mercoledì 29 giugno 2011

Rileggere "Lavoro ai fianchi". Un 'noir' anticipatore sull'Italia degli anni Settanta


di Damiano Palano



Una versione diversa di questo testo è apparsa sul blog «La revisione».

Negli ultimi decenni, il noir italiano è diventato qualcosa di più che un genere d’intrattenimento premiato dal pubblico. Sempre di più, è emerso infatti un tratto specifico, che contrassegna la produzione degli autori italiani, e che difficilmente si ritrova nei libri degli stranieri, ossia il tentativo di confrontarsi con la storia del nostro paese. Non soltanto, dunque, con le ‘storie’, con gli intrecci costruiti dalla fantasia degli scrittori, ma proprio con la ‘Storia’, con le vicende pubbliche, le trame ‘occulte’, gli eventi che hanno segnato l’immaginario collettivo. Da questo punto di vista, i casi significativi sono molti, e cercando di farne un inventario si corre inevitabilmente il rischio di dimenticare più di qualcuno. Ma, per esempio, Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo (Einaudi), un libro premiato da un successo straordinario (e forse anche inaspettato), non è solo una narrazione epica, e romanzata, della parabola criminale della ‘banda della Magliana’, perché in realtà incrocia alcuni episodi cruciali della storia politica italiana fra gli anni Settanta e Ottanta (il sequestro Moro, l’omicidio Pecorelli, la strage di Bologna del 1980, lo scandalo della P2), proponendo persino una chiave di lettura. Muovendosi sulla stessa linea, ma sviluppando un discorso autonomo, anche il recente Milano criminale, il romanzo dedicato da Paolo Roversi alla ‘mala milanese’ (Rizzoli), non si limita a seguire le avventure di personaggi come Luciano Lutring, Pietro Cavallero e Renato Vallanzasca, ma cerca di fare qualcosa di più: con una cura particolare, segue in parallelo l’ingresso di Milano nella stagione del boom e la mutazione genetica della malavita milanese, intersecando i due piani del ‘sottosuolo’ criminale e della scena pubblica, persino quando questa scena viene occupata dalla contestazione e dai cortei operai. E, come De Cataldo, anche Roversi - in quello che ha definito come una sorta di 'romanzo storico' sulla malavita milanese - propone, in qualche caso, una lettura originale di alcuni casi rimasti irrisolti, o senza colpevoli. In entrambi questi casi – ma l’elenco potrebbe continuare – il noir acquisisce una sfumatura diversa, e la narrazione assume i tratti della docu-fiction, come avveniva d’altronde in Strage: il romanzo che Loriano Macchiavelli – uno dei pionieri del noir italiano, il creatore di Antonio Sarti – dedicò alla strage del 2 agosto 1980, e che fu pubblicato la prima volta, con uno pseudonimo, nel 1990 (ma recentemente è stato riproposto da Einaudi),.
A spingere in questa direzione il noir italiano sono probabilmente varie componenti. In primo luogo, c’è quella sorta di ossessione per la politica, che fa sì che nell’immaginario degli italiani le appartenenze politiche siano – quasi in ogni momento della vicenda nazionale – onnipresenti e al tempo stesso laceranti. Proprio una simile ‘ossessione’ contribuisce a rendere così diverso il noir italiano da quello di altri paesi europei e, ovviamente, dal noir americano, mentre, forse, lo avvicina di più alla sensibilità di altri autori latini (e un nome su tutti è naturalmente quello del catalano Manuel Vázquez Montalbán). Ma, accanto a una simile componente, c’è anche la convinzione – altrettanto radicata nella sensibilità italiana – che, oltre allo scontro (e all’incontro) delle passioni collettive, la politica sia inevitabilmente, necessariamente, legata all’intrigo, alla congiura di palazzo, alle trame oscure, al mistero che si nasconde nelle segrete stanze del ‘Potere’. Che, proprio per questo, il noir possa inserirsi nello spazio dei misteri lasciati insoluti dalle inchieste giudiziarie, che l’interstizio fra il sospetto e il mistero possa essere colmato da una trama verosimile. E che, dunque, il noir possa diventare anche un modo per fornire una lettura diversa della Storia italiana.
Sebbene negli ultimi anni le incursioni nella Storia siano diventate frequenti, tanto da costituire quasi una sorta di genere autonomo, la vocazione ‘politica’ è in qualche modo innestata nello stesso codice genetico del noir italiano. In effetti, è piuttosto agevole rintracciare una fonte di ispirazione fondamentale – se non proprio un modello – in romanzi come A ciascuno il suoIl contesto o Todo modo, in cui Leonardo Sciascia trasformava una trama poliziesca in un’indagine – dalle sfumature persino ‘metafisiche’ – sul ‘Potere’ e sul suo (inafferrabile) mistero. Ma, forse, ancora più importante, per la definizione dell’immaginario del noir contemporaneo, è la cinematografia della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta. Proprio nei film di quel periodo, infatti, il noir e la politica iniziano a intrecciarsi, e, soprattutto, contribuiscono a costruire una sorta di nuovo genere, o, forse, si potrebbe dire (utilizzando la terminologia di Pierre Bourdieu), a definire un nuovo ‘sottocampo’ culturale, quello del «cinema di denuncia civile»: un sottocampo frequentato sia dagli ‘autori’, ossia dal cinema cui pubblico e critica riconoscono uno status elevato, sia dagli ‘artigiani’ del cinema di genere. Probabilmente, il vero punto di avvio può essere individuato, dopo le trasposizioni cinematografiche del Giorno della civetta e di A ciascuno il suo, nell’Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, un film che sviluppa spunti molto diversi, ma in cui è anche ravvisabile l’eco della strage di Piazza Fontana e della morte di Giuseppe Pinelli. Dopo l’Indagine, la denuncia politica si intreccia sempre più spesso con un cinema poliziesco dai contorni ancora incerti. Da un lato, il cinema d’autore si avvicina in parte al cinema di genere, non solo con i film di Francesco Rosi, ma anche con film come Imputazione di omicidio per uno studente, di Mauro Bolognini, o come Sbatti il mostro in prima pagina, uno dei prodotti più ‘commerciali’ (ma forse anche più riusciti) di Marco Bellocchio. Ma, dall’altro, un genere che non ha assunto ancora i caratteri del ‘poliziottesco’ (o almeno di quel filone del poliziottesco legato ai ‘commissari di ferro’) esplora i rapporti oscuri fra il potere e il crimine e, soprattutto, sviluppa il motivo del ‘complotto’ ordito dentro il Palazzo: un motivo ovviamente popolarizzato dalle tante inchieste sulla «strage di Stato» e sui tentativi di golpe militare. A partire da La polizia ringrazia di Steno, l’idea che un certo mondo criminale risponda a un livello di comando collocato proprio dentro le istituzioni viene declinata – in modo più o meno convincente – da film, esplicitamente commerciali, come il celebre Milano trema: la polizia vuole giustizia, di Sergio Martino, La polizia accusa: il servizio segreto uccide, dello stesso Martino, La polizia sta a guardare, di Roberto Infascelli, La polizia interviene: ordine di uccidere, di Giuseppe Rosati, e persino Poliziotti violenti, di Michele Massimo Tarantini. 
La grande stagione del cinema di genere italiano – una stagione che era cominciata più o meno al principio degli anni Sessanta, con i film western di Sergio Leone e Duccio Tessari, ma anche con gli horror di Riccardo Freda, Mario Bava e Antonio Margheriti – si conclude però verso la fine degli anni Settanta. E anche il ‘poliziottesco’ si dissolve rapidamente, schiacciato da un lato dalla crisi del settore, e, dall’altro, dalla mutazione che – come era avvenuto per il western – tinge il nero delle trame poliziesche dei toni lievi della commedia. Ma è proprio in questo momento che lo spazio del noir, lasciato libero dal cinema, viene almeno in parte occupato da una narrativa ‘gialla’, che in Italia ha avuto espressioni ancora solo sporadiche. Il grande successo della Donna della domenica di Fruttero & Lucentini non si può dire infatti abbia inaugurato un genere, anche se certo esercita – ed è comprensibile – un’influenza straordinaria ancora oggi. Ma sono invece romanzi come quelli di Macchiavelli, Renato Olivieri e Attilio Veraldi ad aprire realmente, verso la fine degli anni Settanta, quel piccolo spazio letterario, e anche editoriale, che negli anni seguenti si dilata lentamente, prima di esplodere due decenni dopo. Ed è in questo spazio che si colloca Lavoro ai fianchi. Alcuni giorni nella vita del commissario Luigi Longo, un romanzo noir scritto da Marco Lombardo-Radice e Luigi Manconi, pubblicato nel 1980 da Mondadori e riproposto, alcuni mesi fa, dall’editore Il Maestrale di Nuoro (pp. 253, euro 17.00). Anche per questo, Lavoro ai fianchi può essere così considerato come testimonianza di un genere ancora cerca di un’identità, o come esempio del tentativo di trasferire sulla pagina temi e situazioni fino ad allora sfruttati dal cinema. Ma Lavoro ai fianchi è interessante anche perché può essere riletto come un esperimento che anticipa molti dei motivi coltivati oggi dal noir italiano, e soprattutto l’idea – così suggestiva e così fortunata – di un intreccio fra Storia collettiva e storie individuali. 
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L’eterno revival. Il mondo impolitico di Walter Veltroni (e altri frammenti sulla memoria italiana)









sabato 25 giugno 2011

La scienza del globale. Il "Paradigma geopolitico" di Emidio Diodato



di Damiano Palano

Negli ultimi decenni, la rinnovata attenzione per la geopolitica non è sempre stata accompagnata dal necessario rigore analitico e metodologico. All’ampia diffusione del termine (soprattutto nel lessico giornalistico), non corrispondono infatti né una chiara definizione di cosa sia effettivamente la «geopolitica», né una nitida e condivisa visione delle connessioni fra la politica e la dimensione geografica. Il volume di Diodato tenta proprio di rispondere a un’esigenza di chiarificazione che, da un lato, metta ordine in un dibattito vasto ma spesso disorganico, e, dall’altro, individui gli elementi di un vero e proprio «paradigma geopolitico». «L’obiettivo del libro», scrive infatti Diodato, «è delineare un paradigma geopolitico per poter giungere – mediante una prospettiva politologica – alla descrizione di uno scenario plausibile delle relazioni internazionali contemporanee, in virtù della capacità dei principali centri di potere (o poli) di garantire un equilibrio legittimo e un concreto ordinamento politico del globo terrestre» (p. 10).
Al centro del primo capitolo è proprio il problema della definizione della geopolitica, e, a questo proposito, Diodato non può che confrontarsi con i molteplici – e spesso ambigui – utilizzi del termine. Rifiutando alcune proposte che ritiene eccessivamente riduttive (come quella avanzata da Yves Lacoste), avanza una definizione secondo cui la geopolitica si qualifica come «scienza del globale» e coincide con «lo studio delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale o geografica in quanto volto alla comprensione del mondo come un tutto e alle condizioni di un concreto ordinamento politico del globo terreste» (p. 21). All’origine, la riflessione geopolitica prende forma infatti con l’obiettivo preciso di «analizzare le possibilità di un concreto ordinamento post-eurocentrico del globo terrestre» (p. 14), ma il cruciale riferimento alla dimensione globale non viene mai meno, e continua così a caratterizzare il paradigma geopolitico nel corso del suo sviluppo.
Il secondo capitolo cerca invece di valutare se sia oggi possibile parlare di un «equilibrio geopolitico». Ponendosi questo interrogativo, l’a. riconsidera problematicamente la nozione di equilibrio, concettualmente distinta da quella di bilanciamento, e sostiene che il moderno concetto di equilibrio è strettamente legato tanto al principio di sovranità territoriale quanto al modello vestfaliano. In sostanza, secondo Diodato, con il principio della sovranità territoriale viene introdotto un inedito ed eccezionale elemento di «artificialità»: un elemento che, in particolare, consente di «individuare uno standard o una misura capace di garantire in Europa occidentale un efficace funzionamento della bilancia, poiché territori con pesi differenti, ma tutti ugualmente separati dal resto del mondo (da qui il loro peculiare isomorfismo) furono posti sullo stesso piano» (p. 77). La crisi dell’equilibrio vestfaliano non può dunque che scaturire dal tramonto dello jus publicum europaeum, anche se, secondo Diodato, l’equilibrio inizia storicamente a mostrare segnali di disgregazione già in corrispondenza con le guerre napoleoniche. Il punto rilevante è però che, oggi, l’unico modo per ripensare realisticamente la nozione di equilibrio consiste nell’abbandonare il riferimento al principio di territorialità (come dimensione concettuale, oltre che come presupposto di legittimità) e nel focalizzarsi invece sulle condizioni di stabilità fra centri di potere. «Nell’età globale», osserva infatti, «un equilibrio legittimo potrebbe scaturire soltanto dal reciproco riconoscimento tra centri di potere della loro effettiva capacità e quindi del diritto a governare – entro i propri grandi spazi – i problemi dello sviluppo e della sostenibilità ambientale» (p. 103).
La medesima prospettiva indirizza anche il terzo capitolo, in cui Diodato si confronta con i contributi della geopolitica ‘classica’ di Haushofer, Kjellen, Mackinder, Mahan, Ratzel, oltre che con la riflessione più recente, che si distanzia criticamente dalle visioni deterministe della geografia. Intuizioni fondamentali, che anticipano la traiettoria imboccata dal dibattito geopolitico contemporaneo, possono essere però rintracciate nella riflessione internazionalistica di Carl Schmitt. Il riferimento ai «grandi spazi» costituisce d’altronde un’esplicita ripresa del pensiero del giuspubblicista tedesco, e così, nel quarto capitolo, mentre cerca di articolare uno «scenario plausibile delle relazioni internazionali contemporanee», Diodato utilizza proprio la nozione schmittiana di Großraum, seppur sensibilmente rivisitata.
In linea generale, l’a. individua tre grandi parametri per costruire alcuni scenari geopolitici: a) il parametro geoculturale, secondo cui «la polarità internazionale è il prodotto congiunto della potenza degli Stati e della costruzione di identità politiche sovranazionali» (p. 174); b) il parametro geostrategico, che assegna una priorità alla gestione strategica di aree ricche di risorse ernergetiche, oltre che allo sfruttamento strategico dello spazio aereo ed extra-atmosferico; c) il parametro geoeconomico, relativo alla ridefinizione dei centri propulsivi dell’economia globale (e dei rapporti fra centro e periferie). Ma è soprattutto verso una riformulazione dell’ipotesi dei «grandi spazi» – intesi come grandi poli regionali – che si indirizzano gli sforzi di Diodato. La prospettiva dei grandi spazi, secondo l’a., è in grado infatti di ridefinire le condizioni per pensare l’ordine nel sistema internazionale, nella misura in cui consente di concepire la polarizzazione del sistema come effetto, da un lato, di una determinata distribuzione del potere materiale e sociale, e, dall’altro, del riconoscimento sociale come fondamento di legittimità. Più specificamente, Diodato propone l’idea di una polarità complessa, all’interno della quale i poli regionali sono contenuti in poli globali, capaci di ridurre la complessità del sistema. Si tratta di un’ipotesi focalizzata su tre dimensioni complementari: i) la metropoli-mondo, che rappresenta lo spazio economico globale e vede al proprio interno una stratificazione di centri e periferie; ii) la polarità globale, centrata sugli Usa e, in via ancora solo tendenziale, sulla Cina; iii) la polarità regionale, che prevede che alcuni paesi (per esempio, il Brasile) possano conquistare un ruolo di polo regionale, non in competizione con il polo globale statunitense. Ma quest’ultima eventualità coinvolge la stessa Unione Europea, perché Diodato, nelle pagine conclusive, evoca anche la possibilità che l’Europa assuma i contorni di un «grande spazio euro-mediterraneo» – in grado di coniugare «egemonia politica sovranazionale, razionalizzazione amministrativa e partecipazione democratica» – oltre che, soprattutto, la funzione di «terzo equilibratore» (p. 262).
Al di là delle ipotesi formulate – in modo peraltro estremamente cauto – da Diodato, il merito del suo testo sta, senza dubbio, nella capacità di tornare a riflettere sulla costruzione di un «paradigma geopolitico» e di accogliere le sollecitazioni provenienti da quella riflessione critica sullo spazio che, almeno a partire dagli anni Settanta, ha coinvolto le scienze sociali. Un ulteriore motivo di interesse del volume è inoltre costituito dal tentativo di abbandonare l’idea che le logiche geopolitiche debbano essere intese come contraddittorie, o contrastanti, con quelle sottese ai processi di globalizzazione, e dunque con la complessa realtà della metropoli-mondo. E proprio per questi motivi, è facile prevedere che molte delle categorie utilizzate da Diodato siano destinate ad accompagnare nel prossimo futuro la discussione sulle trasformazioni del sistema internazionale.

Emidio Diodato, Il paradigma geopolitico. Le relazioni internazionali nell’età globale, Meltemi, Roma, 2010, pp. 287, euro 22.00.

(Questo testo è apparso, in una versione differente, sulla "Rivista Italiana di Scienza Politica", n. 1, 2011)


venerdì 24 giugno 2011

lunedì 20 giugno 2011

Una foto in Via De Amicis. L'immagine icona degli «anni di piombo»



di Damiano Palano


Nel corso dei decenni, l’espressione «anni di piombo» - entrata nel nostro lessico dopo il film omonimo di Margarethe von Trotta – è andata progressivamente a identificare quel lungo periodo della storia italiana che inizia con il 1968 e giunge fino all’inizio degli anni Ottanta. Nel dibattito pubblico, e nella memoria collettiva, la durata degli «anni di piombo» si è così progressivamente dilatata. Ha cessato di identificare soltanto la stagione del terrorismo e della lotta armata – quel periodo in cui il conflitto sociale e politico si trasforma in una dolorosa, nichilista, «guerra civile a bassa intensità» - ed è diventato qualcosa di più, la formula con cui rappresentare un decennio di follia, in cui l’Italia si muta in una fucina di violenza incontrollabile, di odio viscerale, di follia ideologica. Una simile dilatazione distorce, almeno in parte, la realtà. Quantomeno perché, proprio negli anni a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, l’Italia vive forse uno dei periodi più vivaci della sua storia, una stagione di straordinaria creatività pressoché in tutti campi della sua vita culturale. Ovviamente, l’Italia di quel periodo è anche un paese lacerato da fortissime passioni politiche, da tensioni ideologiche capaci di investire in profondità la vita quotidiana, e che in modo non episodico hanno anche risvolti violenti. Ma gli «anni di piombo» - gli anni in cui, effettivamente, le armi, lo scontro militare, la simulazione della guerra civile, si impadroniscono del proscenio – cominciano solo sul finire di quella stagione, e si consumano, tra omicidi, esecuzioni, delazioni e vendette, tra la fine degli anni Settanta e il principio degli anni Ottanta.
Con ogni probabilità, il 16 marzo 1978 - con la strage di Via Fani - e il 9 maggio 1978 - con l’esecuzione di Aldo Moro - rappresentano in modo inequivocabile l’ingresso in quella drammatica fase. Ma, prima ancora di quei giorni tragici, e prima ancora che le Polaroid di Moro prigioniero delle Br vengano a fissare per sempre il ritratto emotivo di un’epoca, un’altra foto – anch’essa celebre, e legata a un evento altrettanto tragico – riesce a restituire il momento preciso in cui hanno inizio gli «anni di piombo», e in cui finisce la stagione di mobilitazione collettiva incominciata un decennio prima. Quella foto ritrae un estremista con il volto coperto da un passamontagna, che, con le gambe divaricate e leggermente piegate, e con le braccia distese orizzontalmente, stringe fra le due mani una pistola, puntata verso un obiettivo che rimane fuori dall’inquadratura.
Nel corso del tempo, quella foto si è impressa nell’immaginario collettivo ed è diventata l’«immagine-icona» degli «anni di piombo», perché, come altre foto celebri del Novecento (alcune delle quali si possono ritrovare nel recente volume di Hans-Michael Koetzler, 50 icone della fotografia. Le storie degli scatti, Taschen, pp. 304, euro 19.99), riesce a fissare per sempre, o qualche volta a ‘costruire’, una condizione emotiva. Non è d’altronde eccezionale o fortuito che la memoria degli «anni di piombo» sia condensata in quel fotogramma, o nelle Polaroid di Moro. «Per quanto l’800 sia il secolo in cui la fotografia è nata», ha scritto Marco Belpoliti, «è nel ‘900 che il valore d’icona delle foto diventa centrale, per via della diffusione degli apparecchi di riproduzione, e della stampa delle foto in giornali e periodici, delle mostre e dei libri». Così, «diventa naturale affidare alla fotografia la memoria del passato», «elevare un’immagine a simbolo stesso degli avvenimenti», perché, come i ‘simboli’, una foto è in grado «di ‘mettere insieme’, quello che è accaduto e la comprensione immediata del fatto» (Quando uno scatto diventa un’icona, in «Tuttolibri – La Stampa», 18 giugno 2011, p. VI).
Per la prima volta, quella fotografia divenuta «icona» e «simbolo» venne pubblicata il 16 maggio 1977 dal «Corriere d’Informazione», e nei giorni seguenti fu ripresa da molti altri giornali, in Italia e estero. Nei trent’anni successivi, quell’immagine è stata d’altronde riprodotta migliaia di volte, non soltanto perché, molto più di ogni editoriale o di ogni altro resoconto giornalistico, riesce a dar conto della realtà di una violenza incontrollabile, estrema. Ma anche perché, indubbiamente, si tratta di una fotografia esteticamente formidabile, tanto da suscitare persino il dubbio che sia in qualche modo artefatta o costruita. Questi caratteri non passarono inosservati a Umberto Eco, che, pochi giorni dopo la prima pubblicazione, nella propria rubrica sull’«Espresso», esaminò la fotografia. «Se è lecito (ma è doveroso) fare osservazioni estetiche in casi del genere», scriveva Eco, «questa è una di quelle che foto che passeranno alla storia e appariranno su mille libri» (Una foto, raccolto in Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano, 1983). Quella foto aveva infatti gli stessi elementi di altre celebri immagini, come quella del miliziano ucciso di Robert Capa, quella dei marines che piantano la bandiera su un isolotto del Pacifico, o quella del cadavere di Che Guevara. «Ciascuna di queste immagini» - continuava Eco - «è diventata un mito ed ha condensato una serie di discorsi. Ha superato la circostanza individuale che l’ha prodotta, non parla più di quello o di quei personaggi singoli, ma esprime dei concetti. È unica ma al tempo stesso rimanda ad altre immagini che l’hanno preceduta o che l’hanno seguita per imitazione. Ciascuna di queste foto sembra un film che abbiamo visto e rimanda ad altri film che l’avevano vista» (ibidem). Ma la fotografia pubblicata dal «Corriere d’Informazione» non si limitava a fissare un gesto, un’azione criminale. Al tempo stesso, ‘diceva’ qualcosa di più e di nuovo, contribuiva alla costruzione di un ‘ragionamento’. «Non interessa sapere se si trattava di una posa (e quindi di un falso); se era invece la testimonianza di un atto di spavalderia cosciente; se è stata l’opera di un fotografo professionista che ha calcolato il momento, la luce l’inquadratura; o se si è fatta quasi da sola, scattata per caso da mani inesperte e fortunate. Nel momento in cui essa è apparsa il suo iter comunicativo è cominciato: e ancora una volta il politico e il privato sono stati attraversati dalle trame del simbolico che, come sempre accade, si è dimostrato produttore di realtà» (ibidem). In altre parole – ed era questa la tesi principale di Eco – la fotografia dello sparatore rivelava il passaggio dall’immagine della rivoluzione consolidata dall’iconografia (e dunque dall’idea della rivoluzione come fatto collettivo) a qualcosa di diverso, all’immagine di un’azione individuale e al modello dell’eroe solitario: «Cosa ha ‘detto’ la foto dello sparatore di Milano? Credo abbia rivelato di colpo, senza bisogno di molte deviazioni discorsive, qualcosa che stava circolando in tanti discorsi, ma che la parola non riusciva a far accettare. Quella foto non assomigliava a nessuna delle immagini in cui si era schematizzata, per almeno quattro generazioni, l’idea di rivoluzione. Mancava l’elemento collettivo, vi tornava in modo traumatico la figura dell’eroe individuale. E questo eroe individuale non era quello della iconografia rivoluzionaria, che quando ha messo in scena un uomo solo lo ha sempre visto come vittima, agnello sacrificale: il miliziano morente o il Che ucciso, appunto. Questo eroe individuale invece aveva la posa, il terrificante isolamento degli eroi dei film polizieschi americani (la Magnum dell’ispettore Callaghan) o degli sparatori solitari del West – non più cari a una generazione che si vuole di indiani. Questa immagine evocava altri mondi, altre tradizioni narrative e figurative che non avevano nulla a che vedere con la tradizione proletaria, con l’idea di rivolta popolare, di lotta di massa. Di colpo ha prodotto una sindrome di rigetto. Essa esprimeva il seguente concetto: la rivoluzione sta altrove e, se anche è possibile, non passa attraverso questo gesto ‘individuale’» (ibidem).
A trentaquattro anni di distanza, il contesto in cui nacque quel celebre scatto viene oggi restituito da Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, un volume ricco di illustrazioni, curato da Sergio Bianchi (Derive Approdi, pp. 166, euro 20.00). Quel fotogramma ritraeva infatti un momento delle sequenze più drammatiche di una manifestazione che si svolse a Milano, il 14 maggio 1977, in occasione della quale, in via De Amicis, un piccolo gruppo di manifestanti innescò uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine. La sparatoria provocò la tragica morte di Antonio Custra, venticinquenne Vice Brigadiere di Pubblica Sicurezza, che lasciava la giovane moglie in attesa di una figlia.
Il volume curato da Bianchi riporta un cospicuo materiale iconografico – tra cui spiccano gli scatti relativi proprio ai sessanta secondi di follia della sparatoria contro gli agenti – che aiuta a comprendere non solo la dinamica dei fatti, o i restroscena di una celebre fotografia, ma anche da cosa nascesse quell’attacco, e dunque quali fossero le motivazioni che condussero una parte (marginale, ma non minoritaria) dell’estrema sinistra ad abbandonare, di fatto, la piazza e la mobilitazione per impugnare le armi da fuoco e indirizzarsi verso lo scontro armato. E, anche per questo, Storia di una foto considera quegli eventi come il culmine di un crescendo che era iniziato alcuni mesi prima. In effetti, quella milanese del 14 maggio non fu la prima manifestazione in cui facevano la loro comparsa le pistole. Un momento di snodo, da questo punto di vista, era stata la manifestazione romana del 12 marzo 1977: una manifestazione indetta all’indomani dell’uccisione a Bologna del militante di Lotta continua Francesco Lorusso da parte delle forze dell’ordine, che vide sfilare nella capitale decine di migliaia di persone, e in cui, oltre alle bottiglie Molotov, furono utilizzati in modo massiccio pistole e persino fucili. Quello stesso giorno, a Milano un corteo giunse sotto la sede di Assolombarda, in via Pantano, scaricando pallottole e bottiglie incendiarie contro le vetrate del palazzo deserto.
Se quel giorno non si registrarono vittime, due mesi dopo, il 12 maggio, le cose andarono diversamente. Nel corso di una festa indetta dal Partito radicale per celebrare l’anniversario del referendum sul divorzio (e per sfidare il divieto di manifestazioni politiche stabilito per la città di Roma dall’allora Ministro degli Interni Francesco Cossiga), alcuni colpi sparati da agenti in borghese uccisero la studentessa diciannovenne Giorgiana Masi. Proprio in questo clima, ulteriormente arroventato dall’arresto di due noti avvocati di Soccorso Rosso, le diverse formazioni della sinistra extra-parlamentare milanese decisero di organizzare una manifestazione di protesta per il successivo sabato 14 maggio. Tra i promotori, erano comprese tutte le diverse anime dell’estrema sinistra, e dunque anche ciò che rimaneva dei ‘gruppi’, come Lotta continua, ormai in via dissoluzione dopo la batosta elettorale del 20 giugno 1976 e lo scioglimento di qualche mese dopo, e il Movimento del Lavoratori per il Socialismo, l’organizzazione di impostazione stalinista, nota soprattutto per il suo servizio d’ordine quasi paramilitare, che raccoglieva in parte l’eredità del vecchio Movimento Studentesco di Mario Capanna. All’interno di questa galassia, in via di rapido disfacimento, un ruolo rilevante era però rappresentato anche da quanto rimaneva dei collettivi studenteschi e dei collettivi giovanili, un movimento magmatico ed eterogeneo che, alcuni anni prima, aveva ottenuto una forte visibilità, ma che, dopo le esperienze disastrose del Festival del Parco Lambro e della contestazione della Prima della Scala, nel dicembre del 1976, ormai aveva anch’esso imboccato la china discendente. A tentare di esercitare una funzione di indirizzo su forze così eterogenee, si muovevano, in costante competizione, alcune organizzazioni più o meno informali, che in genere venivano ricomprese all’interno della cosiddetta ‘area dell’autonomia’. In particolare, Paolo Pozzi ne individua tre diverse componenti: in primo luogo, il collettivo del Casoretto, il cui servizio d’ordine esprimeva ancora una struttura piuttosto consolidata; in secondo luogo, il gruppo di Rosso, legato all’omonimo giornale, nato alcuni anni prima dalla confluenza di anime molto diverse, che nel corso degli anni si era fatto portavoce sia degli organismi autonomi di alcune fabbriche milanesi, sia dei collettivi giovanili (e delle loro istanze ‘controculturali’); infine, la formazione raccolta attorno al foglio «Senza Tregua», nata in gran parte da una scissione da Lotta continua e promossa da gruppi di operai della Magneti Marelli, dell’Innocenti e di altre fabbriche milanesi (e dalla quale, pochi mesi più tardi, avrebbe preso forma il gruppo armato Prima Linea).
A dispetto della complessità degli schieramenti, nel maggio del 1977 gran parte di queste formazioni appariva ormai in seria difficoltà, sia perché le inchieste giudiziarie avevano iniziato a colpire i leader più noti, sia perché l’escalation del livello dello scontro aveva sfoltito notevolmente la schiera dei militanti. Ma proprio questa situazione di oggettivo sfaldamento fu all’origine della sparatoria che, il 14 maggio, ebbe come teatro via De Amicis. Privo ormai di una autentica strategia, e anche di qualsiasi capacità di mediazione, un gruppo come Rosso si trovò di fatto imprigionato fra la necessità di evitare che la violenza si indirizzasse contro lo Stato (ossia, contro le forze dell’ordine) e l’impossibilità di rinnegare l’esaltazione della violenza. Un’esaltazione della violenza che «Rosso», sulle sue pagine, aveva coltivato in modo sempre più ambiguo nel corso del tempo, nel tentativo di non perdere la guida sulle frange estreme, ormai indirizzate verso la lotta armata. Al tempo stesso, trovavano uno spazio sempre maggiore le iniziative, ormai da qualsiasi progetto politico, portate avanti da alcuni componenti dei collettivi di quartiere, i cui membri erano spesso studenti delle scuole superiori. E fu in effetti proprio il Collettivo Romana-Vittoria – composto da giovanissimi come Marco Barbone, allora diciannovenne – a essere protagonista della folle sparatoria del 14 maggio. Se due mesi prima, in occasione dell’assalto alla sede di Assolombarda, la violenza si era diretta solo contro le cose, il 14 maggio l’obiettivo divenne infatti tragicamente diverso.
Da quanto emerge dalle carte processuali, riassunte nel resoconto di Bianchi, la sparatoria di via De Amicis non fu premeditata, anche se era stata pianificata un’azione contro il carcere di San Vittore. Se, dinanzi al carcere, il corteo era sfilato senza incidenti di rilievo (per l’intervento, pare, dell’ex leader di Potere Operaio Oreste Scalzone), l’incontro fortuito con una colonna di polizia del III° Celere, proveniente da via Molino delle Armi e diretta alla caserma di Sant’Ambrogio, offrì invece alla ‘squadra armata’ Romana-Vittoria l’occasione per un attacco contro le forze dell’ordine. Mentre il corteo transitava da via Olona verso via Carducci, una piccola pattuglia di giovani mascherati, armati di pistole e Molotov, imboccò via De Amicis per una cinquantina di metri, arrivando fino all’altezza dell’incrocio con la piccola via Caroccio. A un primo lancio di bottiglie incendiarie, attribuito dalla ricostruzione giudiziaria ad alcuni studenti dell’Istituto Cattaneo, seguirono i colpi di arma da fuoco, che, sempre secondo la sentenza definitiva, furono esplosi dalla componente armata del collettivo Romana-Vittoria, e in particolare da Marco Barbone, Enrico Pasini Gatti, Giuseppe Memeo, Marco Ferrandi e Luca Colombo. Ed è proprio a questi attimi che si riferisce il celebre scatto diventato l’immagine icona degli «anni di piombo». Il gruppo degli armati fu infatti seguito in via De Amicis da una pattuglia di ben cinque fotografi – Dino Fracchia, Paolo Pedrizzetti, Paola Saraceni, Marco Bini e Antonio Conti – che ripresero, da diverse prospettive, i circa sessanta secondi dell’attacco armato. E Pedrizzetti, posizionato sul marciapiede di destra, fissò il momento cui il giovane incappucciato – in cui in seguito verrà riconosciuto Memeo – sparò in direzione della polizia, con le braccia unite e le gambe piegate.
Della foto scattata da Pedrizzetti, il grande pubblico conosce non tanto la versione pubblicata dal «Corriere d’Informazione», quanto soprattutto una versione in gran parte tagliata, in cui appare quasi esclusivamente il giovane incappucciato. Era forse a questa versione che Eco si riferiva, perché in questo taglio risultano del tutto assenti non solo la folla dei manifestanti, che fugge lontano dal luogo della sparatoria, ma anche gli altri fotografi, che, posizionati esattamente dalla parte opposta della strada, ritraggono la medesima scena da una prospettiva diversa. Ora, nel libro curato da Bianchi, sono riprodotte tutte le fotografie scattate in quei momenti da Pedrizzetti, e dunque è possibile ricostruire i diversi momenti precedenti e successivi alla sparatoria. Ma nel volume sono presenti anche altri scatti, altrettanto importanti per ricostruire la dinamica dei fatti.
La storia di queste foto va d’altronde al di là del semplice interesse storiografico, perché ha avuto dei risvolti importanti anche nella vicenda giudiziaria. La ricerca del responsabile non si rivelò infatti così agevole, non tanto perché non fosse stato piuttosto semplice ricostruire l’identità dei protagonisti (soprattutto dopo il pentimento di alcuni di loro), quanto per l’accertamento delle responsabilità dei singoli nella morte di Custra e nel ferimento di alcuni passanti. Certamente, gli scatti di Pedrizzetti dovettero facilitare il lavoro degli inquirenti, e anche la registrazione della cronaca effettuata in diretta da Radio Canale 96 (la cui trascrizione è riprodotta nel libro) chiarì non poco la dinamica dei fatti. Ciò nonostante, alcuni degli indagati contestarono la ricostruzione dei giudici. Ma, soprattutto, le perizie balistiche scagionarono Memeo, il principale imputato, dall’accusa di avere ucciso il Vice-Brigadiere. Come in una nuova versione di Blow-up, la verità doveva essere cercata proprio nelle fotografie di quei momenti. Non solo in quelle di Pedrizzetti, ma anche negli scatti degli altri fotografi presenti il 14 maggio in via De Amicis. Poco dopo i fatti, gli inquirenti sequestrarono i negativi al fotografo Fracchia, ma non riuscirono a trovare quelli di Conti, il fotografo che, nel momento in cui Pedrizzetti fissava lo sparo di Memeo, si trovava sul marciapiede opposto di via De Amicis, parzialmente riparato dagli alberi. Quei negativi e quelle foto riemersero solo molti anni dopo, in seguito a una perquisizione dell’abitazione di Conti, e sono anch’essi riportati nel libro. Proprio grazie ai negativi di Conti – l’unico dei fotografi politicamente vicino ai manifestanti, che proprio per questo non consegnò i negativi – fu possibile ricostruire con maggiore chiarezza gli eventi. «I suoi scatti (ben 28 negativi) non furono mai pubblicati: finirono in un cassetto, riposti nel segreto e nella clandestinità. E, anzi, dodici anni dopo, come ha scritto il giudice Guido Salvini, sono state proprio quelle fotografie, dopo una perquisizione a casa di Conti, a trasformarsi in altrettante prove risolutive per fissare i termini processuali di tutto l’episodio» (G. De Luna, Controscatto, in «alfalibri – alfabeta 2», n. 2, giugno 2011, p. 3).
Al di là della vicenda giudiziaria, quegli scatti costituiscono comunque – per l’osservatore e per lo storico di oggi – un materiale di straordinario interesse. D’altronde, come ha osservato il curatore: «l’intento del libro non era un ‘effetto Blow-up’, cioè far dire alle immagini il contrario di quanto detto sinora riguardo alla dinamica degli avvenimenti. Oltre al taglio dell’inquadratura, c’è la situazione di quel tempo» (Storia di ‘Storia di una foto’. Conversazione fra Sergio Bianchi e Andrea Cortellessa, in «alfalibri – alfabeta 2», n. 2, giugno 2011, p. 3). E la «situazione del tempo» coinvolge, retrospettivamente, la lettura che Eco fornì a caldo della celebre foto di Pedrizzetti. A ben vedere, infatti, quello del giovane incappucciato non appare più come un «gesto isolato», ma come un gesto – ovviamente folle, insensato, incosciente – che si inserisce in un determinato contesto, nel quadro di una dimensione collettiva, non solo rappresentata dal corteo in fuga verso via Carducci, che si intravede sul fondo della foto. È una dimensione collettiva che non diminuisce le responsabilità del singolo, e che non allevia neppure le responsabilità – politiche e umane, ben prima che giudiziarie – di quanti coltivarono un’ambigua fascinazione per la violenza. E, d’altronde, fu proprio quella fascinazione a sancire la fine della mobilitazione collettiva e l’inizio degli «anni di piombo». Anche se l’interpretazione di Eco era dunque forzata, essa si rivelò profetica. In qualche misura, come notano nel loro intervento Paolo Fabbri e Tiziana Migliore, «il ‘frame’ interpretativo di Eco ha provocato poi il re-frame della foto!». In sostanza, «Eco ha fatto uso dell’immagine per la sua interpretazione, e questa interpretazione, sedimentata, è a sua volta stata usata e tradotta in una pratica. A Eco si è creduto, tanto da ritoccare lo scatto e ripulirlo dalla partecipazione collettiva, spacciata per superfluo», e, così, «qualcuno, in sordina, ha creato una trasposizione fotografica ad hoc di quel verbo, che ha preso a sostituire la versione ufficiale della foto» (14 maggio 1977. La sovversione nel mirino, in Storia di una foto, cit., p. 141).
Ma l’effetto non si limitò a una re-interpretazione successiva, a una ri-lettura degli «anni di piombo». L’effetto investì infatti gli stessi protagonisti, che, in qualche modo, ri-definirono l’immagine di se stessi sulla base della figura terribile e affascinante dello sparatore di via De Amicis, dell’«eroe solitario» di cui aveva scritto Eco. «Dal momento in cui i media attuano la loro operazione di riduzione e definizione», ha scritto proprio a questo proposito Maurizio Lazzarato, «il discorso sul terrorismo e la posizione combattentistica dentro al movimento crescono specularmente, presupponendosi l’un l’altro e trovando l’uno nell’altro risorse e ragioni per esistere e svilupparsi», tanto che, alla fine, «terrorismo e pratiche combattenti corrispondono». E, in effetti, ciò che rimaneva dell’estrema sinistra milanese (o della sua frangia estrema) imboccò proprio quel giorno un rapidissimo processo di decomposizione. Anche se «Rosso» continuò le pubblicazioni, trasferendo il baricentro fuori da Milano, la sua funzione di direzione politica venne di fatto superata dall’escalation militarista che inghiottì le vite di molti giovani e giovanissimi, tra cui anche quelle dei protagonisti del folle blitz di via De Amicis. Ferrandi – giudicato, al termine del processo, come l’autore del colpo di pisola che uccise Custra – aderì a Prima linea, formatasi pochi mesi dopo sull’ossatura di «Senza Tregua». Memeo entrò invece nei Proletari Armati per il Comunismo, la piccola formazione armata di cui fece parte anche Cesare Battisti, e in cui si fusero, senza ormai alcun collegamento con prospettive di azione politica, militanti di estrema sinistra e componenti della micro-criminalità. Colombo, De Silvestri e Barbone - insieme all’ex brigatista rosso Corrado Alunni e ad altri – diedero vita invece alle Formazioni comuniste combattenti, ma Barbone avrebbe proseguito la propria attività con la fondazione della Brigata 28 ottobre, la cui principale azione criminale fu l’assassinio di Walter Tobagi, il 28 maggio 1980. Ma, più in generale, l’immaginario fissato nella foto di via De Amicis divenne lo specchio in cui quei giovani potevano ritrovare i contorni di una nuova identità, ri-definendo se stessi come guerriglieri nichilisti. A partire da quel momento – per effetto anche della straordinaria e terribile forza suggestiva dello scatto di Pedrizzetti – quei militanti videro se stessi, sempre di più, come gli sparatori del cinema poliziesco. E finirono forse per pensare a se stessi come a un nuovo «mucchio selvaggio». Tanto da gettare il loro futuro sul piatto di una partita fatale.
Damiano Palano


Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, a cura di Sergio Bianchi, Derive Approdi, pp. 166, euro 20.00.







lunedì 13 giugno 2011

Verso il "nuovo Medioevo". Il mondo frammentato e multipolare di Parag Khanna

di Damiano Palano

Quarant'anni fa, nel suo pamphlet Il medioevo prossimo venturo, Roberto Vacca dipinse uno scenario forse eccessivamente pessimista, ma non del tutto irrealistico. Nel suo esercizio di previsione futurologica, Vacca ipotizzava che una serie di incidenti e di coincidenze sfortunate - un blocco dei collegamenti ferroviari e un grande ingorgo nella circolazione stradale - potessero generare una serie di conseguenze disastrose, sul trasporto aereo e sulle linee elettriche e telefoniche. A questi guasti tecnici, secondo Vacca, potevano infatti seguire, piuttosto rapidamente, una serie di reazioni sociali - come i saccheggi di derrate alimentari nei supermercati - rese possibili anche dall'assenza di sistemi di allarme e dall'impossibilità di agire da parte delle forze dell'ordine. Queste reazioni iniziali dovevano innescare nuovi scontri e devastazioni, solo un primo passo verso l'anarchia che sarebbe emersa in seguito. Dopo la fase acuta della crisi, infatti, secondo il quadro dipinto da Vacca, dovevano emergere, nel territorio dei vecchi Stati sovrani, nuovi sistemi politici autonomi, con milizie mercenarie e un'amministrazione autonoma della giustizia, destinati a organizzarsi in una struttura feudale. In altre parole, doveva emergere un nuovo assetto politico ed economico, che avrebbe avuto molti elementi in comune con i 'secoli bui' del Medioevo, segnati dalla violenza, dall'insicurezza, dalla contrazione dei commerci, dalla stasi tecnologica.
Nell'Italia dei primi anni Settanta, le ipotesi di Vacca ebbero senza dubbio il merito di innescare un dibattito sulle trasformazioni che stavano investendo le società industriali, e sui nuovi rischi di una società tecnologica. Proprio commentando lo scenario apocalittico allestito da Vacca, Umberto Eco, per esempio, ebbe modo di proporre un'immagine alternativa - anche se non del tutto antitetica - a quella, fortemente pessimista, di Vacca. Innanzitutto, Eco non poteva non notare come l'immagine del "nuovo Medioevo" attingesse a un'iconografia dell'Età di Mezzo quanto meno semplicistica, se non addirittura caricaturale. Il Medioevo, osservava infatti Eco, individua in realtà un periodo molto lungo e segnato da caratteristiche molto diverse. Ma nessuna delle sue sequenze - anche a dispetto degli effetti della disgregazione della struttura politica imperiale - può essere effettivamente considerata come un'età di 'buio' culturale. Ciò nonostante, Eco considerava seriamente l'ipotesi di un'analogia fra il 'vecchio' e il 'nuovo' Medioevo, e si focalizzava così non tanto sugli aspetti strettamente politici e tecnologici, quanto sull'insieme di processi che conducevano alla costruzione dell'"immagine di un uomo nuovo". In questo senso, la prospettiva della fine del ruolo egemone degli Stati Uniti, l'emergere di nuovi "barbari", la crisi ecologica ed energetica, costituivano solo la cornice di un ben più ampio mutamento culturale, di cui Eco tentava di scorgere i segnali nei fermenti delle controculture degli anni Settanta, nei movimenti giovanili e nel successo di pratiche neo-religiose. I caratteri del nuovo Medioevo erano così, per esempio, la "vietnamizzazione del territorio" (resa visibile dalla creazione di polizie private, ma anche di quartieri e zone cui era precluso l'ingresso alla forze dell'ordine), il deperimento ecologico, ma anche, per un altro verso, l'affiorare di pratiche di neonomadismo, l'emergere di un'"insicurezza" psicologica, prima ancora che storica, la rinascita del principio di autorità o il ruolo politico degli intellettuali.
In particolare, nello scenario illustrato da Eco, un posto fondamentale - se non forse quello centrale - era occupato dai "nuovi barbari", i quali assumevano i contorni dei millenaristi postmoderni, ma anche i tratti della violenza metropolitana: sia di quella che mostrava un'esplicita colorazione politica, sia di quella che prendeva corpo ai margini di eventi sportivi e di grandi manifestazioni musicali. La figura dei nuovi "barbari" - seppur dipinta con minore simpatia di quella che trapelava dalle pagine di Eco - emergeva d'altronde anche dalla letteratura sull'"ingovernabilità", destinata ad accrescersi nel corso degli anni Settanta. Agli occhi di molti osservatori, infatti, i "nuovi barbari" non costituivano semplicemente un aggiornamento del vecchio conflitto di classe, ma si inserivano pienamente all'interno dell'assetto di una "società postindustriale", fortemente dipendente dalle nuove tecnologie e, per questo, molto più vulnerabile rispetto al passato.
Negli anni seguenti, Eco avrebbe ulteriormente approfondito i propri interessi per la vita politica culturale dell'Età di Mezzo, confluiti in seguito nel Nome della rosa. Un romanzo in cui ovviamente è facile intravedere, in filigrana, l'accostamento fra il 'vecchio' e il 'nuovo' Medioevo, tanto che, secondo alcuni, il best seller di Eco può essere addirittura letto come una sorta di romanzo sugli anni Settanta del Novecento. Ma l'idea del "Nuovo Medioevo" ha avuto anche una certa fortuna negli studi politologici, perché diversi studiosi hanno utilizzato questa metafora per sintetizzare le trasformazioni dei sistemi politici occidentali e, soprattutto, del sistema internazionale, nel corso dell'ultimo quarantennio.
In campo internazionalistico, tra i primi a utilizzare l'immagine del "Nuovo Medioevo" fu senz'altro Hedley Bull, uno studioso di origine australiana che viene oggi collocato tra dei padri della "scuola inglese" di Relazioni Internazionali. In The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics (Palgrave, Basingstoke, 1977; trad.it. La società anarchica, Vita e Pensiero, Milano, 2006), Bull prendeva in considerazione (anche se solo in chiave problematica) l'ipotesi che il sistema interstatale fosse destinato a trasformarsi. E, proprio articolando questo scenario, individuava quelle tendenze che, in seguito, sarebbero diventate evidenti a molti: la crescita dell'integrazione sovranazionale fra Stati sovrani, l'erosione del monopolio della forza legittima delle unità statuali e la 'privatizzazione' della violenza, la proliferazione delle organizzazioni internazionali, la contrazione tecnologica dello spazio e del tempo, l'ascesa politica delle realtà subnazionali. Dopo Bull, molti altri studiosi hanno fatto ricorso alla metafora neo-medioevale, per sottolineare il rischio di una violenza politica sempre più incontrollabile (come per esempio ha fatto Robert Kaplan), o per cercare di fissare i contorni di un assetto politico ancora in divenire (come in alcuni suggestivi articoli di Jörg Friedrichs).
Ma la metafora del "Nuovo Medieovo" è anche al centro del nuovo libro di Parag Khanna, Come si governa il mondo (Fazi, pp. 360, euro 19.00), un testo che può essere considerato come una sorta di manifesto per una nuova diplomazia. Direttore dalla Global Governance Initiative per conto della New America Foudation, Khanna è noto in Italia soprattutto per il suo I tre Imperi (Fazi, 2009), un testo in cui proponeva di tornare a una visione geopolitica, pur senza disconoscere l'impatto del processo di globalizzazione. In questo nuovo lavoro, il giovane politologo di origine indiana naturalmente non abbandona le vecchie ipotesi, ma le riconduce all'interno di un nuovo scenario. Uno scenario in cui il nuovo ordine mondiale - l'ordine mondiale già oggi esistente - risulta estremamente distante dal vecchio, ma, soprattutto, di fatto incomprensibile se analizzato con gli strumenti concettuali ereditati dal Novecento.
Il punto di avvio del ragionamento di Khanna è infatti costituito dal riconoscimento che la politica mondiale è mutata in modo irreversibile rispetto al passato. "Il mondo del XIX secolo" - scrive per esempio - "era guidato da poche potenze chiave che governavano le rispettive colonie, quello del XX secolo da due contrapposti blocchi di potere. Ma nel XXI secolo l'idea che l'ordine mondiale possa ancora essere manipolato dall'alto è semplicemente irrealistica" (p. 9). Se la realtà del potere globale è mutata, non esistono però istituzioni adeguate al nuovo assetto che va prendendo forma. E proprio per questo, il mondo appare avviato, se non proprio verso una catastrofe, quantomeno verso una serie di emergenze - di fatto ingovernabili per le istituzioni esistenti - di cui Khanna, nelle pagine iniziali di Come si governa il mondo, fornisce un catalogo piuttosto inquietante, ma non certo irrealistico:

"Le potenze incaricate di mantenere la pace sono anche i principali mercanti d'armi; le banche, che dovrebbero incoraggiare il risparmio, suggeriscono alla gente di vivere al di sopra delle proprie possibilità; gli aiuti alimentari arrivano alle popolazioni affamate quando queste sono già morte. Stiamo andando incontro a una tempesta perfetta fatta di esaurimento delle risorse energetiche, crescita costante della popolazione mondiale, scarsità di cibo e acqua; una tempesta che non risparmierà nessuno, ricco o povero che sia. L'elenco delle crisi si allunga giorno dopo giorno: instabilità finanziaria, AIDS, terrorismo, Stati falliti e quant'altro. Senza contare che ciascuno di questi elementi critici amplifica tutti gli altri, creando una spirale verso il basso che coinvolge singole nazioni e intere regioni del pianeta. Nel giro di appena vent'anni potremmo assistere alla trasformazione delle attuali scaramucce combattute per conto terzi in una guerra di grande scala tra America e Cina, al crollo degli Stati più deboli, all'esplosione di conflitti per le risorse fossili di gas e petrolio sotto la superficie degli oceani, allo straripare di rifugiati da un'Africa devastata dalla siccità, alla scomparsa delle isole del Pacifico" (p. 10).
Dinanzi a queste nuove minacce, sarebbe necessario - secondo Khanna - un nuovo disegno istituzionale. Quella cui abbiamo assistito negli ultimi anni è, invece, una sostanziale paralisi planetaria, che rende piuttosto difficile anche solo immaginare il raggiungimento di un consenso globale. La soluzione indicata non passa però dal rafforzamento di nuove istituzioni (o dal rafforzamento dell'impegno degli Stati Uniti). Dato che i problemi sono globali, e dato che nascono in un contesto di fortissima interdipendenza, le loro soluzioni non sono affatto semplici. "Non esistendo alcuna nazione che possa governare il mondo in solitario, non c'è neppure una singola istituzione che può essere in grado di farlo funzionare" (p. 12). Per questo, la soluzione proposta da Khanna è piuttosto uno strumento operativo, la diplomazia, o, meglio, una nuova forma di diplomazia. Se infatti, come scrive, "la diplomazia è la seconda professione più antica del mondo", la sfida di oggi consiste nel comprendere che, dato che il mondo è cambiato, dato che politica mondiale non è più gestita soltanto dagli Stati, allora anche la diplomazia deve cambiare. E, in questo senso, il mutamento principale - per Khanna - assume la fisionomia suggestiva, oltre che inquietante, di un "nuovo Medioevo":
"L'età immediatamente successiva alla guerra fredda sarà ricordata per il rapido emergere di un Medioevo postmoderno, di un mondo privo di un'unica superpotenza dominante. L'Est non sostituirà l'Ovest, la Cina non sostituirà l'America, il Pacifico non spodesterà l'Atlantico: tutti questi centri di potere e tutte queste geografie consisteranno invece in un ecosistema ipercomplesso. Il Medioevo era un intricato sovrapporsi di imperi, città, corporazioni, Chiese, orde tribali e mercenari, tutti impegnati gli uni contro gli altri per governare il territorio, controllare le risorse, conquistare scambi e investimenti, sedurre menti e cuori. Lo stesso quadro è di nuovo in via di dispiegamento. Facendo il gioco delle reti transnazionali del terrorismo, del crimine organizzato e del traffico di droga, la globalizzazione ha reso ancora più deboli gli Stati deboli, mentre multinazionali e ONG hanno guadagnato in status e potere. Il numero dei gruppi che esercitano influenza sta crescendo esponenzialmente: le mappe del mondo di cui siamo in possesso non riflettono più la realtà di quanto accade sul campo" (p. 20).
Se spesso la prospettiva del "nuovo Medioevo" si colora di un fosco pessimismo, la visione di Khanna non è invece così negativa. Ovviamente, l'autore dei Tre imperi non nasconde le difficoltà, le minacce, la gravità delle emergenze. E, in effetti, in Come si governa il mondo si confronta con problemi come la povertà, il riscaldamento globale, l'emergere del 'nuovo colonialismo' portato avanti dagli Stati occidentali, dalle agenzie internazionali, dalle Ong e dalle multinazionali, con la proliferazione della criminalità organizzata e (in una connessione spesso stretta) con il terrorismo internazionale. Ma la discussione si chiude però con la visione di un "nuovo Rinascimento", inteso come un assetto politico capace di rispondere alla realtà del "nuovo Medioevo", e, soprattutto, alla realtà - di fatto irreversibile - dell'interdipendenza globale. "Il prossimo Rinascimento", scrive, "sarà quindi una questione che riguarderà l'espansione esponenziale e consapevole delle interconnessioni" (p. 310). Uno strumento fondamentale è rappresentato, per Khanna, da ciò che definisce come "Megadiplomazia": "un ballo improvvisato che coinvolge coalizioni tra ministeri, imprese, Chiese, fondazioni, università, attivisti e altri soggetti dinamici e di buona volontà, affinché cooperino nel raggiungimento di obiettivi specifici"; una diplomazia fatta da 'coalizioni di volenterosi', "che riuniscono attori statali, imprenditoriali e civili intenzionati a non mettere soltanto la firma, ma a impegnare sul campo uomini e risorse" (p. 34).
Comprensibilmente, la prospettiva di Khanna può sembrare a molti piuttosto presuntuosa, fantasiosa, discutibile. Lo scenario può apparire più vicino a una narrazione fantapolitica, che a un'analisi della realtà contemporanea. E, probabilmente, la convinzione riposta nel "nuovo Rinascimento" e nella "nuova diplomazia" può risultare eccessivamente ottimistica. Ciò nonostante, il libro di Khanna coglie una serie di punti che non possono essere sottovalutati, e con cui anche i critici dell'ipotesi del "nuovo Medioevo" non potranno evitare di confrontarsi. Uno di questi è senz'altro il processo di crescente 'regionalizzazione' del sistema internazionale: un processo in virtù del quale - secondo le parole di Khanna - "il pianeta si sta riorganizzando in sistemi regionali distinti, ciascuno dotato del proprio apparato di regole" (p. 95). Un simile processo, benché all'apparenza contraddittorio, non è affatto in contrasto con la crescita dell'interdipendenza e delle interconnessioni. In altre parole, la 'regionalizzazione' non è il contrario della 'globalizzazione', ma, piuttosto, si alimenta dei flussi globali. Ma c'è anche un altro elemento dello scenario descritto da Khanna che non può essere dimenticato. Non possiamo infatti trascurare che il sistema globale non appare più così facilmente interpretabile con le categorie realiste del bipolarismo e dell'unipolarismo, e forse neppure con la formula dell'unipolarismo. "Nessun leviatano universale, nessun parlamento globale, nessuna egemonia americana potrà più trovarvi posto". Piuttosto, come scrive Khanna, "ci stiamo muovendo nella direzione di un mondo frantumato, frammentato, ingovernabile, multipolare, o non-polare". Un mondo a-polare, in cui potrebbero non esistere più grandi potenze (o superpotenze) capaci di controllare realmente la politica mondiale, e in cui gli attori non statali potrebbero assumere un ruolo politico sempre più esplicito. Un mondo ovviamente molto diverso dal Medioevo europeo. Ma i cui caratteri ci costringeranno probabilmente a prendere sempre più sul serio l'immagine, le suggestioni e la sfida teorica del "Nuovo Medioevo".


Damiano Palano

Parag Khanna, Come si governa il mondo, prefazione di Federico Rampini, Fazi, Roma, 2011, pp. 360, euro 19.00.

martedì 7 giugno 2011

Alla ricerca della qualità democratica. Un libro di Marco Almagisti

di Damiano Palano

Negli ultimi anni, ha fatto il suo ingresso nel dibattito la nuova domanda sulla «qualità della democrazia». Alla base di questo nuovo interrogativo sono due grandi tendenze, fra loro apparentemente contraddittorie. Da un lato, dopo la fine della Guerra fredda abbiamo assistito al trionfo planetario della democrazia e, dunque, alla crescita consistente del numero di Stati democratici. Dall’altro, però, più o meno nello stesso periodo, i sistemi politici hanno iniziato a manifestare segnali spesso evidenti di involuzione, rappresentati, per esempio, dal calo di fiducia nella classe politica, da una crescente apatia politica da parte dei cittadini, dall’incremento dell’astensionismo elettorale, dalla riduzione delle iscrizioni ai partiti, dal successo dell’antipolitica e del linguaggio populista. Proprio questi fenomeni – che sono apparsi con grande nitidezza nell’Italia della ‘Seconda Repubblica’ – hanno suggerito, in primo luogo, l’idea che la «qualità» effettiva delle nostre democrazie sia in declino rispetto al passato. Ma, in secondo luogo, hanno portato al centro della discussione la domanda sulla possibilità di ‘misurare’ la stessa «qualità» di un regime democratico, e, dunque, di distinguere le democrazie di ‘bassa qualità’ dalle democrazia di ‘elevata qualità’.
In questo dibattito – cui hanno contribuito, per esempio, Larry Diamond, Arend Lijphardt e Leonardo Morlino – si inserisce anche il libro di Marco Almagisti, che si concentra in modo specifico sulle trasformazioni della democrazia italiana. L’idea di base di Almagisti è che una democrazia solida ed efficiente non si basi esclusivamente su procedure, ma anche su elementi ‘culturali’ che sono in grado di dare un sostegno effettivo alle procedure. Per questo, la democrazia può essere metaforicamente rappresentata come un insieme di tre cerchi concentrici: il primo cerchio è costituito dalle procedure che consentono la libera scelta dei leader di governo da parte dei cittadini; il secondo cerchio è invece rappresentato dal contesto che rende effettiva l’applicazione delle procedure; il terzo, infine, è dato dal processo di legittimazione delle procedure per riconoscimento del loro valore. In altre parole, dunque, secondo Almagisti le procedure democratiche possono sopravvivere solo in un contesto in cui la cultura politica non sia ostile e in cui la legittimità delle istituzioni democratiche si possa consolidare. L’attenzione, dunque, alla cornice ‘culturale’, che – a seconda dei casi – può garantire il successo o l’insuccesso della democrazia.
Quando si riferisce alla ‘cultura politica’, Almagisti si richiama esplicitamente agli studi di Gabriel Almond e Sidney Verba, ma soprattutto all’importante lavoro di Robert Putnam Making Democracy Work, in cui la civicness veniva ricondotta alla presenza di capitale sociale. In effetti, Almagisti ritiene che proprio il capitale sociale costituisca il ‘secondo cerchio’ che sostiene le procedure democratiche. Ma, a differenza di Putnam, Almagisti non considera il capitale sociale solo come un’eredità storica di lungo periodo, che influisce (in termini negativi o positivi) sul rendimento istituzionale. In altri termini, il capitale sociale può essere ereditato dal passato, ma può anche essere creato dagli attori politici (partiti, corpi intermedi, istituzioni), che, nel corso del tempo, possono produrre e consolidare relazioni di fiducia. E, soprattutto, il capitale sociale esistente (il ‘secondo cerchio’) può essere utilizzato in modo differente, o per rafforzare o per indebolire la legittimazione delle procedure democratiche. Il problema della «qualità della democrazia» riguarda, allora, sia la presenza di capitale sociale, sia i caratteri che il capitale sociale assume (bonding o bridging) rispetto alle procedure democratiche. In breve, «una democrazia di qualità non necessita soltanto che il capitale vi sia (‘secondo cerchio’), bensì che esso dia linfa alla legittimità democratica (‘terzo cerchio’)» (p. 67).
Su queste basi, il lavoro di Almagisti si concentra dunque sulle trasformazioni della democrazia italiana, con un’analisi di lungo periodo che giunge fino a oggi. In particolare, lo sguardo si concentra sulle origini storiche e sulle trasformazioni storiche delle due subculture politiche territoriali italiane: la subcultura socialista e la subcultura cattolica. Ma l’attenzione è rivolta soprattutto a due aree in particolare, la «Toscana rossa» e il «Veneto bianco». Anche Almagisti parte, nella sua analisi, dal Medioevo, ma – a differenza di Putnam – ritiene che le vicende successive siano fondamentali per comprendere la genesi del diverso tipo di capitale sociale. In entrambe queste zone, si registra infatti una notevole presenza di capitale sociale, ma si tratta però di un capitale sociale differente, il cui raggio cambia notevolmente. In Veneto, infatti, i caratteri specifici e il lungo declino della Repubblica di Venezia portano al radicamento di un «senso di estraneità» verso le istituzioni politiche, al quale si accompagna la fiducia nella Chiesa cattolica come istituzione centrale nella società. Al contrario, in Toscana la vicinanza dei gruppi mercantili ai centri politici favorisce uno stile istituzionale ‘interventista’, mentre i tentativi di riforma avviati dai governi ‘illuminati’ lasciano tracce rilevanti nella memoria delle popolazioni. Questi due tipi di capitale sociale si riproducono nel tempo e influenzano molto la formazione dei partiti di massa, fra Otto e Novecento, e, dunque, la nascita della subcultura «bianca» e di quella «rossa».
A lungo, durante la ‘Prima Repubblica’, entrambe le subculture – a dispetto delle differenze – influiscono sul consolidamento democratico soprattutto grazie al ruolo svolto dai partiti. In effetti, «nelle due subculture il capitale sociale non assume solo tratti bonding, bensì sviluppa il proprio profilo bridging, mentre la ramificazione delle organizzazioni partitiche e delle associazioni collaterali agevola l’accesso al sistema partitico» (p. 184). Inoltre, «nel sistema politico italiano le subculture possono essere considerate come ‘casseforti’ del capitale sociale, poiché al loro interno ampi settori della società civile si mobilitano con particolare intensità e si attivano attorno a interessi collettivi» (p. 184). In questo modo, proprio i partiti garantiscono, insieme al consolidamento democratico, effetti positivi sulla qualità della democrazia, perché favoriscono lo sviluppo di forme di accountability orizzontale e di responsiveness fra società e partiti, all’interno di un contesto storicamente caratterizzato da bassi livelli di accountability verticale.
Il momento cruciale, nella ricostruzione di Almagisti, è costituito invece dalla crisi del sistema dei partiti, nel periodo 1992-1994. Ma le radici di questa ‘crisi’ sono più profonde, perché risalgono alla crisi delle subculture politiche, iniziata già verso la fine degli anni Settanta. Durante gli anni Ottanta, i segnali di logoramento delle due subculture politiche non mancano, anche se i risultati sono diversi: la «subcultura rossa» riesce a resistere, a dispetto del declino dei suoi riferimenti simbolici, soprattutto grazie al ruolo centrale svolto dal partito (Pci e poi Pds) e dalle istituzioni locali nella regolazione politica dello sviluppo; al contrario, in Veneto, con la secolarizzazione religiosa, entrano in crisi sia la centralità della Chiesa ma anche la Dc, intesa fino a quel momento come partito-strumento. Ma, in questo momento, riemerge anche la specificità del tipo di capitale sociale che caratterizza il Veneto: un capitale sociale bonding, contrassegnato dall’estraneietà nei confronti delle istituzioni (locali e nazionali) e dei partiti tradizionali, che viene utilizzato, in un primo tempo, dalla Liga Veneto e, in un secondo tempo, dalla Lega Nord. Il Veneto appare dunque, negli anni Novanta, come una «filigrana strappata»: il capitale sociale preesistente non viene meno, ma si trasforma da capitale sociale bridging in capitale sociale bonding; inoltre, la Lega alimenta l’ostilità verso il centro politico e, in questo modo, contribuisce al ‘disancoraggio’ del capitale sociale rispetto alle istituzioni. Anche la nascita di Forza Italia non produce effetti rilevanti sull’ancoraggio democratico, sia perché non agisce in modo rilevante sul contesto locale, sia perché i successi elettorali del partito di Silvio Berlusconi non consolidano in Veneto una nuova subcultura politica territoriale «azzurra». La lunga transizione sembra però procedere, soprattutto con le elezioni del 2008, verso una nuova ‘riterritorializzazione’ del voto, proprio nelle due aree suculturali.
Nella sua analisi, Almagisti concorda dunque con le ricerche che mostrano un declino della «qualità democratica» nel sistema politico italiano. Questo declino è alimentato da fenomeni diversi, ma uno dei principali fattori di questo declino – accanto al peculiare assetto del sistema della comunicazione, al rafforzamento dell’esecutivo rispetto al Parlamento – è naturalmente la trasformazione dei partiti, che influisce molto negativamente sulla dimensione dell’accountability. Naturalmente, non mancano segnali di mutamento, relativi agli effetti del bipolarismo e del decentramento. Ma il futuro della qualità democratica, per le caratteristiche del sistema politico italiano, dipendere soprattutto dalla capacità dei partiti di svolgere un ruolo di «cerniera» fra società e istituzioni. «L’opera di mediazione e di conversione delle domande, degli interessi e delle identità da parte dei partiti verso il sistema politico», scrive infatti Almagisti, «resta fase ineliminabile perché si possa pervenire a livelli maggiori di accountability e di responsivness». E, dunque, «il miglioramento delle connessioni partitiche fra società e istituzioni resta un passaggio necessario per una democrazia che intenda incrementare la propria qualità» (p. 320).
Per molti versi, il libro di Almagisti può apparire come una ‘inattuale’ celebrazione del ruolo dei partiti in un’era ‘antipolitica’. Al di là di questo aspetto, la ricerca di Almagisti ha comunque parecchi meriti, il primo dei quali è il tentativo di articolare efficacemente l’indagine teorica sulla democrazia di qualità (e sulle sue basi) con un’analisi empirica puntuale, centrata sulle trasformazioni delle subculture locali. Un altro merito consiste nel considerare il capitale sociale come una dimensione complessa, il cui rapporto con le istituzioni democratiche non è né stabile nel tempo, né sempre necessariamente positivo (come mostra in modo emblematico il caso del Veneto). C’è inoltre un altro elemento interessante nello studio di Almagisti, che riguarda il modo di studiare la ‘cultura politica’ di un sistema locale. A differenza di una tradizione cospicua, Almagisti (seguendo in questo caso alcune importanti indicazioni di Percy Allum), ritiene che la ‘cultura politica’ non possa essere distinta dall’insieme della ‘cultura’ di un contesto locale. Ma, soprattutto, ritiene che la fisionomia interna di una ‘subcultura’ possa essere ricostruita solo con una prospettiva centrata sulla dimensione locale, in grado di cogliere l’importanza degli elementi simbolici, delle identità collettive, dell’ethos di una comunità: elementi che peraltro non sono affatto elementi ‘cristalizzati’, ereditati dal passato e conservato nel tempo, bensì elementi in costante trasformazione, che influiscono sui mutamenti istituzionali.
È d’altronde proprio l’attenzione ai valori, e a ciò che Giovanni Sartori chiamava ‘capitale assiologico’, a caratterizzare caratterizzare l’indagine di Almagisti e a costituirne l’aspetto di maggiore originalità nell’ambito delle indagini sulla «qualità della democrazia». Proprio questa intuizione consente infatti di comprendere come alla base di una democrazia non stia solo un insieme di procedure, ma anche una dotazione di ‘capitale assiologico’. Una dotazione che influisce sul modo di intendere quelle procedure, e, dunque, sui mutamenti nei confini, negli obiettivi e nelle stesse condizioni di un regime democratico.

Damiano Palano


Una versione diversa di questo testo è apparsa in «Journal of Modern Italian Studies», 2011, n. 2.



Marco Almagisti, La qualità della democrazia in Italia. Capitale sociale e politica, Carocci, Roma, 2009, pp. 368.

domenica 5 giugno 2011

Il lungo tramonto. L’ascesa e il declino degli imperi nell’analisi di Paul Kennedy

di Damiano Palano 

Quando fu pubblicato, nel 1987, Ascesa e declino delle grandi potenze (Garzanti) divenne immediatamente una sorta di best-seller. Ciò che ovviamente attirò l’attenzione sul libro più famoso di Paul Kennedy, innescando inevitabilmente qualche polemica (e molte critiche), non era il tentativo di comparare le dinamiche di ascesa e declino delle grandi potenze occidentali, ma la previsione formulata nell’ultimo capitolo del libro. Proiettandosi verso il XXI secolo, lo studioso inglese, docente di storia a Yale, profilava infatti l’ipotesi di un imminente declino degli Stati Uniti. In particolare, sottolineava l’importanza di di diversi fattori negativi, come la perdita di competitività dell’economia americana, il forte indebitamento con l’estero e la dipendenza dalle importazioni di prodotti agricoli. Dinanzi a queste tendenze, sosteneva Kennedy, era inevitabile che si verificasse quello stesso meccanismo di overstretch imperiale, che aveva segnato il declino della Spagna imperiale, intorno al 1600, e dell’impero britannico, negli anni a cavallo del 1900. In modo analogo, anche gli Stati Uniti sarebbero stati spinti sulla via del declino politico da un’estensione degli impegni strategici sempre più insostenibile da parte del sistema economico.
Qualche anno prima, Kennedy aveva però pubblicato un volume altrettanto importante, Ascesa e declino della potenza navale britannica, ora disponibile, in una nuova edizione, anche per il lettore italiano (Garzanti, pp. 532, euro 35.00). In questo testo, lo storico inglese individua il medesimo meccanismo dell’overstretch imperiale anche a proposito del caso britannico. Ma riprende anche le vecchie tesi di Alfred T. Mahan, il contrammiraglio della marina americana considerato il fondatore del filone ‘navalista’ della geopolitica classica. In sostanza, Mahan riteneva che la conquista dell’egemonia mondiale dipendesse dal possesso della supremazia navale. E Kennedy riprende proprio quest’idea, considerando dunque l’ascesa dell’Impero britannico come un risultato della sua potenza navale. Ovviamente, alla base di questa supremazia stava anche la straordinaria espansione economica garantita dalla rivoluzione industriale. Ma proprio il combinarsi della crescita economica con la costruzione dei nuovi velieri transoceanici garantì all’Impero britannico la supremazia mondiale fra il XVII secolo e la fine del XIX. Anche quella straordinaria potenza imperiale – come mostra l’ancora oggi appassionante analisi di Kennedy – non poteva però sottrarsi al fatale meccanismo dell’overstretch. L’ascesa economica di nuovi rivali iniziò infatti a corrodere le basi del vecchio impero, rendendo sempre più insostenibili gli impegni strategici britannici. 
È piuttosto scontato che il lettore di oggi intraveda in filigrana nelle pagine di Kennedy il più classico dei de te fabula narratur. In altre parole, è inevitabile vedere riflesse, nella storia dell’Impero britannico, le sequenze dell’ascesa americana e del suo – più o meno imminente – declino. Ma è proprio da questa tentazione che mette in guardia lo stesso Kennedy. Misurata con i criteri di Mahan, la supremazia statunitense sui mari, garantita soprattutto dalle portaerei, è infatti ancora straordinaria, e inoltre non sembra affacciarsi alcun rivale credibile. Ma, avverte, «la storia ha l’abitudine di sfatare quasi tutte le previsioni, e di produrre ribaltamenti che rendono obsoleti gli assunti comuni». D’altronde, «se la potenza navale statunitense appare sicura per molti anni ancora», secondo Kennedy «la posizione strategica complessiva del paese lo è molto meno». Sono infatti due i rischi principali. «Il primo, paradossalmente, sta nell’eccessivo logoramento dell’apparato militare americano dovuto al rapido ed estensivo intervento nel Medio Oriente, e poi nel territorio interno di cui parlava Mackinder», ossia in Asia centrale. Invece, «il secondo pericolo sta nella vecchia nemesi che attende la debolezza economica e fiscale». Il problema, in questo senso, non risiede nelle strutture produttive e tecnologiche, ancora notevolmente competitive, ma nella fragilità finanziaria. «I deficit federali e statali, e il cronico squilibrio della finanza pubblica (dovuto non solo alle eccessive spese militari, ma anche al finanziamento della previdenza sociale e del Medicare, nonché al miglioramento delle infrastrutture e della sicurezza interna) prospettano una notevole precarietà nella conservazione dell’attuale egemonia americana nel lungo periodo». 
Negli ultimi anni, Kennedy ha sottolineato più volte – e anche sul numero in uscita di «The National Interest» – come il declino degli Stati Uniti, pur considerato in una prospettiva non di breve periodo, sia comunque un processo di cui tenere conto. «Questa nazione privilegiata – si è tentati di dire, sovraprivilegiata – possiede attorno al 4,6% della popolazione mondiale, produce circa un quinto della produzione mondiale, e, incredibilmente, punta a spendere più del 40% dell’intera spesa globale per la difesa». Proprio per questo, prima o poi, emergerà il classico problema dell’overstretch. Per Kennedy, non si tratterà comunque di un crollo repentino. «I grandi imperi, o le egemonie, o le potenze number-one (qualunque termine si preferisca) crollano raramente, se non mai, in modo rapido, spettacolare. Piuttosto, declinano lentamente cercando di evitare collisioni, scartando gli ostacoli che emergono». In questo senso, la domanda principale non riguarda allora tanto il declino in sé, quanto il modo con cui gli Stati Uniti affronteranno questo processo. In qualche misura, si tratterà proprio della situazione in cui si trovò l’Impero britannico fra le due guerre. E anche per questo, quando i leader americani nei prossimi si troveranno alle prese col problema del cambiamento del loro ruolo di potenza globale, secondo Kennedy tornerà ad affiorare proprio la vecchia, per molti versi screditata, prospettiva dell’appeasement

Damiano Palano