia italiana. L’idea di base di Almagisti è che una democrazia solida ed efficiente non si basi esclusivamente su procedure, ma anche su elementi ‘culturali’ che sono in grado di dare un sostegno effettivo alle procedure. Per questo, la democrazia può essere metaforicamente rappresentata come un insieme di tre cerchi concentrici: il primo cerchio è costituito dalle procedure che consentono la libera scelta dei leader di governo da parte dei cittadini; il secondo cerchio è invece rappresentato dal contesto che rende effettiva l’applicazione delle procedure; il terzo, infine, è dato dal processo di legittimazione delle procedure per riconoscimento del loro valore. In altre parole, dunque, secondo Almagisti le procedure democratiche possono sopravvivere solo in un contesto in cui la cultura politica non sia ostile e in cui la legittimità delle istituzioni democratiche si possa consolidare. L’attenzione, dunque, alla cornice ‘culturale’, che – a seconda dei casi – può garantire il successo o l’insuccesso della democrazia.
Quando si riferisce alla ‘cultura politica’, Almagisti si richiama esplicitamente agli studi di Gabriel Almond e Sidney Verba, ma soprattutto all’importante lavoro di Robert Putnam Making Democracy Work, in cui la civicness veniva ricondotta alla presenza di capitale sociale. In effetti, Almagisti ritiene che proprio il capitale sociale costituisca il ‘secondo cerchio’ che sostiene le procedure democratiche. Ma, a differenza di Putnam, Almagisti non considera il capitale sociale solo come un’eredità storica di lungo periodo, che influisce (in termini negativi o positivi) sul rendimento istituzionale. In altri termini, il capitale sociale può essere ereditato dal passato, ma può anche essere creato dagli attori politici (partiti, corpi intermedi, istituzioni), che, nel corso del tempo, possono produrre e consolidare relazioni di fiducia. E, soprattutto, il capitale sociale esistente (il ‘secondo cerchio’) può essere utilizzato in modo differente, o per rafforzare o per indebolire la legittimazione delle procedure democratiche. Il problema della «qualità della democrazia» riguarda, allora, sia la presenza di capitale sociale, sia i caratteri che il capitale sociale assume (bonding o bridging) rispetto alle procedure democratiche. In breve, «una democrazia di qualità non necessita soltanto che il capitale vi sia (‘secondo cerchio’), bensì che esso dia linfa alla legittimità democratica (‘terzo cerchio’)» (p. 67).
Su queste basi, il lavoro di Almagisti si concentra dunque sulle trasformazioni della democrazia italiana, con un’analisi di lungo periodo che giunge fino a oggi. In particolare, lo sguardo si concentra sulle origini storiche e sulle trasformazioni storiche delle due subculture politiche territoriali italiane: la subcultura socialista e la subcultura cattolica. Ma l’attenzione è rivolta soprattutto a due aree in particolare, la «Toscana rossa» e il «Veneto bianco». Anche Almagisti parte, nella sua analisi, dal Medioevo, ma – a differenza di Putnam – ritiene che le vicende successive siano fondamentali per comprendere la genesi del diverso tipo di capitale sociale. In entrambe queste zone, si registra infatti una notevole presenza di capitale sociale, ma si tratta però di un capitale sociale differente, il cui raggio cambia notevolmente. In Veneto, infatti, i caratteri specifici e il lungo declino della Repubblica di Venezia portano al radicamento di un «senso di estraneità» verso le istituzioni politiche, al quale si accompagna la fiducia nella Chiesa cattolica come istituzione centrale nella società. Al contrario, in Toscana la vicinanza dei gruppi mercantili ai centri politici favorisce uno stile istituzionale ‘interventista’, mentre i tentativi di riforma avviati dai governi ‘illuminati’ lasciano tracce rilevanti nella memoria delle popolazioni. Questi due tipi di capitale sociale si riproducono nel tempo e influenzano molto la formazione dei partiti di massa, fra Otto e Novecento, e, dunque, la nascita della subcultura «bianca» e di quella «rossa».
A lungo, durante la ‘Prima Repubblica ’, entrambe le subculture – a dispetto delle differenze – influiscono sul consolidamento democratico soprattutto grazie al ruolo svolto dai partiti. In effetti, «nelle due subculture il capitale sociale non assume solo tratti bonding, bensì sviluppa il proprio profilo bridging, mentre la ramificazione delle organizzazioni partitiche e delle associazioni collaterali agevola l’accesso al sistema partitico» (p. 184). Inoltre, «nel sistema politico italiano le subculture possono essere considerate come ‘casseforti’ del capitale sociale, poiché al loro interno ampi settori della società civile si mobilitano con particolare intensità e si attivano attorno a interessi collettivi» (p. 184). In questo modo, proprio i partiti garantiscono, insieme al consolidamento democratico, effetti positivi sulla qualità della democrazia, perché favoriscono lo sviluppo di forme di accountability orizzontale e di responsiveness fra società e partiti, all’interno di un contesto storicamente caratterizzato da bassi livelli di accountability verticale.
Il momento cruciale, nella ricostruzione di Almagisti, è costituito invece dalla crisi del sistema dei partiti, nel periodo 1992-1994. Ma le radici di questa ‘crisi’ sono più profonde, perché risalgono alla crisi delle subculture politiche, iniziata già verso la fine degli anni Settanta. Durante gli anni Ottanta, i segnali di logoramento delle due subculture politiche non mancano, anche se i risultati sono diversi: la «subcultura rossa» riesce a resistere, a dispetto del declino dei suoi riferimenti simbolici, soprattutto grazie al ruolo centrale svolto dal partito (Pci e poi Pds) e dalle istituzioni locali nella regolazione politica dello sviluppo; al contrario, in Veneto, con la secolarizzazione religiosa, entrano in crisi sia la centralità della Chiesa ma anche la Dc, intesa fino a quel momento come partito-strumento. Ma, in questo momento, riemerge anche la specificità del tipo di capitale sociale che caratterizza il Veneto: un capitale sociale bonding, contrassegnato dall’estraneietà nei confronti delle istituzioni (locali e nazionali) e dei partiti tradizionali, che viene utilizzato, in un primo tempo, dalla Liga Veneto e, in un secondo tempo, dalla Lega Nord. Il Veneto appare dunque, negli anni Novanta, come una «filigrana strappata»: il capitale sociale preesistente non viene meno, ma si trasforma da capitale sociale bridging in capitale sociale bonding; inoltre, la Lega alimenta l’ostilità verso il centro politico e, in questo modo, contribuisce al ‘disancoraggio’ del capitale sociale rispetto alle istituzioni. Anche la nascita di Forza Italia non produce effetti rilevanti sull’ancoraggio democratico, sia perché non agisce in modo rilevante sul contesto locale, sia perché i successi elettorali del partito di Silvio Berlusconi non consolidano in Veneto una nuova subcultura politica territoriale «azzurra». La lunga transizione sembra però procedere, soprattutto con le elezioni del 2008, verso una nuova ‘riterritorializzazione’ del voto, proprio nelle due aree suculturali.
Nella sua analisi, Almagisti concorda dunque con le ricerche che mostrano un declino della «qualità democratica» nel sistema politico italiano. Questo declino è alimentato da fenomeni diversi, ma uno dei principali fattori di questo declino – accanto al peculiare assetto del sistema della comunicazione, al rafforzamento dell’esecutivo rispetto al Parlamento – è naturalmente la trasformazione dei partiti, che influisce molto negativamente sulla dimensione dell’accountability. Naturalmente, non mancano segnali di mutamento, relativi agli effetti del bipolarismo e del decentramento. Ma il futuro della qualità democratica, per le caratteristiche del sistema politico italiano, dipendere soprattutto dalla capacità dei partiti di svolgere un ruolo di «cerniera» fra società e istituzioni. «L’opera di mediazione e di conversione delle domande, degli interessi e delle identità da parte dei partiti verso il sistema politico», scrive infatti Almagisti, «resta fase ineliminabile perché si possa pervenire a livelli maggiori di accountability e di responsivness». E, dunque, «il miglioramento delle connessioni partitiche fra società e istituzioni resta un passaggio necessario per una democrazia che intenda incrementare la propria qualità» (p. 320).
Per molti versi, il libro di Almagisti può apparire come una ‘inattuale’ celebrazione del ruolo dei partiti in un’era ‘antipolitica’. Al di là di questo aspetto, la ricerca di Almagisti ha comunque parecchi meriti, il primo dei quali è il tentativo di articolare efficacemente l’indagine teorica sulla democrazia di qualità (e sulle sue basi) con un’analisi empirica puntuale, centrata sulle trasformazioni delle subculture locali. Un altro merito consiste nel considerare il capitale sociale come una dimensione complessa, il cui rapporto con le istituzioni democratiche non è né stabile nel tempo, né sempre necessariamente positivo (come mostra in modo emblematico il caso del Veneto). C’è inoltre un altro elemento interessante nello studio di Almagisti, che riguarda il modo di studiare la ‘cultura politica’ di un sistema locale. A differenza di una tradizione cospicua, Almagisti (seguendo in questo caso alcune importanti indicazioni di Percy Allum), ritiene che la ‘cultura politica’ non possa essere distinta dall’insieme della ‘cultura’ di un contesto locale. Ma, soprattutto, ritiene che la fisionomia interna di una ‘subcultura’ possa essere ricostruita solo con una prospettiva centrata sulla dimensione locale, in grado di cogliere l’importanza degli elementi simbolici, delle identità collettive, dell’ethos di una comunità: elementi che peraltro non sono affatto elementi ‘cristalizzati’, ereditati dal passato e conservato nel tempo, bensì elementi in costante trasformazione, che influiscono sui mutamenti istituzionali.
È d’altronde proprio l’attenzione ai valori, e a ciò che Giovanni Sartori chiamava ‘capitale assiologico’, a caratterizzare caratterizzare l’indagine di Almagisti e a costituirne l’aspetto di maggiore originalità nell’ambito delle indagini sulla «qualità della democrazia». Proprio questa intuizione consente infatti di comprendere come alla base di una democrazia non stia solo un insieme di procedure, ma anche una dotazione di ‘capitale assiologico’. Una dotazione che influisce sul modo di intendere quelle procedure, e, dunque, sui mutamenti nei confini, negli obiettivi e nelle stesse condizioni di un regime democratico.
Damiano Palano
Marco Almagisti, La qualità della democrazia in Italia. Capitale sociale e politica, Carocci, Roma, 2009, pp. 368.
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